giovedì 29 giugno 2006

Melodium: "There Is Something In The Universe" (Disasters By Choice, 2006)


















Una musica nata per caso.
La storia che porta questo adolescente mai cresciuto a comporre le sue musichette è molto tenera e singolare. Dall’età di 10 anni, con i pochi strumenti a disposizione, si è cimentato nel proporre i suoi sogni, i colori dell’arcobaleno, attraverso ingenui acquarelli elettronici. Acquisita esperienza con i propri giocattolini, e passato diverso tempo, all’età di 24 anni, entra in contatto con un certo Glen Johnson, sì, proprio lui, il front-man dei Piano Magic. Il fortuito “incontro” avviene attraverso la richiesta di un disco degli Isan, “Beautronics”, tramite l’etichetta di Glen (una sublabel della Rough Trade, la TugBoat Records). In contemporanea, Laurent, spedisce alcune cassette con i suoi motivetti registrati, tentando la fortuna. Il destinatario apprezza ed è in questo istante che inizia la carriera di Melodium, con il primo 7”, il meraviglioso “Rhythmi”.
Esplorando in lungo e in largo tutte le potenzialità espressive della commistione tra strumenti acustici e strambi trattamenti elettronici, in questi anni, Laurent, è riuscito a cesellare una delle formule più interessanti ed attraenti in un ambito così affollato e in crisi di sovrapproduzione. Attraversando con cautela ed attenzione i suoi tratteggi sonori si può percepire un qualcosa di tradizionale ma al contempo estraneo, una mistura di sensazioni differenti, piccoli rintocchi gentili, un soffio di freddo vento glaciale, caldi ritmi danzanti.
Particolarmente significativi, per quanto riguarda la produzione passata, il primo disco sulla lunga distanza “QuietNoiseArea”, e il recentissimo “La Tête Qui Flotte”. Due rigoli di rugiada freschissima, pungenti e dolci, pacati e timidi nel loro modo di entrare in contatto con le corde emozionali.
Concentrandosi sul disco in questione, c’è una prima cosa da sottolineare: è pubblicato da un’etichetta italiana, romana, per la precisione. La “Disasters By Choice”. Uno dei fondatori della label, Salvo Pinzone, si è interessato da sempre alla musica di Melodium, pubblicando diversi dischi anche in passato, supportando il musicista in fase di mixaggio. L’etichetta rappresenta una realtà di grande valore artistico nel panorama italiano, dimostrando come l’ambiente cosiddetto “indie”, nel nostro paese, non sia completamente assente.
L’opera è una scatola colorata che sprizza colori sconosciuti, quando si chiude su sé stessa, schiva e timida, quando rivela tutte le sue interiora, emanando melodie giocattolose e ripetitive, componendo la colonna sonora adatta a un mondo decorato da un mattino soleggiato e un pomeriggio mai troppo dolente nel dover lasciare spazio alla notte.
Le quindici tracce qui proposte contribuiscono nel creare un’atmosfera pacata e sognante, attraverso l’uso moderato e gustoso di manipolazioni elettroniche, un utilizzo mai eccessivo né disturbante, solo un elemento per rendere più intenso l'apporto dato dai tutti gli strumenti usati: la chitarra acustica, quella elettrica, qualche nota di banjo, varie percussioni elettroniche e non.
“Prologue” è un introduzione quantomai interrogativa, sorretta da dondolanti loop estatici, la successiva “The Plio-Scene Is Away” smembra il normale andamento di un accordo innocente e inconsapevole, sovrapponendo, mano a mano che il tempo passa, cigolanti timbri glitch, rumorini metallici, sibili soavi, gracili strutture minimali.
Soave motivetto primaverile in “Weird Voices Inside My Head”, decorato da un beat claudicante, reso lucente da una nota di chitarra che scappa veloce, lasciando dietro di sé una scia piena di colori vivaci.
Scoppiettio intermittente nella stupenda “Please, Destroy The Piano”. Un synth balzella come una pallina di gomma, scomposizioni synth-etiche sfasciano e ricuciono, implosioni elettroniche sconquassano tutto e niente. Un gioiellino guarnito da una patina rigogliosa.
Coppia di episodi ombrosi: rimbalzi di chitarra nella oscura “He Will Be Killed Tomorrow”, desolazione e ossessioni in “In A Complete Solitune”.
Appare la voce con un fare estasiato, attorniata da una musica inusuale e cullante (“You Are No One, Like Everyone”), singulti si fanno largo proliferando con velocità inimmaginabile in “Dragged Down Into The Bottomless Hole”.
Nella seconda parte del disco si sentono forti somiglianze con un artista dalle coordinate musicali simili, un altro francese, Montag. In episodi come “The Can't Get Inside Of You” o “The House Is Surrounded” si sente una forte volontà di ricerca, senza fossilizzarsi su certe linee melodiche già troppo battute. Inoltre, le similitudini con il conterraneo si fanno sempre più vicine, quasi avessero inconsapevolmente accordato di lavorare assieme.
Alto tasso di creatività nel finale, attraverso la sequenza di tre gemme a nome “I Know Is Crimes”, “Do You Remember That?” e “Of Course, I'm Guilty”. La prima effigia un ritmo schiamazzante, con ancora la voce a supporto, la seconda sfiora il limite della musica concreta, ibridando campionamenti e composizione tradizionale, la terza è un’amabile canzonetta scomposta.
Conclude con dolcezza e tatto l’amabile title-track, impreziosita da xilofoni, nastri in reverse, deliziosi rumorini con il sorriso smagliante.
“C’è qualcosa nell’universo”, recita il titolo. Ad oggi, l’unica stella meritevole d’aver luce propria è questa opera, silenziosamente attraente e velocissima, vagante nello spazio immenso.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

sabato 24 giugno 2006

Playlist of the week -- 17/06 - 23/06

in risalto:











Cassiopia: "Blue Bird Tone" (360°, 2003)

sotto il moniker si nasconde miroque, la deliziosa artista elettronica giapponese.

già autrice del bellissimo Botanical Sunset, in questo album riesce a sviluppare ulteriormente la sua scrittura, cesellando bozzetti elettronici di raffinatezza artigianale, con un gusto molto minimale, quasi concreto. fra un piccolo battito che scorre felice fra le orecchie, ed uno sfrigolio di synth che sprizza colori, s'intromette un piccolo rumorino misterioso, quasi in maniera dispettosa, senza chiedere il permesso.












Worm Is Green: "Automagic" (Arena Rock, 2004)

elettronica dal nord, fredda e gelida. Islanda, precisamente.

il disco è veramente un gioiello, ibridando con sapienza e fantasia fantasmi del trip-hop che fu, in una salsa vagamente glitch, con l'aggiunta di una angelica patina pop.

dall'intro saltellante, animato da spiriti schizofrenici, della title-track, attraversando le sinuose sembianze di The Robot Has Got The Blues (cantata splendidamente), fino alla ballata piano/elettronica strappa-lacrime di Shine.

la bellissima cover di Love Will Tear Us Apart dei Joy Division marchia a fuoco il disco, calato in un'atmosfera quando ombrosa, quando schiva, gentile e scostante. un pezzo magico, trasformato, palpitante, un viaggio nel mondo degli inferi del signor curtis.

scomposizioni pop d'alta scuola, nella sorprendente Morning Song, mai doma, e ritmicamente scomposta, quasi sconclusionata. la voce di Gudridur Ringsted è una pugnalata al cuore.

non mi rimane che citare la malinconica Outline, con la voce di Birgir Hilmarsson degli ampop.

la più bella ossessione di queste settimane, questo disco.

lasciatelo scorrere senza paure, piano piano riuscirà ad ammorbare ogni piccola parte di voi.

poco altro:

Holy Sons: "I Want To Live A Peaceful Life" (7)

Phon°noir: "Putting Holes Into October Skies" (7,5)

Tenniscoats: "The Ending Theme" (7)

Secede: "Tryshasla" [8]

Worm Is Green: "Push Play" (7)

Midlake: "The Trials Of Van Occupanther" (7-)

Aki Takahashi: "Piano Works" [8]

Art Of Noise: "The Best Of The Art Of Noise" [8]

The Racounters: "Broken Boy Soldiers" (4)

giovedì 22 giugno 2006

William Schaff













ho scoperto, grazie alla segnalazione di una persona speciale, questo artista, già apprezzato inconsapevolmente attraverso le ultime cover degli okkervil river e di song:ohia aka jason molina.

questo artista è davvero un pazzo, quasi visionario nelle sue idee.

i suoi personaggi sono animali con chitarre al posto delle gambe, semiumani, scheletri pifferai, visioni paradisiache trapiantate dall'inferno.

ha disegnato cover per artisti magnifici: oltre ai già citati okkervil river e songs:ohia, cliff edwards, locandine per drekka e iditarod, ancora dischi per Darren Jackons ed altri.

una citazione a se per una band che amo particolarmente, gli eyesores..due i dischi finora pubblicati: May You Dine on Weeds Made Bitter by the Piss of Drunkards e Bent at the Waist.

queste le due copertine, rispettivamente:




























a me, sopratutto la prima, ha impressionato per espressività e disorientamento cromatico..

lo sguardo dell'uomo è molto deluso, quasi malinconico, gli oggetti posti in maniera disordinata, l'atmosfera leggermente straniante. bellissima, piena di senso. un gioiellino.

la cover di songs:ohia che più apprezzo è proprio la sua, quella di Magnolia Electric Co. del 2003.


















ne rimango folgorato ogni volta che prendo l'album in mano..

il fulmine e il fiore ai due angoli del disegno, il gufo dolente in posizione di preghiera..

una serie di immagini adatte ad ogni tipo di interpretazione..

per finire, un'altra copertina magnifica di un'altra band interessante, gli In Gowan Ring


















lo stile è quello, ed ho trovato molte similitudini con il booklet dell'ultimo degli Okkervil River (Black Sheep Boy). rosso scuro, nero, qualche tocco di grigio.. sguardi dolenti..

non so che farci, amo tutti i suoi disegni..

altri lavori si possono trovare sul suo ricchissimo (e bellissimo) sito.

mercoledì 21 giugno 2006

Verdure: "The Telescope Dreampatterns"


















è folk? forse sì..

ci sono varie svisate rock, con strumenti di contorno molto belli ed evocativi..

percussioni di ogni sorta, voce sofferta e malandata, un numero impressionante di strumenti acustici sconosciuti e un sacco di amenità sonore provenienti chissà da quale strumento..

composizioni tuttosommato regolari, non troppo sconclusionate, ma al contempo movimentate, registrazione decisamente lo-fi, molto essenziale..

la durata dei pezzi è immediata, non si superano i 4 minuti. questa scelta è mirata e voluta, visto che permette di cesellare canzoni non prolisse e ridondanti, in cui le idee vengono concetrate nell'arco di pochi minuti, rendendo ogni singolo episodio molto coeso e mai dispersivo..

non da ascoltare a rotazione, ma in una notte malinconica fa sempre il suo effetto..

lunedì 19 giugno 2006

Playlist 10/06 - 16/06

in risalto questi:


















Aoki Takamasa + Tujiko Noriko: "28" (Fatcat, 2005)

lo riascolto dopo mesi ed è sempre la solita emozione.

Vinyl Words è una delle più belle canzoni ascoltate in questi ultimi anni. la mia favola preferita.

tujiko al suo apice espressivo come cantante e musicista.

[8]

















The Dolls are Vladislav Delay - Antye Greie - Craig Armstrong (Huume, 2005)

anche la glitch-girl tedesca non scherza, eh..

questo album, insieme al suo fido Delay e il compositore Craig Armstrong, è puro istrionismo pop.

minimalismi techno, sperimentalismi ritmici, convulsioni elettroniche..

un album che pare un contenitore sul punto di esplodere con forza, ma non ci riesce mai..

l'esecuzione live di star like il 18 aprile (c'erano solo AGF e Delay) è stata stupenda, un turbine d'emozioni incredibile..

[7,5]

















Luke Slater: "Freek Funk" (NovaMute, 1997)

techno dritta, misteriosa, bellicosa.

fulmini elettronici e tuoni ritmici, tempeste digitali, stravolgimenti sintetici.

spesso dimenticato, luke, rimane uno degli artisti elettronici più importanti del decennio scorso.

[8]


















Utada Hikaru: "Ultra Blue" (2006)

finalmente sono riuscito ad ascoltare il nuovo album di utada..

ok, keep tryin' è molto bella..un ottimo singolo, molto ben costruito, con la sua voce sempre in ovvia presenza..

però alcune canzoni questa volta mi son sembrate stanche, un pò fiacche.. non so, forse la sbornia per tomiko van, che ha un modo di scrivere e cantare completamente diverso, mi ha condizionato..

per ora mi pare un album buono ma non bello, al contrario di Exodus, il disco dell'anno scorso..

per me dire queste parole è un grosso dolore, non una delusione, ma ci siamo quasi..

continuerò ad ascoltarlo, sperando di cambiare opinione..

(6,5)


















Edith Frost: "It's A Game" (Drag City, 2005)

forse sarò stato poco attento, ma di questo album non se n'è mai parlato abbastanza..

spesso nel giro del post-rock che conta(va), Edith Frost cesella un album che pare il disegno colorato di un tramonto leggermente nuvoloso..

la bellezza astratta di Emergency, storielle incantate e mistiche (A Mirage, Lucky Charme), sembianze vagamente jazz in My Lover Won't Call.

la sua scrittura è sempre diventata, con il tempo, più profonda e intimista, incentrata nella sviscerazione del dolore meno conosciuto, nelle parole non banali, in una storia magari malinconica, in un racconto dai tratti misteriosi. le sue canzoni sono essenziali, prodotte con un tocco appena percettibile, gentilmente cantate, eseguite con il cuore in mano.

non riesco a togliermi dalla testa alcuni frangenti, rimangono dentro il mio cuore anche dopo l'ascolto, incredibile il suo modo di lasciare indelebile nell'ascoltatore le sensazioni per così tanto tempo. ma forse è soltanto un fatto soggettivo.

fate vostre queste canzoni e non ve ne dividerete più..

(7,5)

questo è il resto:

Dudley Perkins: "Expressions (2012 A.U.)" (7,5)

The Smiths: s/t (7,5)

Boduf Songs: s/t [8]

Annie: "DJ Kicks" (7)

Viktor Duplaix: "DJ Kicks" (7,5)

Robert Hood: "Internal Empire" (10)

Robert Hood: "Nighttime World Volume 1" (9)

Rollerball: "Catholic Paws / Catholic Pause" (7)

AGF + Zavoloka: "Nature Never Produces The Same Beat Twice" (7,5)

Alla Zagaykevych: "Motus" (7)

Taylor Deupree: "Northern" (7,5)

Taylor Deupree & Kenneth Kirschner: "post_piano 2" (6+)

domenica 18 giugno 2006

8 Doogymoto











giappone e germania si uniscono.

cantante nipponica più due musicisti tedeschi.

Fumi Udo la lei, Heinrich Köbberling e Viktor Marek gli altri due.

fanno conoscenza l'un altro per caso in giro per concerti, in Germania, e capiscono che è il caso di iniziare a fare musica insieme.

quando sensibilità simili si incontrano, difficilmente ne esce qualcosa senza passione.

sì, la loro musica è piena di passione e amore, gentilmente adagiata sui quei beat sostenuti ma mai aggressivi, quando un canto giapponese racconta fiabe sconosciute, uno strumento a fiato borbotta scorbutico.

il cantato di Fumi è simile alla prima tujiko noriko, magari più ombrosa e meno "giapponese".

si sente che è rimasta fortemente influenzata dalle vocalist europee, il suo stile è meno cristallino e più minimalistico (c'è un motivo per il corsivo, poco sotto lo si scopre..).

la loro musuica è un mondo a se stante, un piccolo mondo deliziosamente appartato e dispettoso.

quando nel 2000 ascoltai il primo LP rimasi molto sorpreso..

















8 Doogymoto: "Untitled" (reis*/reis-schallplatten, 2000)

elettronica soffice e astratta, qualche accenno hip-hop, piccole scie di colore luccicante.

un album piccolo e prezioso, una stella dimenticata, dispersa, abbandonata a se stessa in un cielo mai così solitario.

quella Ten Million Days rimase dentro le mie orecchie per giorni e giorni, fischiettare una melodia ed essere felici. una favola sonora di rara dolcezza, cesellata dalle mani di un artigiano attento e innamorato del suo lavoro.

tutti potenziali singoli, non c'è un frangente stucchevole, le melodie si incastrano perfettamente nel cantato (ancora un goccio acerbo) di Fumi, le schizofrenie elettroniche non lasciano scampo nemmeno un microsecondo.

e perciò pezzi come As We Go To Eat, Ashimoto e Catch A Ride si distinguono per fantasia, graziosità, gemme non raffinate, lasciate scorrere senza freno posson far male, ma senza esagerare.

dopo il 12" dal nome Dakewa, più sperimentale e meno immediato, arriva il loro primo vero e proprio disco, nel 2003.
















8 Doogymoto: "Minimalistico" (Soundslike, 2003)

il compimento della loro musica.

qua si trova il quadramento di tutte le loro influenze, del modo di intendere la melodia e gli incastri sonori sono perfetti, senza una sbavatura.

la voce di Fumi è completamente attestata su un registro ombroso e minimale, senza eccedere nè strafare. la musica è di difficile definizione. si potrebbe dire indie-tronica, trip-hop, down-tempo. c'è un pò di tutto.

non mi va tanto di etichettare questo sogno musicale, preferisco lasciar andare le parole.

l'iniziale title-track è bella, fatata, gelida, cattiva..

fiati scorbutici, microscopici beat sintetici, frasi ripetute, quasi sussurrate, un piccolo tamburo malandato effigia un ritmo scomposto. un drone sibila fra le fondamenta ammorbate, rigoli di elettronica scintillante schizzano in ogni direzione. non bella, magica.

il synth-pop dondolante e colorato di O-Kyaku scorre via fra sorrisi e tinte attenuate, il minimal-pop di Tabetai regala frangenti di misteriosa bellezza.

un pò di strumenti acustici nella successiva Kaelu No Uta, loop di chitarra, sfrigolii meccanici, tastierine appena sfiorate, la voce ancora più profonda e intensa. il battito della drum-machine è un rintocco deciso e dolce, una folata di vento insistente.

hip-hop mutante, che strania leggermente, in Wash Your Soul con un andamento pazzoide e sconclusionato, Tupperware schianta il silenzio con il suo perfetto connubio fra chitarra, battiti e miscelazioni elettroniche.

Taglia e cuci molto fine e divertente in Parasol, fra un loop vocale in bassa fedeltà, una canzoncina delicata e povera, andamento strano e inqualificabile nella successiva Don't Tell Me, un vortice di intuizioni attraenti.

Dakewa è forse il pezzo più deciso, un techno-pop mai eccessivo, sempre attento a non superare una certa linea di ritmo, gli inserti di synth sono un rigurgito doloroso, ancora la voce, sempre più poliedrica, a ricamare trame melodiche sensibili.

conclude l'elettro-folk-pop scanzonato e sconclusionato di Breathe Out.

sì, sì. sono sicuro che vi innamorerete di questi tre ragazzi.

viva il giappone e (poi) la germania!

mercoledì 14 giugno 2006

ecco i dischi che ho ascoltato in queste settimane, in ordine sparso:



Helios: "Eingya" (7/8)

Tomiko Van: "Farewell" (7,5)

Action Biker: "Action Biker EP" (6+)

Action Biker: "Elephant And Castle" (7)

Action Biker: "Sandy Edwards" (7+)

Rocky Votolato: "Makers" (7)

Maps Of The Heart : "Drawn To Light" (7)

Azalia Snail: "Fumarole Rising" (7-)

Worm Is Green: "Automagic" [8]

Tower Recordings Collection (7+)

Tigerbeat6: "Crack We Are Rock! Cosmic Mind Flight" [8]

The Gris Gris: s/t (7)

Taylor Deupree + Eisi - Every Still Day (7,5)

Gutevolk: "Suomi" (7+)

Miroque: "Siro Cocoon" (7)

Miroque: "Mimi Koto" (6+)

Miroque: "Botanical Sunset" (7+)

Cassiopia: "Blue Bird Tone" (7)

Phosphorescent: "A Hundred Times Or More" (7)

Piano Magic: "The Opencast Heart EP" (7+)

Piano Magic: "Incurable EP" (7)

Opiate: "While You Were Sleeping" (5,5)

Anois: "Tracery On A Frosted Window EP" (7)

And His Voice Became: "3 Tracks EP" (7)

Anomaly: "The Long Road" (7)

Disco Inferno: "D.I. Go Pop" [8]

Disco Inferno: "In Debt" [8]



due paroline su:

















Modern Institute: "Excellent Swimmer" (2006, Expanding)

uhm, sì, è indie-tronica ambientosa e pare pure a prima vista un dischettino caruccio e niente più.

attraverso ascolti approfonditi invece mi sono accorto che l'anima di questa opera è profondissima..

ricami classici e deliziosi, mai invadenti, preziosi e vivaci. elettronica soffice e puntigliosa, piccole instabilità sintetiche fanno da contorno ad una miriade di acusticità lievi e soffici.

cello, violino, chitarra, percussioni minimali, turbine di note spezzettate e mai rumorose, solo leggermente disturbanti.

Stairs è una favoletta tramutata in musica, balzellante e tiepida, Reginatta della Techno un gioiellino di collage sonoro, fra gocce di acqua elettronica che zampillano, un ritmo che sale progressivamente e si scompone al tempo stesso.

Flaka cesella paesaggi ambient-acoustici di rara raffinatezza, con il suo incedere pacato ma internamente movimentato, le note di una tastiera sognante sono povere ed estatiche.

Quadretto di malinconia digitale in Ambientone, il paradiso e i suoi colori in Two Hours Without Ego.

sogni e tinte attenuate, suoni d'acciaio e rumori silenziosi.

(7,5)

venerdì 9 giugno 2006

Helios: "Eingya" (Type Records, 2006)

















 Dopo l’album “Unomia” (Merck, 2004) e svariate tracce disperse per la rete, Keith Kenniff, giovane ed attivissimo compositore americano, conduce finalmente il suo progetto Helios al naturale e quanto mai felice approdo dell’ottima Type Records, per la quale lo scorso anno aveva già licenziato, sotto il moniker Goldmund, quel piccolo gioiello di minimalismo pianistico satie-iano di “Corduroy Road”, oltre ad aver curato il remix di “Dial” di “Deaf Center”, presente sull’EP “Neon City”.

Delle sue due vesti artistiche, Helios è senza dubbio la più complessa ed articolata, nella quale Kenniff riesce a coniugare mirabilmente le fragili parti per pianoforte con un registro sonoro ricco di impronte acustiche ed incorniciato da un utilizzo dell’elettronica discreto e perfettamente integrato con le componenti “classiche”, a creare paesaggi sonori onirici e sospesi, accostabili tanto alla calda fluidità pianistica di Harold Budd, quanto alle astratte esplorazioni ambientali di Eno, quanto ancora alle moderne suggestioni filmiche di un ideale percorso che da Badalamenti conduce fino alle opere di Labradford e Pan American. Tali elementi sono già tutti riscontrabili nell’iniziale “Bless This Morning Year”, che fin dai primi secondi avvolge con la sua melodia circolare i sensi dell’ascoltatore in un’atmosfera ovattata – generata dal perfetto equilibrio tra il fondale sintetico ed il delicato dialogo tra chitarra e piano – lentamente disgregata, dopo un emozionale passaggio pianistico, da un beat man mano più aspro che però, come i pezzi da colonna sonora di Piano Magic, conserva i propri tratti sognanti, senza mai giungere ad intorbidare la cristallina purezza di un suono dai delicati contorni umbratili.

Come facilmente intuibile dal brano introduttivo, tutto il lavoro risulta caratterizzato da un andamento compositivo circolare ed incrementale, nel cui dilatato alveo ambientale il contributo dei vari strumenti si stratifica gradualmente per poi scolorire (“Halving The Compass”), mentre in altri frangenti l’austera asprezza di un beat sporca appena l’immobilità sintetica dello sfondo (“The Toy Garden”), oppure una sospirata speranza dona il cuore all’arioso romanticismo del pianoforte (“Dragonfly Across An Ancient Sky”). Ed in questo risiede una delle qualità più evidenti delle composizioni di Kenniff, quella di riuscire a bilanciare elementi classici, acustici ed elettronici, riempiendo di calore e dolcezza, grazie ad un approccio immediato ed emotivo, le parti suonate, tecnicamente ineccepibili, e finanche i vari drone e field recording ripetutamente affioranti nel corso dei cinquanta minuti dell’album. Così, all’impronta marcatamente classica di “Dragonfly Across An Ancient Sky” – soffusa ballata acustico-pastorale costellata da accenni ritmici e da lievi asperità elettroniche – fa subito da contrasto l’astrattezza ambientale malata di “Vargtimme”, caratterizzata da un unico drone che si srotola con gentilezza e tatto per tutti i suoi quattro minuti, evocando l’inafferrabile quiete orchestrale degli Stars Of The Lid di “The Tired Sounds Of…”. Analogamente, alla tiepida ambientalità introdotta dalla limpida chitarra acustica di “For Years And Years” – forse la composizione più strutturata, ma ben presto digradante verso una quiete ambientale contrappuntata soltanto dalla dolcezza finale del piano – fa da contraltare l’essenzialità sfuggente delle scarne note pianistiche di “Sons Of Light And Darkness”, appena corredate da beccheggi e ticchetti di un fantasma ululante, con un’intensità ed una raffinatezza che riporta alla mente lo splendido “E Luxo So” dei Labradford.

Il marasma di contrappunti libera nell’atmosfera sapori teneri e malleabili, piccole particelle di suono prendono quota ed esplodono con un rumore soave e gentile, microscopiche schegge di fracasso schizzano in ogni direzione. Le note di un piano sofferente piangono i dolori di una vita malandata, il battito di uno strumento meccanico effigia lo scintillare tintinnante di una goccia di rugiada lasciata cadere da un fiore. L’incedere sgangherato di un beat è il fremito di un cuore innamorato delle tinte di un tramonto tremendamente silenzioso.

Kenniff si sbizzarrisce poi in molteplici variazioni del suo registro espressivo, dosando gli elementi strutturali della sua musica, destrutturandoli e riassemblandoli in continuazione, secondo una interminabile serie di combinazioni, tali da produrre sensazioni poliedriche. L’andamento sgangherato di “Coast Off” pare la colonna sonora per un ballo scomposto, un beat sordo e claudicante detiene un qualcosa di attraente, il suono vagamente sghembo del pianoforte viene periodicamente intimorito dalle note di una chitarra mai così dolente. Sul finire, viene lasciata nuovamente possibilità ai tasti del pianoforte di sprigionare emozioni gelide e colorate, prima che gli strumenti prendano a dialogare tra loro, creando un solido contrasto tra la loro calda acusticità e l’astrattezza di echi in lontananza. In quel dolce soffio di brezza primaverile che è “Paper Tiger”, predominano invece sbarazzini accenti ritmici, bollicine digitali trasparenti e brillanti, chitarre liquide ma mai così concrete, prossime addirittura alle dilatate suggestioni acustiche di Jimmy LaValle dei Tristeza, magari appena rielaborate come nel suo “In A Safe Place”, a firma The Album Leaf, il cui fioco sole nordico si affaccia in “First Dream Called Ocean”, piccolo sogno fatato ad occhi aperti, nel quale le tastiere sciabordano libere, in una quieta esistenza ambientale che evoca facilmente le astrattezze di Brian Eno. Infine, “Emancipation” congeda il lavoro con solo poche note di chitarra acustica su una dilatazione di fondo, cesellando nuvole spumose, raggi di luce tenebrosa e sensazioni sconosciute.

Un album timidamente nascosto nella sua timorosa ricerca della felicità, così predisposto ad elargire timbri ovattati e sibilanti, adatto per un giorno di desolata malinconia, cuori fragili da consolare e sonnacchiosi pomeriggi da impreziosire con una musica al cui suono persino la placida contemplazione del trascorrere del tempo smarrisce la propria incoercibile vacuità.

(7,5)

Recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

Tomiko Van: "Farewell" (Avex Trax, 2006)














Il fuoco ardente che teneva insieme una delle più grandi band di pop/rock giapponese si è spento l’anno scorso, il 29 settembre. Il loro nome era Do As Infinity. Dalle ceneri di quel sogno ad occhi aperti è rimasto vagante un angelo dalle fattezze deliziose, la cantante, Tomiko Van.

Giunti al nuovo anno, spunta l’annuncio di un sua prova solista e l’emozione è tanta. Incontenibile. Il titolo è “Farewell”.

Sarà capitato spesso di ascoltare il primo disco di un componente di una band di cui s’è seguito le gesta passo per passo, di cui s’è goduto i più piccoli suoni, pianto per le parole, con cui ci siamo commossi fino in fondo. Chi scrive fa parte di questa categoria.

Questa opera fa sgorgare lacrime ad ogni frangente, tanta è la passione intrisa, l’amore con cui è stata concepita. In queste canzoni c’è un qualcosa di toccante che sgorga incontenibile, c’è la passione per una musica carica di sensazioni, c’è un profondo affetto per gli insegnamenti della band che l’ha lanciata nell’olimpo della musica giapponese.

Il timore che l’opera fosse una stanca copia delle canzoni dei Do As Infinity c’era, purtroppo. Ed invece pare che questo album sia stato elaborato nei minimi dettagli, già da prima della fine della band, perfezionato fino all’ultimo particolare, cesellato con precisione tipicamente nipponica. Per fortuna sono qui a scrivere queste parole.

S’inizia con la title-track ed è già un misto di dolore e felicità a proliferarsi nelle nostre menti. Uno splendido intro sognante composto da xilofono, violino e chitarra fa da preludio alle prime parole di Tomiko. La voce è sempre quella. Cristallina, angelica, precisa ed emozionante. Percussioni appena percosse, un piano scostante e tintinnante, l’interpretazione tutta cuore e amore di Tomiko è il dono ultimo ad un racconto perfetto per i nostalgici.

Si prosegue con il finissimo pop/rock di “Morning Glory”, timidamente adagiato su intrecci chitarristici e una sezione d’archi mai invadente ma, anzi, perfettamente incastonata nel contesto della canzone. Anche in questo caso siamo di fronte agli apici del genere, sempre con un approccio leggermente mesto e ombroso.

Tanto per smentirci fiorisce la sbarazzina “Urara”, un pop incentrato sempre sui vocalizzi di Tomiko, mai stucchevole né banale. Il flauto perfeziona una melodia commossa, il piano dona note che paiono gemme, la batteria detta un tempo quando gentile quando incontenibile. Il ritmo non è mai statico e chiudendo gli occhi si può immaginare un gruppo di bambini per mano che girano in tondo in un prato coloratissimo.

“Essence” sa regalare frangenti di sfavillante bellezza melodica, così racchiusa in un bocciolo che non esplode mai, “Horoscope” si distende in una sconfinata vallata di dolcezza, con timbri delicati e lievi.

La successiva “Complacence” è forse il pezzo più energico del disco, basato su un struttura ritmica elettronica e una serie di accordi chitarristici ben fermi e sostenuti.

Alcuni frangenti vocali sono il volo di un angelo e la scia di luce che si lascia dietro. Un continuo sciabordare di chitarre impazzite pungono i nostri sensi con una forza inaudita, piccoli schizzi sintetici squarciano l’andamento come la spada di un samurai apre in due un corpo.

Ed ancora si rimane impressionati dalla capacità di spazziare fra atmosfere tipicamente appartenenti al Sol Levante (“Nue No Naku Yoru”), canzoni j-pop come poche si possono sentire (“Holy Planet”), racconti d’amore di rara intensità (“Before Sunset”).

La piano-song di “Hold Me…” è intrisa di speranza e affetto, un andamento vagamente jazzato pare emergere man mano che i secondi scorrono e  il risultato finale è leggermente straniante rispetto al resto del disco.

Il finale spetta alla cover della disneyiana “A Dream Is Wish Your Heart Makes”, proveniente dalla colonna sonora di Cenerentola. Già cantata da diverse voci del calibro di Meredith Robertson, Julie Andrews e Linda Ronstadt, Tomiko non ne esce sconfitta né ridimensionata, riuscendo a regalare emozioni come al suo solito.

In definitiva un album che rappresenta la conferma di un’artista squisitissima e uno dei lavori pop più belli provenienti dal Giappone. Raccomandato ai deboli di cuore, a chi ama canzoni semplici ma preziosissime, agli esserini con un sogno da realizzare.

(7,5)

Recensione di Alessandro Biancalana

domenica 4 giugno 2006















Sakaguchi Ango: "Sotto la foresta di ciliegi in fiore e altri racconti"

quattro racconti uno più bello dell'altro, forse uno dei libri di letteratura giapponese più belli che abbia mai letto.

ogni storia è accumunata da una straordinaria forza interiore, l'immagini disegnate con le parole trasmettono emozioni fantastiche, fra un gusto squisito per il macabro e il grottesco, la trasformazione di figure innocenti in essere perversi, suoni che paiono uscire vivi dalle righe.

alcuni frangenti sono un fiorire immaginifico di colori, da tanto le parole prendono vita.

grazie alla marsilio e al grande lavoro di maria teresa orsi per aver pubblicato e tradotto per la prima volta in assoluto questa meraviglia.

ora ho iniziato questo:















Yasunari Kawabata: "Il paese delle nevi"

sto scavando con calma tutta la produzione di questo scrittore dai mille volte, mai un suo libro sembra la fotocopia di un altro, i suoi racconti e le sue immagini proliferano e evolvono continuamente.

in questo libro c'è una descrizione precisa e minuziosa della vita della geisha raffinata ed amorevole, timorosa, un puntino nel contesto di un paese poliedrico. storie malinconiche e schizzate, paesaggi immaginati e un kimono descritto come fosse un quadro sfavillante.

la neve cade lenta e inesorabile, le lacrime di una donna non sanno fermarsi, lo sguardo di un uomo è implacabile.

















Anorak: "14 Secrets We Shouldn't Tell" (7)

un disco di minimal-pop davvero molto intrigante e sinuoso.

qualche fiato che si intromette con dolcezza, un piccolo soffio di elettronica tagliente, voci sussurrano storie, una batteria è puntigliosa.

un piccolo gioiellino.
















8doogymoto: "minimalistico" (7,5)

idem sopra, praticamente. qualche synth in più, spunti più percussivi. solo che questi ragazzi sono giapponesi, perciò mezzo punto in più.



 










RF: "Fails"

RF: "Interno"

RF: "View of Distant Towns"


un grande artista, questo ryan francesconi.

la sua arte è un grande vortice di idee, quando il suono si fa introspettivo e racchiuso in se stesso, quando implode con dolcezza e cosparge nell'aria una miriade di cristalli lucentissimi.

8 a tutti e tre gli album, senza distinzione.

il resto:

Voom Voom: "Peng Peng" (7)

The Get Up Kids: "Guilt Shows" (6,5)

Chauchat: s/t (7,5)

Jamie Barnes: "The Paper Crane EP"

V.O. : "Tape EP" (5,5)

From Tau To Tausend: s/t (7)

Mayapple Weather: "We No Longer Believe In Miracles, We rely On Them" (7)

Josephine Foster: "A Wolf In A Sheep's Clothing" (8)

Sun, Cancelled: "On My 8th Day at Sea Ep" (6)

Belly: "Star" (7)

aerospace: "earth" (5-)

aube: "reworks stefano gentile" (7)

frog pocket: "neck" (6,5)

lazarus: "like trees we grow up to be satellites" (7)

lazarus: "songs for an unborn son" (7)

mocca: "My Diary" (6-)

the lodger: "many thanks for your honest opinion" (7)

zero zero: "am gold" (6)

echo and the bunnymen: "crocodiles" (9)

The Czars: "goodbye" (7)

The Czars: "before...but longer" (6)

The Czars: "the ugly people vs the beautiful people" (7,5)

The Czars: "Sorry I Made You Cry" (amore/10)

venerdì 2 giugno 2006

Josephine Foster: "A Wolf In A Sheep's Clothing" (Locust, 2006)













Appena un anno fa eravamo rimasti incantati da quel quadro composto da colori variegati di “Hazel Eyes, I Will Lead You”, adesso spunta, riesumato da un passato lontanissimo, l’opera più coraggiosa e compiuta di Josephine Foster.

Interamente incentrato sulla reinterpretazione di opere letterarie e musicali d’epoca romantica (da Schubert a Eichendorff, Wolf, Brahms, Goethe), l’album rappresenta un ulteriore evoluzione della musica proposta da questa ragazza amante dei suoni antichi, arcani, mai dimenticati, un mondo scomparso e accantonato da una contemporaneità che tira un calcio al passato senza carpirne il vero significato, non solo musicale.

L’atmosfera sonora che si crea all’interno di questo disco è quella di un regno medievale infestato da demoni cantanti nenie acide e maledette, vagamente sognanti ma ammorbate puntualmente da lancinanti rumori provenienti da strumenti sconosciuti.

L’elemento estraneo che rende questo microcosmo musicale così straniante è la chitarra elettrica, quasi sempre in (piacevole) contrasto con gli accordi incantati di Josephine. Il musicista in questione è Brian Goodman, già presente nel bellissimo “All the Leaves Are Gone “, a nome “Josephine Foster & the Supposed”.

Il susseguirsi delle tracce pare un viaggio nomade fra terre desolate e isolate dalla felicità, pare di vedere una malinconia veleggiare cieli nuvolosi, un piccolo tuono in sottofondo disturba leggermente, sapori mistici inebriano i sensi, il fiorire di rumori allietano l’udito.

L’iniziale “An Die Musik” parte calma e posata, con la voce che sa districarsi fra un frangente oscuro e sussurrato e scampoli di bellezza cristallina, quasi fosse un angelo terreno a cantare la canzone della sua vita. Gli accordi della classica scorrono come un ruscello nel suo corso naturale, improvvisamente deviato da intromissioni estranee. La chitarra elettrica di Goodman non si attenua un attimo, lacerando in continuazione il libero corso melodico di Josephine. I due opposti si scontrano e il vincitore sarà chi riuscirà a trovare la bellezza che sta in questo scrigno finemente decorato.

Si procede con la solenne “Der König in Thule”, un vero e proprio testamento ignoto e imperscrutabile, una novella riferita con parole monche e sfigurate. Le note si smarriscono fra sentieri sperduti e direzioni inimmaginabili, sussurri di un’epoca remota, sensazioni discordanti ma concilianti. Il finale a capella è un brivido di paura misteriosa che percorre ogni singola particella della nostra mente. Il rimbombo di una stanza immensa, completamente vuota, saturata dalle parole di un messaggero maestoso.

“Verschwiegene Liebe“ scorre come una fiaba maledetta, contrappuntata da sussurri aspri e scontrosi, soffi d’aria velenosa, parole dolorose e perdute. Una voce racconta storie sconosciute e incomprensibili, timbri gelidi e taglienti sono un accompagnamento perfetto, attimi di (e)stasi sonora dipingono ritratti irriconoscibili.

Una giornata di pioggia nel sottofondo della successiva “Die Schwestern”, piccoli bisbigli di una sedia malandata effigiano una stanza piccola e intima, un camino con il fuoco crepitante e la musica nell’aria. Ancora un dualismo leale fra l’elettrica e la classica, con un effetto risultante di bellezza indecisa e misteriosa, il tutto termina fra un tuono che ammazza il silenzio e un cigolio che non si zittisce nemmeno alla fine. L’anelito vocale si tramuta sovente in vocalizzi che paiono stille di acqua limpida sgorgante in un rigolo purissimo.

“Wehmut” è arricchita con l’aggiunta di un piano mesto e nostalgico, il cui apporto è spesso decisivo per cesellare un qualcosa di inusuale e magico, spensierato e sospeso in aria. Gocce di suono cadono con dolcezza inaspettata, un mood leggermente più vivace e colorato si insinua progessivamente nelle trame della canzone, donando piacere e felicità. La fisarmonica sul finale è una farfalla che vola felice su un fiore, rivolgendo le ali verso il sole.

Giunge in questo istante la traccia più rappresentativa e coraggiosa del disco, forse la maggior indicazione che ci viene data per immaginare come potrebbe essere il suono futuro dei dischi di Josephine. “Auf Einer Burg” è lunga quasi 12 minuti ed è un improvvisazione psichedelica e cattiva, demoniaca e luciferina. Spore velenose si proliferano in moltitudine e non lasciano scampo, un trio di chitarre sferzanti spaccano in due i sensi disorientando ad ogni attimo, attimi di pace si alternano a coltellate quasi noise, il frastuono chitarristico complessivo concorre nel creare suoni che paiono un’ossessione infernale. Su tutto, il pianto, il richiamo, il gemito vocale lamenta dolore e sofferenza con distacco. Uno sfrigolio elettronico, sul finale, da il colpo di grazia alla nostra mente.

Per farci recuperare fiato e ossigeno, viene collocata come finale l’allegra “Näne Des Geliebten”, una favola immediata e saltellante, fra cori spensierati ed accordi eseguiti con ritmo altalenante.

Forse il disco più bello mai pubblicato da Josephine, forse il più coraggioso e sfrontato, quasi presuntuoso nel suo incedere sommesso ed appartato. La nuova tappa di un cammino artistico di qualità inconfondibili e prospettive future infinite. Sibili arcani e animi erranti, gole profonde e tramonti variopinti, storie dimenticate e cammini interminabili.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana