venerdì 9 giugno 2006

Helios: "Eingya" (Type Records, 2006)

















 Dopo l’album “Unomia” (Merck, 2004) e svariate tracce disperse per la rete, Keith Kenniff, giovane ed attivissimo compositore americano, conduce finalmente il suo progetto Helios al naturale e quanto mai felice approdo dell’ottima Type Records, per la quale lo scorso anno aveva già licenziato, sotto il moniker Goldmund, quel piccolo gioiello di minimalismo pianistico satie-iano di “Corduroy Road”, oltre ad aver curato il remix di “Dial” di “Deaf Center”, presente sull’EP “Neon City”.

Delle sue due vesti artistiche, Helios è senza dubbio la più complessa ed articolata, nella quale Kenniff riesce a coniugare mirabilmente le fragili parti per pianoforte con un registro sonoro ricco di impronte acustiche ed incorniciato da un utilizzo dell’elettronica discreto e perfettamente integrato con le componenti “classiche”, a creare paesaggi sonori onirici e sospesi, accostabili tanto alla calda fluidità pianistica di Harold Budd, quanto alle astratte esplorazioni ambientali di Eno, quanto ancora alle moderne suggestioni filmiche di un ideale percorso che da Badalamenti conduce fino alle opere di Labradford e Pan American. Tali elementi sono già tutti riscontrabili nell’iniziale “Bless This Morning Year”, che fin dai primi secondi avvolge con la sua melodia circolare i sensi dell’ascoltatore in un’atmosfera ovattata – generata dal perfetto equilibrio tra il fondale sintetico ed il delicato dialogo tra chitarra e piano – lentamente disgregata, dopo un emozionale passaggio pianistico, da un beat man mano più aspro che però, come i pezzi da colonna sonora di Piano Magic, conserva i propri tratti sognanti, senza mai giungere ad intorbidare la cristallina purezza di un suono dai delicati contorni umbratili.

Come facilmente intuibile dal brano introduttivo, tutto il lavoro risulta caratterizzato da un andamento compositivo circolare ed incrementale, nel cui dilatato alveo ambientale il contributo dei vari strumenti si stratifica gradualmente per poi scolorire (“Halving The Compass”), mentre in altri frangenti l’austera asprezza di un beat sporca appena l’immobilità sintetica dello sfondo (“The Toy Garden”), oppure una sospirata speranza dona il cuore all’arioso romanticismo del pianoforte (“Dragonfly Across An Ancient Sky”). Ed in questo risiede una delle qualità più evidenti delle composizioni di Kenniff, quella di riuscire a bilanciare elementi classici, acustici ed elettronici, riempiendo di calore e dolcezza, grazie ad un approccio immediato ed emotivo, le parti suonate, tecnicamente ineccepibili, e finanche i vari drone e field recording ripetutamente affioranti nel corso dei cinquanta minuti dell’album. Così, all’impronta marcatamente classica di “Dragonfly Across An Ancient Sky” – soffusa ballata acustico-pastorale costellata da accenni ritmici e da lievi asperità elettroniche – fa subito da contrasto l’astrattezza ambientale malata di “Vargtimme”, caratterizzata da un unico drone che si srotola con gentilezza e tatto per tutti i suoi quattro minuti, evocando l’inafferrabile quiete orchestrale degli Stars Of The Lid di “The Tired Sounds Of…”. Analogamente, alla tiepida ambientalità introdotta dalla limpida chitarra acustica di “For Years And Years” – forse la composizione più strutturata, ma ben presto digradante verso una quiete ambientale contrappuntata soltanto dalla dolcezza finale del piano – fa da contraltare l’essenzialità sfuggente delle scarne note pianistiche di “Sons Of Light And Darkness”, appena corredate da beccheggi e ticchetti di un fantasma ululante, con un’intensità ed una raffinatezza che riporta alla mente lo splendido “E Luxo So” dei Labradford.

Il marasma di contrappunti libera nell’atmosfera sapori teneri e malleabili, piccole particelle di suono prendono quota ed esplodono con un rumore soave e gentile, microscopiche schegge di fracasso schizzano in ogni direzione. Le note di un piano sofferente piangono i dolori di una vita malandata, il battito di uno strumento meccanico effigia lo scintillare tintinnante di una goccia di rugiada lasciata cadere da un fiore. L’incedere sgangherato di un beat è il fremito di un cuore innamorato delle tinte di un tramonto tremendamente silenzioso.

Kenniff si sbizzarrisce poi in molteplici variazioni del suo registro espressivo, dosando gli elementi strutturali della sua musica, destrutturandoli e riassemblandoli in continuazione, secondo una interminabile serie di combinazioni, tali da produrre sensazioni poliedriche. L’andamento sgangherato di “Coast Off” pare la colonna sonora per un ballo scomposto, un beat sordo e claudicante detiene un qualcosa di attraente, il suono vagamente sghembo del pianoforte viene periodicamente intimorito dalle note di una chitarra mai così dolente. Sul finire, viene lasciata nuovamente possibilità ai tasti del pianoforte di sprigionare emozioni gelide e colorate, prima che gli strumenti prendano a dialogare tra loro, creando un solido contrasto tra la loro calda acusticità e l’astrattezza di echi in lontananza. In quel dolce soffio di brezza primaverile che è “Paper Tiger”, predominano invece sbarazzini accenti ritmici, bollicine digitali trasparenti e brillanti, chitarre liquide ma mai così concrete, prossime addirittura alle dilatate suggestioni acustiche di Jimmy LaValle dei Tristeza, magari appena rielaborate come nel suo “In A Safe Place”, a firma The Album Leaf, il cui fioco sole nordico si affaccia in “First Dream Called Ocean”, piccolo sogno fatato ad occhi aperti, nel quale le tastiere sciabordano libere, in una quieta esistenza ambientale che evoca facilmente le astrattezze di Brian Eno. Infine, “Emancipation” congeda il lavoro con solo poche note di chitarra acustica su una dilatazione di fondo, cesellando nuvole spumose, raggi di luce tenebrosa e sensazioni sconosciute.

Un album timidamente nascosto nella sua timorosa ricerca della felicità, così predisposto ad elargire timbri ovattati e sibilanti, adatto per un giorno di desolata malinconia, cuori fragili da consolare e sonnacchiosi pomeriggi da impreziosire con una musica al cui suono persino la placida contemplazione del trascorrere del tempo smarrisce la propria incoercibile vacuità.

(7,5)

Recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

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