lunedì 10 giugno 2013

Boduf Songs: "Burnt Up On Re-entry" (Southern, 2013)














Mentre cominciano a spuntare i suoi primi “discepoli”, personaggi solitari persi nei meandri della propria mente, armati di una chitarra e poco altro, a tre anni dall'ultima prova sulla lunga distanza ritorna Boduf Songs, il più oscuro dei cantautori d'Albione, il musicista che nell'intimo della propria cameretta ha contribuito a dare nuove accezioni e sfumature a termini quali “solitudine” e “oscurità”. Accezioni che ha coltivato, sviluppato, ridefinito nel corso dei suoi primi quattro dischi, piegandole a tenebrose, cupe riflessioni di stampo goth-folk, tanto scarne nella composizione quanto cangianti nelle soluzioni adottate, specialmente nelle prove più recenti.

Giunto al quinto album di una carriera sinora accudita con cura e dedizione da un'etichetta storica quale è la Kranky, il musicista di Southampton si trovava però di fronte a una svolta decisiva. Complici il trasferimento di là dall'oceano per stare al fianco della compagna Jessica Bailiff e l'esigenza di nuovi veicoli espressivi per la sua musica, "Burnt Up On Re-Entry" segna il passaggio dall'etichetta di Chicago alla Southern di Londra (label che ha ospitato nomi quali le Babes In Toyland e i Karate di Geoff Farina, per dire), ma anche la compiuta transizione verso un sound irruento e aggressivo, mai espresso sinora con tale convinzione.

Chitarre rabbiose, turbolenti rumorismi e una discreta scorza rock erano già trapelati in altre circostanze, specialmente in occasione dello scorso “This Alone Above All Else In Spite Of Everything”, in cui la carica di elettricità si concedeva ben più di qualche estemporanea comparsata. L'approccio, al tempo comunque soltanto timidamente incoraggiato, per questa nuova fase nella carriera di Mat Sweet viene portato alle estreme conseguenze: l'abrasiva chitarra elettrica che irrompe col suo taglio quasi metal nel bel mezzo di “Fiery The Angels Fell” non lascia nemmeno il tempo di dire “buongiorno” che già svela molte delle dinamiche del disco.

Il tono vocale, quello sì mai cambiato, rimane catatonico e mai sopra il poco più che sussurrato. Sweet, oltre a iniettare nella sua musica massicce dosi di rock, gioca la carta della manipolazione elettronica a livello ritmico, ottenendo un risultato non dissimile da certo doom-folk di casa Southern Lord. Suoni e melodie non assumono più le vesti da folk pastorale drammatico come in passato: in “Burnt Up On Re-Entry” l'alienazione è sì totale, ma assume toni più umani, si distende, lascia spazio a qualche luce. Nelle varie “Song To Keep Me Still” e “A Brilliant Shaft Of Light From Out Of The Night Sky” gli accordi di chitarra e il ritmo generale prendono così le sembianze di torch-song à-la Waits: non si tratta più di un lento discendere, ma di una graduale e dolorosa ascensione.

Sono quindi piccole-grandi variazioni, quelle che entrano in gioco, per una formula assodata e difficilmente scardinabile: rimbrotti elettronici di spessore (synth e drum-machine per la tesa “Whither Thou Goest, Cretin”), addirittura una voce robotica in “Drexelius Sick Man Quarles Emblemes Closed Heaven”), concessioni alla vecchia maniera (“Everyone Will Let You Down In The End”, “Long Divider”) e la nuova vena rock che prende il sopravvento (le cavalcate elettriche di “Between The Palisades And The Firmament”).

In generale, pare comunque che “Burnt Up On Re-Entry” sia un album di passaggio, un qualcosa per cui Sweet ha lavorato molto ma che fatica ad avere una propria identità. Mai sotto la sufficienza a livello qualitativo, la nuova fatica dell'inglese segna elementi di cambiamento non ancora del tutto compiuti. Si spera in una definitiva svolta nel prossimo disco: la musica di Boduf Songs merita una consacrazione di largo respiro.
 
(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Vassilios Karagiannis

domenica 9 giugno 2013

The Black Dog: "Tranklements" (Dust Science Recordings, 2013)















Hanno certamente un segreto, un trucco, qualcosa di magico i Black Dog. Una carriera lunghissima che ha vissuto altissimi e bassissimi, momenti di silenzio e mutazioni radicali. A due anni dal pregio di "Liber Dogma" e le uscite digitali dei podcast Darkwave, arriva l'atteso "Tranklements".

Il disco viene preceduto da due EP solo in parte collegati ad esso ma utili per tratteggiare l'orizzonte su cui si sono spostati gli ex-giovanotti di Sheffield, in cui vediamo coinvolti due numi tutelari della techno più oscura degli ultimi anni: Karl O'Connor aka Regis e il punk Luke Slater nella sua incarnazione più sotterranea L.B. Dub Corp. I due EP annunciano una belligeranza analogica riscoperta in cui il corpo astratto tipico delle produzioni Black Dog lascia il passo ad una compattezza formidabile. Ed è questo il punto di svolta di “Tranklements”, laddove i Black Dog si sono sempre distinti per le capacità di disegnare l'ambient con la fu IDM, qui si rimane sempre ben attaccati alla materia techno anche nei momenti più frammentari tutti intitolati Bolt, come a voler definire quel tipo di campo d'azione, sempre al di sotto del minuto e mezzo.

Gli sviluppi nel minutaggio danno prova di eclettismo e mestiere dalle prime note di "Alien Boys", fino all'isolazionismo cupo di "Internal Collapse" in cui la destrutturazione classica dell'IDM viene ricomposta in una spirale che con difficoltà lascia trasparire qualche speranza. Ma lo spazio viene riempito anche dal classicismo techno di "Cult Mentality" da leggere alla voce "si, viaggiare", scostandosi dalle acidità post-punk si vola verso una profondità dei tempi andati. La trovata di alternare lunghe dissertazioni techno a tracce corte e più astratte dona alla nuova fatica dei Black Dog lo status di testamento definitivo, compimento massimo della loro arte elettronica e – cosa che non guasta – donano una varietà di umori che discoiglie tutta la tensione accumulata nei momenti più concitati. Con un poco più di attenzione si trovano le frattaglie circuitali di "Bolt 3533f" e i suoni sci-fi di "Bolt 11b" e "Bolt No.6", intercalari sotto il minuto di squisita estrazione alienoide.

Il resto del disco infila integralismo techno di fattura eccelsa (il taglio dritto e deciso di "Atavistic Resurgence" e "Funked Industry", rimpalli anthemici della coppia "Pray Crash I"/"Pray Crash II"), mentre altrove melodie meno opulente influenzano e ammorbano le composizioni con risultati eccezionali (il bel gioco di motivetti sghembi in "Hymn For SoYo", le magnifiche sciabolate cyber-punk di "Internal Collapse"). Capolavoro di tutta l'opera, vero fulcro e sunto di una vita in musica, è "First Cut", epopea ambient-techno di otto minuti, variegata, dallo sviluppo sinuoso e oscuro come solo il Carl Craig dei tempi d'oro sapeva fare. A seguire altre cose molto ben realizzate come le movenze plastiche di “Death Bingo” (notare la bellezza dei suoni), “Spatchka”, deliziosa e placida a dischiudersi, il ritorno all'IDM più classica in “Mind Object”. Tutto mai casuale o fuori posto, siamo di fronte a un progetto tanto nostalgico quanto futuristico, un'opera tanto architettonica quanto ingegneristica.

In un momento in cui fare techno è diventato difficile quanto distinguersi in mezzo a una folla di diecimila persone, gli inglesi, se non capaci di dare una botta di innovazione al genere, ci mettono la personalità e il cuore, denudando il loro status di artisti come solo una formazione di culto sa e deve fare.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Guidetti

lunedì 3 giugno 2013

Gianfranco Grilli: "Ancient Roads" (Mons Avium, 2013)
















Marchigiano di nascita, compositore e musicista, Gianfranco Grilli lavora nell'ambito della musica ambient con grande passione da diversi lustri. Lavoro il suo oscuro, misconosciuto, poco in risalto. Leggendo la sua biografia si legge che ha scritto opere per radio, televisione e cose nel settore della meditazione e della new age. Non semplici tappeti rilassanti o scialbi rintocchi per delle sedute yoga, bensì musica pulsante e di valore universale.

La sua opera è di facile individuazione stilistica, ambient placida e distesa, vagamente ricollegata alla tradizione kraut dei Popol Vuh e i Tangerine Dream. Fra i musicisti preferiti Grilli cita anche Peter Gabriel e King Crimson, infatti, oltre all'animo prog di entrambi, Grilli estrapola brevi rimandi dalla vena world-music di Gabriel in diversi parti di "Ancient Roads".
Il suo nuovo album è un disco concettuale, dedicato al viaggio, ispirato dal sapore antico di strade calpestate migliaia di anni fa, profumato e intriso di un sentore di antichità e misticismo. Tutti questi elementi, fusione e riassunto di ogni singola componente lavorativa del musicista, danno al lavoro complessivo un fascino discreto e crepuscolare.

I dieci minuti abbondanti di "The Journey" sono l'incipit perfetto, un'ode alla rusticità di paesaggi millenari e campestri, splendida descrizione musicale della copertina di Carlo Fabbri. Le trame leggermente più intricate di "Arrival At Dakhla Oasis" fanno da contraltare alla generale pace infusa dalle lunghe "Underground Roads" e “Water Roads”, con la seconda particolarmente ispirata e incisiva (splendido il synth onnipresente). Per il resto, non male l'accoppiata "A Long Walk" e "Sky Roads", silenti fruscii di una notte, lungo un cammino infinito, attraversando terre e sentieri infiniti.

L'unico vero appunto riguarda l'estrema settorialità di questa musica, poco aperta ad altre soluzioni se non quelle prestabilite, la quale rende l'album di poco respiro e un po' asfittico. Tuttavia, le realizzazione impeccabile e il grande impegno per uscire dall'ovvio danno ad “Ancient Roads” e al lavoro di Grilli un appeal di sicuro interesse.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana