giovedì 21 dicembre 2017

Lusine: "Sensorimotor" (Ghostly International, 2017)

 A distanza di quattro anni dall'ottimo "The Waiting Room", Jeff McIlwain continua la sua esplorazione in ambiti elettronici in maniera coerente e proficua pubblicando "Sensorimotor". Frullando house-pop, IDM ed electro, l'artista, anche grazie alla non trascurabile prolificità, ha tragettato certa british techno verso l'house e il pop, in una percorso personale e fortemente identitario a distanza di quasi due decenni dagli esordi.

Il suo nuovo album si tinge di sfumature house e synth-pop, mostrando i muscoli quando serve ed usando la leggerezza e il candore di un vero artigiano. Continuando a collaborare con la moglie Sarah e la talentuosa vocalist Vilja Larjosto, McIlwain fa ancora centro con strumentali dal grande fascino electro-techno (affascinanti i clangori di "Slow Motions"), episodi evocativi e dal richiamo ambient (i flebili suoni di "Canopy"), mantenendo una certa appetibilità con i singoli pop, come al solito molto catchy ed orecchiabili (splendida "Ticking Hands", calda ed avvolgente "Just A Cloud"). La scorrevolezza degli album di Lusine, compreso questo "Sensorimotor", nascondono un'eterogeneità calcolata ed istintiva al tempo stesso, dove una forte predisposizione all'equilibrio e alla misura viene incontro alla capacità di emozionare. Questa sensazione è percepita ascoltando il piacevole alternarsi di vari umori e suoni, temperature, melodie e durate. Se dopo la già citata "Just A Cloud", synth-pop arioso e ficcantissimo, troviamo le flessioni electro di "The Level" – tutta progressioni di synth e layer sonori mutanti – ed ogni cosa ci sembra perfettamente al suo posto, è segno che l'artista ha fatto un lavoro di livello assoluto.

Poco dopo, nel caso in cui vi possa sembra questo un album di passagio o solo vagamente transitorio, potrete trovare le disturbanti membrane vocali di "Witness"- pezzo arrangiato e cantato da Benoit Pioulard -, le quali, fluttuando da un canale audio all'altro, disturbano incantando con malizia. Brano di qualità altissima e pregiata, un perfetto incrocio fra techno-pop e sperimentazione vocale. Sulla falsariga di questa scia melliflua – solo leggermente più speziata – troviamo gli stop&go che sanno molto di 2step britannica nella sinuosa "Won't Forget", poco dopo seguita dalla coda finale dell'album composta da tre strumentali degni dei migliori Gus Gus.

Jeff McIlwain, artista emotivo e calcolatore in parti eguali, mette in mostra tutte le sue qualità in un album corposo, ben rifinito e conciso al punto giusto. Il suo gusto finissimo e totalizzante rende appetibile la musica che produce ad un'ampia schiera di ascoltatori, dando agio a chi ama il pop o l'elettronica più fisica di goderee appieno senza mezze misure.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 26 novembre 2017

Ofeliadorme + Telefon Tel Aviv, 22/11/2017 @ Bologna, Locomitv


Sono grandi le emozioni che colgono gli appassionati quando giunge il momento di riabbracciare personaggi e sensazioni ritenuti quasi perduti. Il progetto Telefon Tel Aviv oltre ad essere uno di questi casi racchiude tutte le caratteristiche di una vera e propria storia da raccontare.

La coppia Joshua Eustis e Charles Cooper, dopo tre album uno più bello dell'altro e un carico di aspettative e talento sulle spalle, si accinge nel 2009 a lanciare il bellissimo “Immolate Yourself” con un tour in tutto il mondo. A pochi giorni di distanza, sul finire dell'anno, arriva la doccia fredda: Charlie Cooper muore in circostanze misteriose, il gruppo immediatamente congelato, tour completato con un sostituto e carriera troncata. Questa brusca interruzione di un percorso che poteva seriamente diventare trionfale, mette in forte crisi la motivazione artistica del compare Joshua Eustis il quale decide di dedicarsi ad altro per non pensare.

Negli anni che lo dividono dall'attimo in cui decide di riprendere in mano il suo passato, l'americano calca i palchi spalla a spalla con band come Puscifer, Nine Ninch Nails, The Black Queen, oltre ad avviare i progetti elettronici Second Woman e Sons Of Magdalene. Nel 2016 si accende la classica scintilla che fa tornare le motivazioni per riprendere in mano un discorso irrisolto e per cui fiumi di parole si erano spesi. Nuovo pezzo, tour in tutta Europa – fra cui alcune date di supporto ai Moderat - e tanta voglia di sorprendere ancora.

Ed è con questa aura di mitologia che la serata viene percepita con grande interesse da parte di tutto il pubblico del Locomotiv, il quale fluisce con il passare delle ore sempre più numeroso. Ad accogliere e scaldare le orecchie degli astanti ci pensano i bolognesi Ofeliadorme. Nonostante un bilanciamento dei suoni poco favorevole alla bella voce di Francesca Bono – purtroppo troppo impastata e confusa la resa finale -, la band si muove agilmente e con efficacia mirabile fra dark-rock, sintesi wave e accenni minimal-synth. Davvero di grande impatto pezzi come “Birch”, “Body Prayer” e “My Soldiers”, sinuose e guidate da rasoiate di sibilante elettronica, pattern ritmici incessanti e una voce che ricorda l'impeto di Siouxsie. Da seguire ed ascoltare, partendo dal nuovissimo “Secret Fires”.

Il tempo di un veloce cambio palco ed è l'ora di Joshua Eustis, il quale inizia il suo show pestando di brutto con nuovo materiale fatto di grovigli IDM fittissimi e molto movimentati, gettando dei grossi dubbi sull'entità del disco che avrà luce molto probabilmente nel 2018, il quale, su stessa ammissione del suo autore, sarà più scuro, arrabbiato e cattivo rispetto al suono ovattato e quasi confortevole dei lavori precedenti. A testimoniare ciò arriva l'esecuzione del nuovo pezzo “Something Akin To Lust”, una tetra staffilata electro-dark decisamente distante dai suoni abitualmente ascoltati nei dischi dei Telefon Tel Aviv.

L'oretta scarsa messa in scena da Eustis da l'impressione di essere una sorta di spettacolo preparatorio ed esplorativo più che un vero e proprio concerto, d'altronde – come si può ascoltare in una recente intervista per un'emittente felsinea – lui stesso prima di riprendere seriamente in mano il marchio ha voluto testare l'impatto sul pubblico del materiale che aveva intenzione di produrre.

Sul finire dell'esibizione, ci pensano le prime note di “The Birds” a scaldare i cuori dei nostalgici, a cui non si possono non dedicare alcune lacrime, oltre ad un altro classico come “You Are Worst Thing In The World”, una tambureggiante e magnifica ballata electro/dance dal sapore agrodolce.

Ed è la bellezza di questa musica che trascende la realtà del live e fa pensare a quanto il duo poteva essere e non è mai stato per colpa di una tragica disgrazia, generando frustrazione ma dando la speranza che nonostante tutto non è ancora il momento di mettere fine ad uno dei progetti elettronici più interessanti del nuovo millennio

domenica 19 novembre 2017

Manitoba + Lali Puna, 17/11/2017 @ Bologna, Locomotiv

 Per suggellare un autunno di concerti imperdibili, il Locomotiv di via Sebastiano Serlio propone, dopo eventi imperdibili come Lamb e Zola Jesus, il ritorno sui palchi dei Lali Puna, con alle spalle un recente ritorno discografico intitolato “Two Windows” e a distanza di sette anni dall'ultimo live bolognese proprio al Locomotiv. Le fisiologiche incertezze dell'uscita discografica rendono questi live un banco di prova importante per una band che dopo un'ennesima pausa tenta di riaffacciarsi sul mercato discografico con qualche punto interrogativo.

Ad aprire la serata ci pensano gli italiani Manitoba, band nostrana nata nel 2015 grazie al sodalizio artistico fra Giorgia Rossi Monti e Filippo Santini, poi aiutati dal produttore Samuele Cangi, responsabile della svolta alt-electro-rock della band. Sulla falsariga di certe alterazioni fra indie-rock ed electro, il trio sul palco non eccelle ma nemmeno demerita, mostrando una frontman femminile molto capace a tenere il palco ed un chitarrista di grande talento. Purtroppo i pattern elettronici a tratti paiono un po' ingessati e poco funzionali al suono complessivo. Chiaramente l'idea di smarcarsi dallo stilema del duo acustico è lodevole, tuttavia senza uno studio attento dell'integrazione fra due componenti molto differenti, si rischia di ottenere un qualcosa che è solo una via di mezzo fra vero cantautorato rock ed electro. Alla base di ciò però ci sono canzoni molto valide, fra tutte la bella “Glaciale”.

Quando salgono sul palco i Lali Puna la domanda più grande è: il chitarrista dov'è? Si sapeva che già da tempo fra Valerie Trebeljahr e Markus Acher non correvano più buone acque nonostante il matrimonio e un'unione artistica durata quasi vent'anni, tuttavia ci si aspettava che la band fosse corsa ai ripari rimpiazzando il leader dei Notwist con un altro componente, quantomeno nelle esibizioni live. Così non è stato fatto ed inevitabilmente la performance ne ha risentito. Nonostante la formazione tedesca faccia dell'elettronica la sua componente fondamentale, è sotto gli occhi di tutti come molta della musica proposta da Valerie e soci abbia nella chitarra uno strumento fondamentale. Ascoltare i pattern di chitarra preregistrati o addirittura simulati con il synth (come nella conclusiva “Faking The Books”), fa storcere la bocca non poco oltre all'atavico problema dei live dei Lali Puna della voce di Valerie che difficilmente esce fuori al cospetto dell'intricato reticolo di suoni.

Nonostante questi problemi di assetto ed equalizzazione, i Lali Puna sono sempre loro ed in grande salute. Le emozioni salgono alle stelle quando l'attacco di “Scary World Theory” fa capolino, mentre la magnifica “Deep Dream” si conferma uno dei migliori pezzi della band, insieme a classici intramontabili come “Left Handed”, “Small Thing”, “Bi-Pet” e “Micronomic”. Ignorato con grande rammarico “Tridecoder”, viene dato ampio spazio all'ultimo album con il pezzo omonimo, “Wonderland”, “The Bucket” e “The Frame”, confermando la non totale riuscita dell'ultima uscita. Come già analizzato in sede di recensione, secondo il modesto parere di chi scrive, il trio berlinese ha nelle mani una carriera ancora non del tutto relegata all'esecuzione dei grandi classici del passato, bensì proiettata al futuro, come ben testimonia il picco di efficacia del live appena commentato proprio coincidente con “Deep Dream”. Sarà solo il tempo a dirci se Valerie e soci sono pronti per diventare grandi una seconda volta.

mercoledì 15 novembre 2017

HÅN + Lamb, 09/11/2017 @ Bologna, Locomotiv


 A distanza di più di vent'anni dagli esordi (l'album omonimo è infatti del 1996) e dopo un pausa durata cinque anni – periodo in cui Lou Rhodes si dedica alla carriera solista – i Lamb tornano sui palchi di tutta Europa con una folta serie di concerti. Dopo “5” del 2011 e l'ottimo “Backspace Unwind” di tre anni fa, il duo di Manchester dimostra di voler far sul serio, dando sostanza ad un ritorno che non è mera riesumazione ma volontà di produrre nuovo materiale ed andare in tour costantemente. Il Locomotiv, come sempre sensibile a tali eventi, accoglie Andrew Barlow e Lou Rhodes in una serata autunnale, ed è fin da subito il pubblico delle grandi occasioni ad accogliere la band.

In preparazione del live principale, si accomodano sul palco gli italiani HÅN, progetto della giovanissima Giulia Fontana. Confessando la totale estraneità all'esistenza di questo solo project prima di questo live, per chi scrive il suono si attesta su un prezioso connubio fra i candori post-pop degli XX e certe tentazioni post-rock misti ad elettronica. Nonostante ad un'attenta analisi si noti una certa approssimazione nell'esecuzione dal vivo delle canzoni, è indubbia – anche dando un ascolto ai pezzi su disco – la qualità di fondo che ispira questa ragazza ed il suo compare. Belli i suoni e la voce, da rivalutare ed ascoltare in futuro.

Andy Barlow e Lou Rhodes si presentano sul palco dopo il tempo del cambio palco ed è subito una grande emozione. La teatralità del vestito e relativo copricapo con cui la Rhodes si accomoda al centro del palcoscenico ricorda la delicatezza dei primi videoclip (vedi “Gorecki” o la stessa “Gabriel”), mentre Barlow si mostra più un animale da djset con canottiera e urli di incitamento. Ed è proprio questa discrasia fra due anime all'apparenza opposte ad aver animato una musica enormemente complessa e significativa. Riascoltando adesso pezzi del passato risalta sempre più quanto la musica dei Lamb sia stata un perfetto crocevia degli anni 90, raccogliendo l'ondata trip-hop, non limitandosi a cavalcarla ma storpiandola con breakbeat, drum'n'bass, inflessioni folk e un'innata anima pop. Tutte queste considerazioni, solo all'apparenza ovvie, sono confermate da un live che raccoglie ogni singola ispirazione e la mette in pratica.

La formazione è composta oltre al duo sopracitato, da un capacissimo e poliedrico batterista danese, da una violinista, un contrabassista (fantastico il suo strumento in legno!) e da un trombettista. Questa folta schiera di musicisti permette all'esibizione, la quale sfiora le due ore di durata, di spaziare fra momenti più concitati e ballabili, sospensioni strumentali e soffici episodi in cui la voce femminile la può fare da padrone, fra cui chiaramente svetta la magnifica “Gabriel”. Dando spazio a tracce mai eseguite dal vivo proveniente dal primo disco omonimo, l'esibizione tocca vette di eccellenza e sorprende per la resa sonora, in cui risalta la purezza della voce della Rhodes e le straordinarie capacità da produttore e musicista di Barlow il quale suona dal vivo praticamente tutto, dalle tastiere, al campionamento della voce fino agli effetti dei vari strumenti. Non manca davvero niente e risulta soddisfatto il fan accanito e l'avventore casuale in cerca di nuovi stimoli sonori.

Come congiunzione fra passato e futuro c'è il nuovissimo singolo “Illumina”, apripista per un un eventuale nuovo disco e posto a conclusione della serata, che prosegue le tentazioni electro-pop, dando spazio al lato più movimentato senza mostrare stanchezza o banalità. Ed è qui che il concerto termina con la speranza e la promessa che non sia assolutamente finita qui la carriera di una della più importanti band dell'ondata trip-hop.

lunedì 9 ottobre 2017

Susanne Sundfør: "Music For People In Trouble" (Bella Union, 2017)


 A distanza di soli due anni dal sorprendente "Ten Love Songs", la cantautrice norvegese Susanne Sundfør, forte anche di un'accresciuta popolarità al di fuori del proprio Paese, torna con "Music for People in Trouble" ed è fin dalle prime note una riscoperta delle origini. Se il suo precedessore sorprese tutti con una decisa virata synth-pop, la sua attuale attenzione è spostata verso l'essenzialità e il minimalismo.

La chiave di lettura di questo album, indipendentemente dallo strumento cardine di una canzone, sia esso uno scarno pattern di chitarra ("Reincarnation") o un piano suonato in punta di piedi (la bella e intensa "Good Luck Bad Luck"), è l'acredine derivante dal contrasto fra il solenne e lo scheletrico. Già un pezzo come "The Sound Of War" mette in note questi concetti, dove se da una parte l'impianto strumentale è quanto di più essenziale si possa trovare, dall'altra abbiamo la voce chiara, limpida e leggiadra che in certi frangenti ha dentro di sé qualcosa di forte e imponente, donando al pezzo un qualcosa di inspiegabilmente stentoreo grazie anche alla coda dal sapore dark-ambient. Nonostante la bella sensazione rilasciata da queste atmosfere l'album, visibilmente un'opera ambiziosa, risulta monco e poco sviluppato, quasi abortito anche grazie a una durata troppo affrettata. Ed è dunque sugli episodi che la qualità generale si alza tantissimo, dove se le tracce già citate svettano sul resto, la fantastica "Undercover" ha ovviamente il predominio, mentre pezzi come "Bedtime Story" e "No One Believes In Love Anymore" gli stanno leggermente indietro in termini di efficacia e bellezza.

Come anche sottolineato per "Ten Love Songs", la Sundfør pare aver perso una coerenza di fondo che le potrebbe permettere di pubblicare un album con il quale davvero spaccare il mercato in due, infatti se i singoli brani anche qui promuovono quasi del tutto il disco, il complesso è sfilacciato e senza un tema sonoro che lo contraddistingua. Non per questo però possiamo ignorare la bellezza del vocal-pop di "The Golden Age", tutto svolazzi di synth e vocalizzi, o la chiusura momentale di "Mountaineers" con la collaborazione di John Grant. Siamo dunque di fronte a un'opera che recupera in parte le origini della musicista nativa di Haugesund, spingendo molto sulla commistione fra un vocal-pop sussurrato e certe trame folk sperimentate con i primi due album, mettendo quasi inspiegabilmente da parte i synth tanto ben accolti in pezzi come "Delirious".

Si sorride dunque a metà ed è davvero un peccato perchè le potenzialità di questa ragazza sono sconfinate quanto la bellezza della sua voce, qualsiasi sia il registro vocale con cui si misuri. Urge dunque una decisa riassettata agli obiettivi da raggiungere, magari lasciando decantare un po' più di due anni prima del prossimo disco.

sabato 16 settembre 2017

Lali Puna: "Two Windows" (Morr Music, 2017)















A distanza di sette anni dall'ultimo “Our Inventions”, Valerie Trebeljahr, orfana del fido Markus Acher (frontman dei ben noti Notwist), in quasi totale solitudine rimette in carreggiata la sigla Lali Puna insieme ai superstiti Christian Heiß e Christoph Brandner (già nei meritevoli Saroos). Nonostante, almeno per chi scrive, non abbia mai avuto molto senso rivalutare in negativo correnti musicali non più in voga a decine di anni di distanza, la domanda principale che ci si pone di fronte a questo disco è: cosa hanno ancora da dire i Lali Puna a quasi vent'anni dagli esordi (Tridecoder è del 1999)?

Il periodo in cui la Germania e il giro intorno alla teutonica Morr Music erano al centro dell'attenzioni di tutte le riviste del mondo indipendente, ha lasciato in eredità artisti e band che sono rimaste nel tempo a fasi alterne. Tante sigle storiche si sono perse dopo esordi sfavillanti (fra gli altri Ulrich Schnauss e Masha Qrella), altri hanno continuato più o meno a rinnovarsi con risultati apprezzabili (ISAN, Notwist), altri sono spariti dai radar lasciando alle spalle opere preziosissime (Styrofoam, B. Fleischmann, The Go Find). I Lali Puna, con stalli e lunghi periodi di pausa, hanno continuato nella loro opera di rinnovamento e riproposizione di certi suoni nel corso degli anni. Com'è dunque “Two Windows”?

Una cosa che va subito detta è che il disco vive di sali e scendi qualitativi che minano un po' il risultato finale. Complice anche una durata non certo immediata, la sensazione che si ha ascoltando molte volte l'album è che la scrittura di Valerie e soci sia un po' appannata ed illuminata dalla solita luce solo a tratti. Se ascoltando il trittico iniziale sembra di essere a cospetto del migliore album mai pubblicato dalla band - “Deep Dream” va annoverata fra le più belle canzoni mai rilasciate dal gruppo -, il proseguimento si siede un attimo su certi stilemi electro-pop stantii (non di grande aiuto Dntel in “The Frame”, “Wear My Hearth” e “Hair Daily Black” non smuovono niente), mentre gli archi di “Wonderland” e la minimali “Bony Fish” e “Birds Flying High” risollevano un attimo il livello complessivo della parte centrale.

Sul finire delle dodici tracce, viene in soccorso la frizzante “The Bucket” - pregevole sopratutto il pattern ritmico -, mentre “Everything Counts On” e “Head Up High” concludono dignitosamente l'album senza infamia e senza lode. Giunti alla fine resta onestamente un po' l'amaro in bocca, complessivamente le atmosfere non sono né troppo ovattate per risultare sognanti né troppo concitate per dare una spinta di ritmo significativa, lasciando l'album in un limbo esattamente a metà.

A salvare il risultato finale ci sono una manciata di canzoni veramente notevoli, capaci di non far rimpiangere i tanti lodati esordi. Siamo dell'idea che per proseguire un discorso compositivo serio la band abbia bisogno di rimanere insieme per almeno un altro album senza pause, trovare la chimica ogni volta dopo anni e anni di stasi è davvero complicato. Tuttavia, ascoltando “Deep Dream” non sarà difficile scorgere le magiche sensazioni che quasi vent'anni fa sconvolsero tanti appassionati.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 30 luglio 2017

Arab Strap, 28/07/2017 @ Bologna, Covo Summer

Nel contesto del cortile interno del giardino del Casalone, il Covo Club ha allestito una bella location per una serie di concerti, perfetto compendio di una stagione di eventi durante tutto l'inverno. L'organizzazione non poteva concludere in modo migliore questa rassegna estiva, chiamando per la quarta volta a Bologna gli scozzesi Arab Strap. Band simbolo di un certo periodo di musica indipendente fra vecchio e nuovo millennio, Malcolm Middleton e Aidan Moffat mettono nuovamente insieme una formazione live a circa dieci anni dal loro abbandono delle scene, pubblicando per l'occasione un doppio omonimo contente rarità e vari pezzi mai realizzati su album, un po' come fu fatto nel 2006 con l'album commemorativo “Ten Years Of Tears” e con un tour che toccò anche in quel caso Bologna.
La formazione, composta oltre ad Aidan e Malcolm, comprende un batterista, un bassista, la violinista Jenny Reeve (già nei The Reindeer Section) e un tastierista. Un fortissimo senso di déjà vu e una sorta di acredine malinconica coglie gli ascoltatori all'attacco di “Stink”, brano di apertura del loro ultimo album in studio “The Last Romance”. Tutta la forza sommessa, implosa e frustrata della musica del duo inglese torna improvvisamente come se non fosse mai completamente sparita. Si prosegue con le sferragliate al limite della cacofonia della stridente “Fucking Little Bastards”, proveniente dal bellissimo “Monday At The Hugh & Pint” - a parere di chi scrive il miglior album pubblicato dal duo -, proseguendo ancora con lo spoken word di “Girls Of Summer”. Già da questi prime esecuzioni, si nota lampante l'adorabile chimica che c'è fra i due, stona sul palco l'accostamento fra l'impeccabile e straordinariamente talentuoso chitarrista che è Middleton e l'atteggiamento da guascone avvinacciato che ha sempre avuto Moffat, cantore della normalità e dei sentimenti terreni. La forza di questa musica sta tutta qui: il contrasto fra la forma a tratti dissonante e violenta, in altri episodi dolce e cullante, e la sostanza fatta di storie di cazzi, fighe, desolazione e sbornie.
Trovano posto in circa due ore di musica le più note canzoni del duo, prima fra tutte la splendida “The First Big Weekend” - uno dei rari casi in cui Malcolm canta -, passando per la struggente melodia chitarristica di “Who Named The Days?” e “Don't Ask Me To Dance”, fino alla sublimazione di “The Shy Retirer”, un electro-pop arioso e puntellato da flussi di chitarra e violino impeccabili. Sempre sulla scia più elettronica della produzione della formazione anglosassone si fanno spazio “Rocket, Take Your Turn” - ossessivamente sostenuta da un giro di drum-machine in 4/4 –, “Scenery” e “Turbulence”. La versione più scheletrica e prettamente cantautoriale viene fuori in ”New Birds” e “Blood”, due episodi estratti rispettivamente da “Philophobia” e “Mad For Sadness”, dove Moffat recita i suo testi come in un confessionale sostenuto da pochi accordi di chitarra e qualche pattern di batteria. In conclusione non smettono mai di emozionare alcuni classici come “Speed Date”, “Here We Go”, “Piglet” e “Soaps”, tutte e quattro canzoni significative all'interno della carriera decennale di una band tanto controversa e indecifrabile quanto unica e indistinguibile in mezzo ad altre mille.

Non resta che plaudere gli sforzi fatti dal team del Covo Club per aver riportato a Bologna dopo quasi undici anni la formazione scozzese, augurandoci che questo tour sia l'inizio di un nuovo percorso che possa portare a un nuovo album a distanza di dodici anni da “The Last Romance”.

domenica 9 aprile 2017

Notwist, 08/4/2017 @ Bologna, Locomotiv Club

A distanza di tre anni dall'ultima esibizione a Bologna, i Notwist tornano nel capoluogo emiliano nella racchiusa cornice del Locomotiv Club. Perso per strada uno dei componenti fondatori Martin Gretschmann, la band, ricostruita con Andi Haberl, Max Punktezahl, Karl Ivar Refseth e Cico Becka reclutati negli anni, continua il proprio percorso di ricerca nell'ambito discografico ed esibizione live. Come già dimostrato in “Close To The Glass” del 2014, i teutonici hanno dimostrato di voler dare una nuova linfa alla propria musica, smarcandosi almeno parzialmente dall'immaginario indie-tronico d'inizio millennio. Tale sterzata è dimostrazione di duttilità stilistica e voglia di rinnovamento oltre che conferma delle radici intrinsecamente rock e di band preparata e versatile.

Ascoltando come vengono in parte modificate le sottili trame di inni generazionali sotterranei come “Consequence”, “Pick Up The Phone” o “Chemicals” emoziona e sorprende, confermando la deviazione verso radici kraut-rock di connazionali come Kreidler e To Rococo Rot. Le lunghe e sinuose code strumentali, disturbanti con sfrigolii noise ficcanti, danno dei Notwist l'immagine di una band in continua mutazione, coscienti del richiamo derivante dai classici ma contemporaneamente capaci di andare oltre. Ed è dunque su questa scia che il concerto sfocia in lande malinconiche con una versione minimale di “Trashing Days”, esplode in un implosione di suoni con versioni mai così devastanti “This Room”  e "Where In This World", proseguendo con la nervosa “Gravity”, proveniente da “The Devil, You + Me”, da cui viene estratta anche la gracile title-track. Da non dimenticare anche la carica rock di un paio di tracce estratte dalle loro poco conosciute origini hardcore-punk.

Si possono apprezzare con il passare dei minuti le sferzanti manipolazioni elettroniche di “Signals” e “Into Another Tune”, il richiamo degli esordi con la marcetta indie-pop “Kong” e il bell'affresco electro-pop “Run Run Run”, tutte tracce estratte dall'ultima fatica. Nonostante i cambi di formazione e direzione artistica, a risaltare su tutto è la solidità e perizia musicale del gruppo. Il passare degli anni e dei suoni in voga non hanno intaccato per niente le capacità di musicisti enormemente preparati e capaci, la stratificazione e complessità del suono che viene fuori da ogni brano è semplicemente strabiliante. Ogni variazione sul tema originale, sia che si parli di una coda strumentale o di un cambio di arrangiamento, è perfetta e al suo posto. Divertimento, balli e riflessioni introspettive, fino alla chiosa finale con “Gone Gone Gone” dopo due encore e più di due ore di concerto.

Dopo questo tour europeo i Notwist si sposteranno in Cina per alcuni concerti in maggio, per poi tornare in Europa ad estate inoltrata fino in autunno. Voci di corridoio parlano di un nuovo album in lavorazione dopo due pubblicazioni transitorie come il live albumSuperheroes, Ghostvillains + Stuff” e la raccolta di inediti “The Messier Objects”, mentre nel frattempo i Lali Puna di Markus Acher e sua moglie Valerie Trebeljahr sono in uscita con nuovo materiale a sette anni di distanza da “Our Inventions”. Le mode passano ma i suoni e la musica che davvero vale restano, a distanza di circa quindici anni da quando la Morr Music fece esplodere il mercato discografico.

martedì 28 marzo 2017

After Crash + Nathan Fake @ 25/03/2017 - Locomotiv Club

Arrivati all'ultimo episodio della mini rassegna Blender promossa da Locomotiv Club, Disco d'Oro e Radio Città del Capo – già presenti nelle settimane scorse artisti del calibro di Clap! Clap!, Romare e Jessie Lanza – questa serata conclusiva ha come protagonista un nome di richiamo nell'ambito degli appassionati di musica elettronica: Nathan Fake. L'artista inglese oltre a tornare in tour in tutta Europa, presenta in questi giorni il suo nuovo album “Providence” su Ninja Tune a distanza di cinque anni dal precedente “Steam Days”. Ad affiancare uno dei più grandi talenti dell'elettronica dell'ultima decade, c'è la band bolognese After Crash che aprirà la serata con una manciata di brani provenienti dal loro esordio “Lost Memories”.

Per chi scrive il duo italiano era una cosa nuova, dunque ascoltando via via i pezzi ci si accorge di quanta qualità ci sia nella musica di Francesco Cassino e Nicola Nesi. Post-rock, elettronica, pulsazioni techno, ambient, tantissima carne al fuoco centrifugata in lunghi strumentali a metà fra tentazioni dance-rock e velleità avantgrade. Senza mai perdere un grammo di efficacia i due ragazzi si districano fra richiami illustri quali Telefon Tel Aviv, 65daysofstatic e in generale tutta la tradizione post-rock “deviata”. La flessibilità e l'efficacia anche in pista dona a queste tracce una grande adattabilità a vari contesti, dalla serata da club a quella più impegnata e seriosa. L'energia complessiva generata da questa esibizione fa ben sperare per il futuro del duo italiano, messi a punto alcuni dettagli e smussata qualche asperità di troppo possono davvero arrivare in alto.

L'esibizione di Nathan Fake, on stage a tempo record dopo il cambio di strumentazione sul palco, infiamma il pubblico fin da subito con l'energia delle sue nuove composizioni. Il quinquennio di attesa – senza dimenticare i due EP “Glaive” e “Degreelessness” - ha fatto bene all'enfant prodige che esplode con tutta la sua fantasia sparando negli altoparlanti la sua personale visione dell'elettronica. Da sempre capace di mettere insieme techno, electro, downtempo e suoni campionati, il ragazzo proveniente da Norfolk non lascia scampo con una sequenza mixata di pezzi esclusivamente provenienti da “Providence”. Dalle staffilate della title-track, passando per la malinconia downtempo della bellissima “Hoursdaysmonthsseasons”, fino all'episodio cantato di “RVK” - ospite la cantante di Braids e Blue Hawaii Raphaelle Standell-Preston – la musica fluisce liquida senza intoppi, alternando momenti concitati di furia techno a stasi estatiche supportate da pochi battiti. Il segreto dell'artista di casa Ninja Tune è quello di scatenare l'inferno in pista senza mai eccedere o risultare uno sciacallo da grandi platee, il suo tocco quasi onirico permette alla sua elettronica da ballo di trascendere il sudore della pista ed elevarsi a metà strada fra musica d'ascolto e rave music. Da non dimenticare, essendo perfetto corollario ad un'ora e mezzo di cataclismi sonori, i visual sviluppati appositamente per il lancio del nuovo disco, rappresentanti una serie di forme geometriche in evoluzione su sfondi psichedelici e molto evocativi.

A conti fatti siamo qui a raccontare una serata di eccellente fattura, la speranza è che rassegne come queste siano parte integrante di tanti cartelloni nei locali di tutta Italia. Ricerca, fruibilità e tanta qualità, questo è il segreto per attirare pubblico in maniera eterogenea.

di Alessandro Biancalana

domenica 19 febbraio 2017

Piano Magic: "Closure" (2017, Second Language)















Scoccati da non molto i venti anni di militanza e dodici dischi, una delle band più significative degli ambienti rock indipendenti chiude la propria carriera con un album di commiato. La notizia più rilevante che accompagna la cartella stampa di “Closure” è questa. E non è per niente banale accettarlo, dato che da “Popular Mechanics” in poi – correva il 1997 – le flessuose e mutevoli nenie della band franco-inglese ci hanno accompagnato più o meno in maniera costante. Con quella peculiare malinconia sommessa e quel sapore acre delle parole scritte quasi sempre dal frontman Glen Johnson, il gruppo ci ha insegnato molto su come può essere la musica rock, usando varie forme e registri interpretativi. Tutto però ha una fine. Lo stesso Glen Johnson, interrogato a riguardo dello scioglimento della band, parla del concetto di “chiusura fisiologica”, facendo riferimento alle sue recenti esperienze personali come la morte del padre e la fine di una lunga relazione sentimentale. E c'è anche di che sfamarsi per gli inguaribili nostalgici, infatti, i più attenti avranno notato che in “Artists' Rifles” è presente un brano intitolato “No Closure”, sempre incentrato sul concetto di chiusura e fine, come se, già una quindicina di anni fa, la band sapesse che il loro destino fosse già segnato.

Raggiunta la maggiore visibilità con il capolavoro “Disaffected”, i Piano Magic avevano forse capito che la loro carriera stava per spegnersi dopo tre album quantomeno sottotono, forse solo controversi ma non per questo negativi, come “Part-Monster”, “Ovations” e “Life Has Not Finished With Me Yet”. “Closure” giunge a ben quattro anni di distanza dall'ultimo e racchiude un po' tutte le sfumature della musica scritta in un ventennio di carriera, ricomponendo per questa speciale occasione il nucleo originario della band composto oltre ovviamente da Glen Johnson, da Jerome Tcherneyan (batteria e percussioni), Alasdair Steer (basso) e Frank Alba (chitarra). L'elegante dark-rock dai rimandi wave, poi ribattezzato “ghost-rock”, è parte integrante di questo album fin dai primi accenni. Infatti l'iniziale “Closure” è la traccia perfetta per chi ama lo stile della band: compassate sferragliate elettriche, basso cadenzato, coda strumentale che sfocia sopra i dieci minuti di durata, cantato vicino allo spoken word e tanta, tanta, atmosfera. L'album si sviluppa su variazioni di questi temi musicali, con ospiti illustri a impreziosire tracce di grande classe, come la celebre violoncellista Audrey Riley ospitata in “Living For Other People” o il cantante Peter Milton Walsh degli australiani The Apartments presente nella struggente “Attention To Life”. Le delicate pennellate di archi già citate di “Living The Other People” o anche di “You Never Stop Lobing (The One That You Loved)” rendono “Closure” una chiusura di carriera che fa del rock un fatto personale, quasi “da camera”, profondamente catartico, una via di sfogo per le frustrazioni e le emozioni più recondite.

A stagliarsi solitaria e un po' lontana dagli ultimi canoni c'è “Exile”, vicina alle tentazioni elettroniche della magnifica “Saint Maire”, capace di raccontare con la solita freddezza e classe il turbamento e la frustrazione di un rapporto sentimentale complicato, sofferente e claudicante. Il cantato di Johnson è anche qui perfettamente centrato per le suggestioni evocate, mai sopra le righe e integrato fra le pulsazioni di una drum-machine e i flebili accordi di chitarra.

Per chiunque ha bazzicato i territori della musica sotterranea di cui stiamo parlando, sarà un grande colpo al cuore dover dire addio ai Piano Magic. L'unico modo che abbiamo per celebrare i venti anni di carriera di questa straordinaria band è godersi questo loro ultimo album e andare a recuperare tutto ciò che hanno inciso in passato, sempre non dimenticando che, come pronunciava la prima tracca di “Writers Without Homes”, Music won't save you from anything but silence.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 10 febbraio 2017

Gold Panda: "Good Luck And Do Your Best" (City Slang, 2016)















Capace nel corso degli anni di creare un vero culto nei confronti della sua musica, Derwin Panda in arte Gold Panda giunge nel 2016 al suo terzo album. Dopo il discreto “Half Of Where You Live” del 2013 e la valida collaborazione con Charlie XCX in “You (Ha Ha Ha)” - dove il britannico cede la base del suo pezzo ominimo proveniente da “Lucky Shiner” -, il producer si prende una pausa compositiva di tre anni in cui gira il mondo proponendo live set e dj set.

Sembra non essere passato così tanto quando attacca “Metal Bird”, infatti la perfetta fusione e la sua evoluzione fra IDM, house e downtempo viene ripresa dove il precedente disco l'aveva interrotta. Synth melodici e profondamente atmosferici in sottofondo, break di tempo inframezzati da campioni vocali e alcuni punteggi di tastiera, sono il perfetto inizio per un disco che sa di buona musica dai primi minuti. Fortemente influenzato dalla vita in Giappone, le composizioni di Gold Panda assumono una sorta di vitalità zen che porta a non spingere mai fino in fondo sull'accelleratore, lasciando implodere dolcemente le tracce. Ne è un esempio lampante “I Am Real Punk” o “Autumn Fall”, con il loro incedere pachidermico ma seducente, composte semplicemente da qualche accordo di chitarra e qualche arabesco elettronico in sottofondo. L'elettronica d'ascolto che proviene dalla tradizione Warp dei Boards Of Canada viene traghettata verso la modernità attraverso un senso per la composizione e un gusto unico.

Il disco continua su questa falsariga dispensando altre gemme (la serafica “Halyards”), spingendo in alcuni casi più sul ritmo (le più decise “Time Eater” e “Song For A Dead Friend”) senza mai cedere il passo alla noia o a qualche passaggio a vuoto. La stessa “In My Car” ha il flow giusto per essere piazzato in qualche clip girata nelle notte buie di una Tokyo piovosa, mentre “Chiba Nights” pare essere il perfetto compendio per una serata alcolica in qualche club fumoso e desolato. Il disco non perde mai un'oncia di spessore nemmeno sul finale, infatti “Your Good Times Are Just Beginning” - contente un campione di "The Moon Ain't Made of Green Cheese" edita da Billy Cobham – è una stilosa tinteggiatura electro-jazz dal fine sapore cinematico.

Senza strafare e con un polso della situazione da vero navigato, Gold Panda supera a pieni voti la prova del terzo disco e si dirige verso il consolidamento della sua fama e della maturità artistica, lasciando sulle spine i suoi estimatori riguardo eventuali sviluppi.

(7.5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 15 gennaio 2017

Parra For Cuva & Senoy: "Darwiš" (Project: Mooncircle, 2016)















Con il ritorno di assi come FaltyDL, Gold Panda e Kuedo, gli appassionati di elettronica avranno avuto di che sfamare la loro fame di suoni in un 2016 tutto sommato positivo. Fra i ritagli di visibilità di tanta musica prodotta, è riuscito a farsi spazio un giovane produttore tedesco nato nel 1991. Nicolas Demuth nasce a Göttingen nella bassa Sassonia, dimostrando fin da giovanissimo una grande passione per la musica, in particolare per il piano e il jazz improvvisato. Trasferitosi a Berlino poco più che diciottenne, stringe un legame artistico con l'amica d'infanzia Anna Naklab, iniziando un percorso artistico sotto il moniker Parra For Cuva. Fortemente influenzato dagli studi classici - ritiene suoi punti di riferimento artisti come Debussy, Ludovico Einaudi e il producer Bonobo -, fin da subito lo stile musicale del tedesco risulta un variegato meticciato di house, pop e influenze classiche, il tutto condito da una piacevole patina downtempo. Le primissime pubblicazioni in coppia si distinguono per un gusto fascinoso e modaiolo del ritmo house, mettendo insieme flessuose ballate plastiche di tutto rispetto (“True Thoughts” e “Small Flowers” su tutte). In tale periodo l'artista acquista una discreta visibilità con la cover di “Wicked Games” di Chris Isaak, raggiungendo buone posizioni nelle chart di mezza Europa.

Passato qualche anno, e dopo un primo buon album di rodaggio (“Majouré”), Demuth sbarca nel 2016 con delle consapevolezze in più. Abbandonato parzialmente lo stile patinato delle sue prime produzioni, il teutonico concentra tutti i suoi sforzi sulle melodie e il ritmo, asciugando le tracce e rendendole meno ridondanti. Il risultato è “Darwiš”, un disco perlopiù strumentale e pieno zeppo di suoni freschi e ammirabili. Assimilabile per certi versi al coetaneo Christian Löffler - forse meno propriamente techno ma più disteso -, il fulcro delle nuove composizioni di Parra For Cuva è la varietà e la fantasia. Ascoltando l'opera tutta d'un fiato si ha l'impressione che lo sforzo per rendere i quasi sessanta muniti di musica freschi e variegati sia notevole. Si possono infatti trovare oltre alle strutture elettroniche campionamenti di piano, kalimba, carillion, e chitarra, il tutto fuso in una mistura unica di downtempo sognante il cui ritmo sembra voler giocare tanto con la deep-house quanto con l'electro-pop.

L'inizio è l'introduzione in un estatico e soffice candore, fra pioggie di suoni metallici come gocce di pioggia (la splendida “Sacred Feathers”), movimenti più decisi come raffiche di vento (i tremori di “Quadrant”) e la pace di una notte buia e piena di stelle (“Yuyun”). La formula musicale di Demuth si sviluppa e muta continuamente, introducendo e togliendo volta per volta elementi ambient e ritmi deep-house. Esempio ne è la lunga e corposa title-track, la quale intorno al minuto cinque cambia rotta repentinamente innestando un ritmo percussivo stile world-music, tornando poi lentamente a reinserire vari strati di suono per concludere sfumando dolcemente. Continuando si possono ascoltare altri esempi di qualità, fra cui l'unico episodio cantato, in cui Cornelia presta le sue corde vocali per un downtempo pop che richiama tantissimo i mai dimenticati Télépopmusik, mentre nel resto si mischiano vaghi richiami post-rock (la chitarra di “The Walk”), sfavillii electro (le magie acquatiche di “Onom”) e policromie chillout notturne (“No Home”).

Il talento e le grandi potenzialità dentro “Darwiš” fanno di Parra For Cuva uno dei più promettenti producer elettronici degli ultimi anni, alla stampa specializzata andrà il compito di dare il giusto risalto a questo artista giovane e poco valorizzato, a lui quello di continuare su questa strada sviluppando ulteriormente idee già di per sè evolute.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana