lunedì 26 novembre 2007

Flunk: "Personal Stereo" (Beatservice Records, 2007)



Per chi, in passato, ha dedicato qualche attenzione alla scena down-tempo, sorta nel periodo immediatamente successivo all’esplosione del trip-hop, si sarà sicuramente imbattuto nei Flunk. Dal 2001, la formazione proveniente dalla Norvegia ci propone una musica che vive come una limpida notte buia, appesa come in un canestro a un’unica stella presente in cielo. La personalità della cantante, Anja Øyen Vister, che, memore di incanti passati, divora le emozioni con il respiro e ce le restituisce attraverso flebili linee di voce. Musica per sogni cinematografici, introspezioni registrate con un nastro troppo vecchio per essere fedele, attraverso un marchingegno colto per caso in un negozio dimenticato.

Un po’ tutti erano rimasti stupefatti al cospetto della perfezione formale e estetica di “Morning Star”, in quel caso pareva impossibile muovere critiche, ignorare tanta bellezza racchiusa in una manciata di canzoni; ed infatti, vengono meritatamente estratti un paio di singoli ed utilizzati per alcuni spot. Era il 2004, e sono passati tre anni di quasi completo silenzio. Escludendo album-remix e mega singoli, “Personal Stereo” è il terzo album. Una terza prova pura, che elargisce pace, romanticismo, amore, calore materno.

All’inizio della title-track, timide vibrazioni sibilano forti e sicure, la voce di Anja è rimasta la stessa, candida e delicata, il battito edulcorato lancia schizzi di luce scintillanti. I suoni, circolari, sorvolano leggeri, come se si cercasse di seguire il centro di una giostra barocca descrivendo tante piccole circonferenze, di scatti insoliti nemmeno l’ombra, la ricerca dell’equilibrio melodico ha coordinate ben precise e non muta mai il suo percorso senza preavviso. La strumentazione cerca sempre di non infrangere la delicatezza imposta dal canto di lady Øyen Vister, neanche quando è Daniel Johnston a salire sul cavallo rosa.

“Haldi” è difatti una suadente cavalcatina lounge, tesa a destabilizzare l’impatto con il binomio iniziale, laddove invece a regnare è solo la pacatezza dei sensi. Provate ad ascoltare gli ultimi istanti di “Heavenly” e avrete un’idea ben precisa della frequenza modulata delle pulsazioni presenti nel disco.

In “See You” (rifacimento di un pezzo dei Depeche Mode) l’ugola di Anja è praticamente racchiusa in un’ampolla di vetro, trattasi di una piccola nenia low-fi circoscritta in apertura e in coda da teneri scricchiolii al laptop. Raramente l’inquietudine prende il sopravvento, due gli episodi prettamente malinconici: in “If We Kiss” una leggera angoscia relazionale affonda l’intera struttura, nei suoi scarsi quattro minuti vengono aperte le pagine più tristi del diario di bordo della Øyen Vister, così come è lo stesso insolito tormento ad avvolgere gli andazzi di “Keep On”, sospinta da un lievissimo down-tempo emozionale. “Out On The Weekend” di Neil Young è presa in prestito in “Change My Ways”, seguendo l’esempio luminoso di Justine Electra, la quale campionò un breve tracciato del celebre brano d’apertura di Harvest in Soft Rock, nella spettacolare “Blues And Reds”.

La chiusura dei battenti di questo magico luna park è affidata alla timida  “Diet Of Water And Love”: con essa sembra quasi di poterci addentrare nell’autunnale crepuscolo del meraviglioso scatto/art work del disco.

Con “Personal Stereo” i Flunk hanno acceso dieci piccoli caroselli eufonici posti ai bordi delle ombrose spiagge delle Norvegia, mostrandoci ancora una volta tutto l’incanto di una terra mai così fertile di talenti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Maia Hirasawa: "Though, I’m Just Me" (Razzia Records, 2007)



C’è uno strano magnetismo nello sguardo di Maia Hirasawa a cui è impossibile sfuggire, anche solo per pochi istanti. L’origine di questo incanto sragionato ci viene suggerito dall’incrocio sanguigno tra due etnie diametralmente opposte. Si crea spesso quel "non so che" di turno, dando uno sguardo alle sue foto. Si ha anche modo di pensare che oltre al cocktail genetico, ci sia ben altro ad attrarre la nostra attenzione: da un lato la graziosa umiltà con cui ci vengono offerte queste undici caramelle armoniche, dall’altro è innegabile il talento artistico della svedesina dalle origini nipponiche, la quale ha arrangiato e prodotto tutto da sola, divisa tra la quiete urbana di Sollentuna e la pastorale Skone.

Siamo di fronte a indie-pop di gran classe, non c’è che dire. Maia attraversa i suoi racconti con la leggiadria di chi è abituato a scoprire ogni giorno, tra le proprie mura, al di là della finestra aperta, scenari a dir poco incantevoli. E’ ben presente quella voglia di dipingere le cose con colori pastello mai invadenti, l’utilizzo del chiaroscuro è limitato solo ad alcuni momenti, piccoli angoli di tela dove i raggi del sole non affondano più di tanto il proprio calore. La quotidianità divisa tra amori perduti, intese amicali e introspezioni familiari, trasformata in musica con quella raffinatezza pop che non t’aspetti, sospinta da un’ugola morbida e ammaliante.

La sola “Stll June” potrebbe illuminare l’intera Stoccolma per mesi e mesi, imprigionata fra liriche tormentate da una perenne ansia di fondersi con la voce limpida che le anima. Lucidi come raso sono gli incastri vocali presenti nei filamenti di “Crackers”, una canzone che alimenta fievolmente la felicità inespressa dell’ascoltatore. Serpeggiano nitidi richiami a un amore soffuso, dischiuso con pathos e coinvolgimento (la incontenibile “Mattis & Maia”); rincasando con il sole che cade verso l’orizzonte, un sibilo di malinconia fa vibrare il cuore (“Parking Lot”).

La passione e la sensualità, note dominanti di tutto l’album, raggiungono apici di tensione e tormento, fondendosi assieme con fermezza e fiorente bellezza, caratteristiche, queste, che riescono a far risaltare una originalità inizialmente sopita. Il genere preso in considerazione, seppur fortemente ricalcato da centinata di gruppi negli ultimi anni, riesce a salvarsi dalla banalità grazie a un’interpretazione quasi “carnale”, a una scrittura inappuntabile e a i piccoli particolari che rendono speciale un disco. Tutte qualità che “Though, I'm Just Me” possiede e custodisce, come il diario di un vecchio pazzo scritto e mai disperso dal tempo che scorre.

Senza mai chetarsi, ora infuriata ora implacabile, la voce di Maia ci accompagna durante tutto il percorso. La raffinata sensibilità di “And I Found This Boy” fa tremare le mani e vibrare l’aria circostante, trasformandosi in canzone-simbolo dell’opera. “Star Again” si srotola armoniosa e flebile, fra contrasti vocali (ottimo il contributo dell’amico Anders Göransson) e timide orchestrazioni, arrangiate con precisione e gusto minimale. Splendida e leggermente sopra le righe l'autobiografica “Gothenburg”, che narra il rapporto di amore-odio fra l’autrice e la sua città natale, con frasi come “Trams coming in, there´s wind from the sea. But I don´t feel cold, it´s not shivering me. And I thought I didn´t like this city but I´ve changed”. I cori in sottofondo, come una forte corrente di vento, tagliano in due il silenzio e trasmettono un vago senso di amara rassegnazione.

Esperienze ingenue, trascritte con semplici parole colme di sfumature, nella spensierata “My New Friend”, ritmi sincopati e camaleontici in “Say Goodbye”, fatta di silenzi e contraddistinta da un violino suonato con l’anima. Una narrazione pennellata, soltanto accennata da questi grumi di parole: "To all of these ghosts in your head, there's one sleeping in your bed. And the scariest from home who don´t seem to care. Cause the ghosts in your head, they won´t stop until you're dead".

Si rivela una sorprendente capacità di estrarre trovate inusuali. “You And Me And Everyone We Know” inizia con un coro di bambini, soltanto la genesi di una toccante ballata piano-voce, supportata dagli archi; episodio che conferma le potenzialità di questa artista, chiamata a ribadire il suo (grande) talento in futuro, ma già capace di spiazzare. A tal proposito, ascoltare la coda di questo pezzo, una esplosione di coralità quasi “familiare”.

Come l’ultima goccia che alimenta una pozza d’acqua in un prato, “Roselin” termina con un sorriso sulla bocca e una grande varietà di tonalità, completando un disegno idealmente iniziato con “Still June”, sviluppato e ideato cammin facendo, lasciato correre senza freni. “Though, I'm Just Me” ha dalla sua tutte le rifiniture per sorprendere, non si concede mai completamente e lancia un segnale ben preciso. Da scoprire, adatto alle giornate di temibile freddo, rampa di lancio verso una musica, quella svedese, che così gelida proprio non è.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

Abandoned Toys: "The Witch's Garden" (Mythical, 2007)



Un lontano sibilo di vento gelido e tenebrose note di pianoforte introducono nel giardino della strega, rendendo da subito l’idea delle cupe suggestioni evocate dall’opera prima del misterioso artista che si cela sotto l’alias Abanonded Toys, ovvero Brett Branning, compositore originario dell’Oklahoma, reduce da esperienze nell’ambito delle musiche da film e per videogiochi.

La folgorazione artistica di Branning, che si autodefinisce compositore di “classica contemporanea” operante in un territorio a cavallo tra classicismo e new-age, consiste nell’accostamento alla tecnologia e nell’intento di conciliare la raffinatezza di armonie classiche, a prevalente base pianistica, con suoni elettronici che dipingono paesaggi esoterici dalle tinte gotiche. Il risultato sono le nove composizioni di “The Witch’s Garden”, un unico flusso sonoro oscuro e cristallino, in bilico tra una solennità pianistica per nulla rassicurante e l’uniformità di tappeti ambientali foscamente modulati.

Sovviene in mente un ricordo lontano, disperso nella nebbia; quel ricordo è una nota di piano che non è mai se stessa, non si somiglia nemmeno per un istante. “Within A Liliac Clutch” è un viaggio perduto, una fiaba sonora leggendaria. Scintille brillantissime si disciolgono nel cielo stellato, a tratti smarriscono la loro destinazione, ma non deteriorano il loro prezioso potere d’incanto. La potenza inesplosa delle armonie pianistiche si rivela in un semplice istante, in quel frammento di storia non facile da carpire, ma che sa regalare sensazioni pure più del diamante.

Piccoli accenni di dark-ambient (la più diluita, vedere Lustmord o Alio Die) vengono disciolti all’interno di un tappeto che sa quasi di world-music, con tonalità caratteristiche, inconfondibili e ancorate a un’appartenenza terrena forte come le radici di una pianta secolare.

“The Witch’s Garden (Prelude)” disegna quadri dimenticati di una vallata sconosciuta, con i suoi cori che paiono tramontane dirompenti, colma di epicità orrorifica e silenziosa come la più profonda delle foreste. Si prolunga un soffio, un attimo di assenza, e giunge cavalcando disperata la serafica “Vermillion Reflections”, fortemente piantata su composizioni intrecciate di piano, appena solcate da montagne impetuose di rumore disturbante e rappresentativo. Pare di vedere brillare un lago, con alle sue spalle i suoni della natura liberalmente capaci di esprimersi.

Ancor più profonda (e quasi cinematografica) “Where Red Shadows Slumber”, somigliante a certe colonne sonore per film fantasy o di carattere medievale. Non per questo, ovviamente, il risultato è scontato o di poco rilievo. I cori femminili raggiungono estensioni paradisiache, supportate da timidi archi cristallini che non lasciano scampo ai sensi già parzialmente inebetiti.

Inenarrabile dolcezza classica nel duetto violino-piano si affaccia con l’arrivo di “Flickering Embrace”, adagiata sullo scontro di vari elementi inconciliabili; bordate sotterranee di rumore schiantano gracili rumorini metallici, architettando la colonna sonora per uno strano paradiso.

“The Great Dreaming Swan” parte cauta per poi esplodere in tutta la sua magnificenza, disperdendo attimi preziosi da lasciar senza fiato, la successiva “Spiraling Into The Sun” apprende un pizzico di qualità da ogni episodio appena descritto e racimola gli elementi giusti per fare centro.

La conclusione spetta prima al lascito neo-classico di “Flowering Ashes”, vagamente pessimistica e malinconica, ma pur sempre racchiusa in un fragile bozzolo sonoro, culminante in un progressivo sgretolamento che induce al silenzio finale con tatto rarissimo, e infine alla continuazione della title track già accennata nella seconda traccia: una lunga e rappresentazione di un addio definitivo, attraversata soltanto da torbide scosse sonore di profondità vaporosa, che tagliano in due l’inerzia di tenebre ormai inestricabili.

“Tutto, nel buio, può assumere le forme più strane, trasformarsi, svanire sotto il velo del nulla, che è l’unica logica delle tenebre”, scriveva Haruki Murakami in uno dei suoi più celebri romanzi: sembra quasi che Brett Branning si sia ispirato a questa frase per la sua opera prima che, senza cedimenti a eccessive levità neoclassiche o a disagevoli torsioni dark, corteggia le tenebre descrivendole con la concretezza del pianoforte e l’evanescenza elettronica, in un quadro di seducente, inquietante bellezza.

(7)
 recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

martedì 20 novembre 2007

Last Days: "These Places Are Now Ruins" (n5MD, 2007)



Il viaggio di Last Days riprende. Ci eravamo lasciati con sbigottimento incantato sulle rive di un mare luminoso, raffigurato nella copertina dell’esordio “Sea”. Ricordiamo ancora adesso la forza straripante che animava ogni singolo episodio, la solitudine intrisa in ogni frangente, il sibilo di un vento mai così tagliente. Ci sovviene quel gusto sibillino emanato da quella musica, da quel mistico incrociarsi di toni a volte contrastanti.

“These Places Are Now Ruins” è generato dalla stessa scintilla propulsiva, dallo stesso intento. Se “Sea” aveva come tema fondante il percorso interiore dell’autore (e di ognuno di noi) che, oppresso da una non bene identificata irrequietezza, se ne fuggiva disperato; questo nuovo capitolo rappresenta lo sviluppo di questa minaccia, la sua evoluzione. Infatti, si può intuire ciò leggendo distrattamente sia il titolo dell’opera, sia quello delle canzoni. “Queste luoghi sono adesso delle rovine”, o ancora, “Tutta la città è contro di noi”, finendo con “Ragioni per partire”. E’ evidente che questa odissea è ben lontana dall’essere finita e questa simbiosi fra i vari componenti di essa, rappresenta un valore aggiunto di sicura fascinazione. Nello specifico, qua si da sfogo a sensazioni ben precise, rivolte nei confronti dell’oppressione urbana, dell’incapacità di svolgere (e consumare) una vita con la dovuta serenità all’interno di una sistema troppo piccolo (o troppo grande) per essere tollerato.

Musicalmente, il cambio di rotta, invece, è abbastanza deciso. Seppur “Sea” non era un esempio di musica massimalista, canzoni come “Fear” o “Two Steps Back” avevano dentro di loro qualcosa che le rendeva, forse involontariamente, molto enfatiche e splendidamente melodiche. In “These Places Are Now Ruins” c’è da registrare un ulteriore sviluppo, a favore di una deliziosa storpiatura ambientale, un corpo nato e generato con pochissimi elementi, dalle sembianze spoglie e ridotte, un po’ come le sconfinate vallate montuose dipinte nella foto posta in copertina.

Il timido inizio è così sancito da “Stations”. Sembra di vederlo quel cielo mattutino davanti a una stazione, aspettando un treno qualsiasi, diretti verso una destinazione che nemmeno sappiamo. Un piccolo spiraglio di luce, quel timido tepore misto al gelo delle prime ore del giorno, i rumori di persone mai viste che paiono seguire il nostro stesso tragitto. Sensazioni, che, quasi senza volere, questa prima traccia è capace di rilasciare. La povertà di queste composizioni ribalta pensieri ormai sopiti, li desta senza far baccano e si addormenta senza lasciar tracce.

Mentre chilometri vengono fagocitati dai vagoni danzanti sul crine di binari mai così scintillanti, ci si interroga sul motivo per cui stiamo fuggendo, da cosa stiamo evadendo. Le ragioni ci sovvengono soltanto al sorgere del sole, quando i colori iniziano a farsi nitidi, quando alcuni raggi dorati screziano lo sguardo, costretto a prendersi un attimo di pausa. Piccole stille di melodia volatile, attimi da custodire, diari da riempire e mille indecisioni da sbrogliare. “Reasons To Go” è tutto questo, ed anche di più.

Nella gamma di orizzonti che la mente si immagina, il fato sceglie per noi una distesa sconfinata con un ponte in lontananza, con cui attraversiamo un fiume, per poi immetterci in una lunga galleria buia. “Points Bridge” è perfetta e concisa, con il suo narrare semplice e diretto, sorretta da una chitarra spartana accompagnata da solitarie note di piano che donano movimento a un flusso elettronico flemmatico.

“Devil’s Wood” disegna i contorni di un albero maligno, con rumori pungenti e scostanti; la cortissima “Saved By A Helicopter” si fa notare grazie a un bozzetto pianistico a dir poco incantevole.

Il titolo della sesta traccia lascia senza parole, con quel suo tono catastrofico. “A Storm Tore This House” è una tappa importante, perché tinteggia una tempesta all’interno di una mansione di fortuna, prima aggredita da un forte agglomerato di eventi atmosferici, poi conciliata con la pace attraverso un canto di usignolo chiaro e risolutore.

La luce della filtrata da un vetro spesso quanto l’odio per il buio, pare irriconoscibile, per di più se guardata con il tiepido calore di una piscina permeato nella pelle. Infatti, “Swimming Pools At Night” narra storie di inquietitudini notturne, appena mitigate dal piacere di un bagno oscuro. Il risveglio che succede a una notte così tormentata non può che essere colmo di incertezze, ed infatti “Two Halves Of A Line” rappresenta la difficoltà con cui dobbiamo far fronte nel prendere una decisione, decidendo quale delle due metà scegliere. La musica è sempre la stessa, fra distorsioni digitali, chitarre lasciate al loro destino e fragorosi accenni di ritmo.

Riassumendo le ultime tappe di un percorso lungo ma mai sfiancante, si riesce infine a scorgere le rovine tanto attese (splendida la drum-machine di “Ruins”), constatando che, nonostante la completa disfatta, “le città sono sempre contro, ed avverse a noi” (da incorniciare le dilatazioni cosmiche di “The Whole Town Is Against Us”). Attratti da un finale seducente e sinuoso, “Look After Your Self” si distingue per pregevole fattura, la conseguente seconda parte di “Stations” completa e collabora all’immedesimazione finale, che è poi un viaggio di ritorno identico e simmetrico a quello di andata. Il tutto naufraga fra le braccia di “Travelling Heart”, con grande pathos e sincerità.

Giunti per la seconda volta alla fine, constatiamo con grande felicità ed orgoglio che “Sea” non era uno schiocco casuale, non un flash apparso per sbaglio, ma un’opera saldamente supportata da una fantasia smodata e capacità empatiche e umorali fuori dal comune, trasmesse, con rapporto di evidente dipendenza vitale, alla stessa musica da lui composta. Con uno sguardo al sole che tramonta, siamo già in attesa per l’arrivo del terzo capitolo di un percorso infinito e mai concluso.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Antelope: "Reflector" (Dischord, 2007)



La fine anticipata e disattesa dei Super System aveva lasciato presagire conseguenze a dir poco spiacevoli per gli ex-componenti di una delle formazioni più innovative degli ultimi 4-5 anni, gli El Guapo. Poi, però, l’istrionico tastierista Pete Cafarella si è impegnato, finalmente, con completa dedizione al suo progetto Shy Child, insieme a Nate Smith, per proporre un album fulminante come “Noise Won’t Stop”, un frullato di ballabilità indipendente a dir poco catastrofica.

Il lato più pazzoide del gruppo d’origine (chi ha visto i live saprà il perché) Justin Moyer l'aveva già ribadito con l’interpretazione di una parte scomoda, nello strambo progetto Edie Sedgwick. Dopo diversi mesi di anonimato, capita di vedere (per caso) la copertina con scritto Antelope in copertina e tre facce disegnate. Viene spontaneo chiedersi chi siano. Ebbene sì, Justin Moyer è tornato con altri due scagnozzi per nuove scorribande incontenibili.

“Reflector” è un pugno nello stomaco diretto e sfiancante. Non si concede mai completamente, non è dirompente, ma sgusciante, pulsante, sotterraneo. Come vedere il ritmo devastante degli A Certain Ratio più scomposti costretto nei limiti minimali di un recinto immaginario. Canzoni monche, corte, perfino inesistenti a volte, ma così vive da contorcersi alla velocità della luce.

Lo stile compositivo utilizzato per tornare sulla piazza è evidentemente cambiato rispetto alle ultime esperienze discografiche. Sia gli ultimi El Guapo ma, soprattutto, i Super System facevano un uso pesante di elettronica e ritmi analogici. Inoltre, in quei casi, veniva accentuato il lato ballabile, mentre qui i ritmi, pur essendo estremamente granitici e dritti, stimolano più un "ballo interiore", fatto di scosse elettriche e pulsioni cardiache.

Gli incastri fra basso e chitarra sono la chiave di volta del disco. Non fa eccezione la prima traccia, un antipasto a dir poco succulento, con la voce del comprimario Mike Andre in evidenza, mentre Justin rimane in disparte a suonare la chitarra. “Dead Eye” è puro furore: il solito canto irresistibile di Moyer, il trio basso-batteria-chitarra che si esalta e scompiglia, il vortice vocale posto nel finale che non lascia scampo.

La più posata “Contraction” vive di ovvie “contrazioni” a spirale, “Mirroring” sputa parole taglienti e pericolose; avvolte, distorte, ritorte contro un palpito impossibile da contenere.

Con la consueta immodestia onanistica, come in “Fake French” (in cui si chiamava “Justin Destroyer”), Justin si dedica una canzone, “Justin Jesus”, ulteriore esempio di come l’essenzialità sa ripagare lautamente in termini di risultato finale. Moyer riesce ancora una volta a giocare con la sua voce, con molta maestria e un pizzico di furbizia, visto che sono 7 anni che canta alla stessa maniera. Poco male, visto che non riesce mai a stancare.

L’ossessionante “Wandering Ghost”, se ascoltata per una decina di volte di seguito (e vi assicuro che non è molto difficile riuscirci), può provocare convulsioni e pericolosa dipendenza. “Flower” è forse l’episodio più vicino alla forma-canzone, con le pennellate di chitarra e il ritmo docile della batteria.

I minuti scorrono velocissimi vista la sintesi del disco (nel complesso siamo sotto la mezz’ora). “Concentration” inizia e poi finisce in un soffio di vento a cento chilometri orari, “Demon”, con i suoi coretti in sottofondo, è sfacciatamente di marchio El Guapo, ma niente paura, l’effetto è autentico e stende ugualmente. Saluta con accordi disgiunti di chitarra completamente fuori tempo la marziana “Collective Dream”.

Se credevate veramente che il diavolo della musica indipendente fosse finito con la conclusione della sua ultima incarnazione, dovete ricredervi e correre ad ascoltare il disco in questione. “Reflector” vive di citazioni, si alimenta di musica già esistita, già suonata. Ma, per una volta, non ci interessa e scoppiamo dalla voglia di tornare ad ascoltare questi clangori minimali.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 29 ottobre 2007

Piana: "Eternal Castle" (Noble, 2007)



Naoko Sasaki, in arte Piana, rispetta la cadenza biennale con cui ha pubblicato i suoi primi due album e giunge al nuovo anno con “Eternal Castle”. La naturale scarnificazione della sua formula dai contorni elettronici, iniziata con il precedente “Ephemeral”, giunge a nuova tappa, con grande intensità, e incanto stellare. Gli elementi che in precedenza ci avevano commosso e carpito con unione simbiotica sono sempre gli stessi. Quei piccoli particolari che hanno reso Piana una delle migliori rappresentanti del pop elettronico di stampo crepuscolare proveniente dal Giappone, insieme a Gutevolk, Tujiko Noriko e l’esordiente Moskitoo.

In questa manciata di canzoni (proprio di manciata parliamo, visto che sono soltanto otto) troveremo sì grandi arrangiamenti acustici nei filamenti di una struttura elettronica sottile, ma anche slanci pop che riportano a frangenti più minimali di artiste come Chihiro Onitsuka, Maaya Sakamoto e Kaela Uemura. Questa scelta, giusto per dare una sentenza aprioristica, risulterà azzeccata se non decisiva. Soprattutto in questo ambito, la capacità di evolvere il modo con cui cesellare canzoni è a dir poco fondamentale, perché, come in ogni caso, la ripetizione stanca di certi stilemi, anche se piacevoli, può far storcere il naso ai più esigenti.

L’iniziale “With Sea” è l’introduzione perfetta, perché inserisce l’ascoltatore nell’usuale atmosfera ovattata e fatata. Note di piano lontane e distanti, si intrecciano con delicati giochini da laptop e silenziose voci che sanno di magia.

“Norway” ricorda alla lontana la prima traccia di “Ephemeral”, “Something Is Lost”. Nebbioline assordanti, chitarra suonata nel buio più tenebroso, vocalizzi docili e deliziosi di Naoko. Il ritmo, sostenuto da una timida drum-machine, si dipana con distensione; il violino (suonato ancora dall’amico Gen Saito), con note dal fare pungente, arricchisce con grande colore i secondi che scorrono veloci. Di grande spessore il finale, circa sessanta secondi di ambient granulare e sotterranea.

“Two Of Us” è un esempio della svolta di cui parlavamo all’inizio. I contorni elettronici e la voce sono gli unici elementi che rimangono intatti; lo svolgimento generale e soprattutto il ritmo apparentemente stabile e srotolato con ordine, riporta a certi episodi dell’accoppiata Maaya Sakamoto-Yoko Kanno. Le emozioni sgorgano prorompenti nella splendida “Snowflakes”, un vero e proprio fiume in piena, strabordante, senza freno. L’inizio illusorio, peraltro molto positivo, si strascica faticosamente, con affanno e attimi di sospensione; quando il ritmo scalpitante prende il largo, dopo attimi di attesa, è un fiore a sbocciare. Ogni singolo elemento prende corpo e si sposa perfettamente con il resto, e viene quasi da dire che forse siamo di fronte al più bel pezzo del repertorio dell’artista.

“Ancient Note” si avvale dell’aggiunta del piano, con ancora il violino a primeggiare fra gli strumenti; dosati uno ad uno con grande gusto melodico. Non delude, e introduce alla parte finale del disco, la successiva “Hydrangea”, vero e proprio episodio pop di grande pregio.

“Beyond The Season” ritorna indietro nel tempo proponendo un magico flashback all’interno del primo disco (“Snow Bird”), precisamente dalle parti di “Butterfly”. L’impianto elettronico questa volta non è solo contorno, visto che il frangente più bello è proprio quando la voce viene lasciata sola con i beats, frastagliando il silenzio con schegge digitali pungenti.

L’ottava traccia (“Prayer”), che saluta l’ascoltatore, è un arrivederci tanto dolce quanto coinvolgente; lo scontrarsi fra la voce bambinesca e le note di piano si dimostra una combinazione a dir poco struggente, peraltro aiutata da alcuni cori cristallini.

Giocando con i generi, con la propria stessa fantasia artistica, Piana si è ritagliata uno spazio personale all’interno di ogni cuore di chi vuole accoglierla. I suoi dischi, mai statici, ma dotati di grande flessibilità stilistica, sanno dar sfogo a certe emozioni e sensazioni mai sopite, con merito artistico e plauso contenutistico.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

giovedì 18 ottobre 2007

Alejandro Agresti













argentino di nascita, il suo intento cinematografico è quello di fotografare il suo paese con grande semplicità e impatto emotivo.

nelle sue due pellicole che ho visto (valentin, tutto il bene del mondo), ho scorto una capacità di cesellare storie pressochè magica. racconti senza presunzione, piccoli, fatti di esperienze quotidiane e popolari. un regista con il grande senso della fotografia, un perfezionista dei dialoghi secchi e perfettamente congegniati, un autore dal grande gusto musicale nello scegliere le sue colonne sonore.

valentin, il primo che ho visto, è un gioiellino. narra la storia di un bimbo (valentin, appunto) che trascorre la sua vita da 'grande', cercando di superare gli avvenimenti con la forza della fantasia e del coraggio. come dicevo prima, un qualcosa di esile, senza sovrastrutture. gli errori delle persone presumibilmente più mature di lui vengono analizzate dal piccolo con arguzia fuori dal comune e ciò sorprende loro stessi. davvero un gran personaggio, e una grande interpretazione di questo giovane attore, Rodrigo Noya. tenerezza, crudeltà, grande pathos e colori sgargianti.

tutto il bene del mondo è precedente a valentin ma destino vuole che la visione di questo film sia successiva. sempre vicissitudini familiari percorrono la trama di quest'altro piccolo bozzolo narrativo. una famiglia distrutta, piccoli frammenti d'amore, una grande voglia di ricominciare tutto da capo. grande tatto, grazia, una sorta di capacità intrenseca all'interno di questo fotogrammi. in questa pellicola ho trovato un sapore leggermente più amaro, critico, addirittura cinico. si evidenzia un'analisi più sociale dell'argentina, in un paese di persone prevalentemente povere e piene di speranza.

ecco, credo che la speranza sia ciò che unisce questi due film. la speranza che unisce gli intenti di un gruppo di persone, che siano un interno paese o una sola famiglia.

domenica 16 settembre 2007

Dot Allison: "Exaltation Of Larks" (Cooking Vinyl, 2007)



L’avvicinarsi dell’uscita di questo album, con lo scorrere degli ultimi mesi, poteva paragonarsi al progressivo sorgere di un sole, il sole delle passioni e degli amori. Dopo cinque anni (“We Are Science” risale al 2002) di purgatorio sofferto a suon di concerti (e collaborazioni), Dorothy Allison prende del tempo per sé stessa e torna a proporci la sua musica. Una musica che, in perenne stato di estasi, raggiunge una forma immaginifica, racchiusa nel suo bozzolo emozionale, repressa ed implosa. Una storia esile ma con diverse chiavi di lettura musicale, un andare svagato che sembra rimandare all’infinito il tema principale, un’intensa nostalgia del passato, il ricordo ricorrente di suoni e colori. Sogni di giovinezza ed illusioni perdute, racconti sfuggenti, come un’ombra che si materializza di colpo sul suolo.

Come risultato del mutuo rispetto e amore per la musica, Dot ha registrato una manciata canzoni intense, di stampo autobiografico, dall’anima contorta e ossessionata. Aiutata dal supporto del leggendario produttore Kramer (Low, Galaxie 500), innamorata dei toni scarni del tardo Gene Clark, grande ispirazione per le sue ultime magie. Il grado di profondità con cui ha scavato il suo animo le ha permesso di realizzare un lavoro fuori dal comune. Canzoni fortemente improntate alla melodia, guidate dalla sapiente mano di un professionista. L’obbiettivo preposto dai due, cioè riuscire a fondere le loro rispettive qualità, riuscendo a raggiungere un unione di menti praticamente simbiotica, risulta pienamente centrato.

La struttura che sostiene tali stille di malinconia, risulta a conti fatti molto essenziale. Spesso e volentieri ci troviamo ad ascoltare solamente la voce di Dorothy e la sua chitarra, coadiuvata da alcuni strumenti di contorno. Piano, chitarra acustica ed elettrica, mandolino, banjo, qualche nota di piano ed il violino. Poc’altro, ad esclusione di qualche percussione sporadica. Questa scelta è stata dettata dal lavoro di introspezione personale, che l’ha portata quasi autonomamente a cesellare canzoni dall’impronta prettamente cantautoriale, che non prendono un via ben precisa, visto che le direzioni intraprese sono molteplici. Se a prima vista sembra d’ammirare un puro album di folk-pop, ci accorgeremo che un malcelata anima soul emerge con forza, per poi schiantarsi con screziature country di pregevole fattura. Dieci canzoni che scivolano sullo scorrere del tempo con delicatezza, un po’ come fa il vento quando smuove le onde e le fa sbattere contro la sabbia, in riva al mare.

Un manciata di canzoni che iniziano con “Allelujah”. La magia sprigionata è subito intensa. Flussi d’aria scalpitante e voci di bambini sono il preludio a una litania prolungata e estenuante. Già da questa traccia tornano alla mente le atmosfere di “Afterglow”, una sorta di misticità ricopre le note, la voce è avvolta da un manto seducente. Piccole gocce di piano, una chitarra desolata, sporadici lamenti in lontananza. Sembra di sentire un misto fra “Message Personel” e “Tomorrow Never Comes”. La deriva angelica finale è puro piacere.

Con grande afflato e pathos inizia “Thief Of Me”, una stupenda canzone comandata dal violino in odore di ispirazione miracolosa. Il ritmo si fa meno risucchiato ma svolto, srotolato, sviluppato. Forti dosi di melodia, con l’aggiunta di un banjo in grande evidenza. Scaglie del passato che tornano prepotenti, quindi. Fantasmi rinchiusi nelle parti più recondite della memoria che riprendono corpo. Quasi al limite della psichedelica onirica, gli ultimi attimi, possiedono una fascino sinistro.

Puro folk vocale (Joni Mitchell è elencata fra le sue influenze) in “Sunset”. Le sue parole, semplici accordi di chitarra, attimi di estasi, folate di organo. Minuscoli trattamenti elettronici si fanno notare ad un ascolto approfondito: impercettibili loop sulle note, schizzi digitali in sottofondo che paiono uno stormo di volatili cantanti. La successiva “In Deep Water” si fa notare sia per la sua ricchezza strumentale (banjo, mandolino, chitarra, percussioni di vario tipo), sia per le evoluzioni vocali di Dorothy. Il primo dato mette in evidenza un’attenzione quasi maniacale all’arrangiamento mai sopra le righe, nonostante la ricchezza non c’è mai un alito di sovrabbondanza. Nel secondo caso, siamo davanti ad una delle interpretazioni più toccanti della sua carriera. Non un canto usuale, ma cambi continui di tonalità, impostazione e distensione. Quando questi due elementi raggiungono una coesione perfetta ed è un puro incanto a rapirci.

Lacrime di mestizia si fanno largo nella toccante “You Dropped Your Soul”, bella da ferire nei più intimi interstizi della nostra anima; emozioni sconosciute provengono dalla inquieta “M’Aidez Call”, altra gemma cantautoriale.

“Tall Flowers” raccoglie a piene mani da “Afterglow”, ribadendo la sua grande passione per la cantante oscura per eccellenza: Nico. Toni da colonna sonora horror in sottofondo, scarni accordi di chitarra, voce riverberata (effetto utilizzato da sempre), qualche spuntata nota di piano. Rare schiarite, una liberazione dalle nuvole opprimenti, si concretizzano con l’esasperazione del ritmo, che rende l’andamento una sorta di marcetta sotterranea.

Giunge a questo punto, a parere di chi scrive, la canzone più bella dell’album. Già presente nell’EP dell’anno scorso intitolato “Beneath The Ivy”, “Quicksand” ha nelle sue interiora delle alchimie che sanno di miracolo. Sabbie mobili che inghiottono con lentezza estenuante la vita, i ricordi, gli amori, i preziosi scampoli con cui animare gli attimi più insignificanti della nostra esistenza. Cori in sottofondo, voci dall’aldilà, un andamento strascicato. Intorno al minuto 2:30 si inserisce una batteria che mette in piedi un minimo di ritmo pur sempre disciolto; la voce di Dorothy in questo frangente sfoga senza limiti la sua bellezza, con punte di grazia cristallina da lasciar senza fiato. :”Look At This, Now”, ripete. Noi, rimaniamo qui ad ascoltare, ed ammirare, senza avere la forza di reagire.

“Shivering”, introducendo la parte finale del disco, attinge un po’ da ogni episodio precedente, riuscendo a mettere a segno un altro centro. I filamenti quasi rumorosi di violino si rivelano molto funzionali, le percussioni non meglio identificate hanno un sapore tribale. La voce finale, filtrata con un effetto radiofonico, dona prestigio e incanto.

L’ultima “The Latitude And Longitude Of Mistery” (titolo stupendo) è un commiato felice, spoglio da temi e suoni tristi. I continui cambi di ritmo, la grande varietà strumentale, il rullante mai domo sono soltanto alcune delle particolarità che permettono di dire la parola fine senza il cuore in gola. Da ricordare e custodire il finale strumentale, progressivamente più silenzioso, con i secondi che scorrono, si spegne come una fiamma consuma una candela.

Se il tempo - cinque anni per l’esattezza - permette di incamerare idee, pensieri e sensazioni; elaborarle e metterle nero su bianco, il caso di “Exaltation Of Larks” è un esempio scintillante di questa teoria. Cinque anni confusi, passati in vari lidi, consumati con fatica ed impegno. Ciò che ne risulta è pugno di canzoni che strappano applausi, schiantano il cuore, donano silenziosi brividi per tutto il corpo.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 10 settembre 2007

Kathy Diamond: "Miss Diamond To You" (Permanent Vacation, 2007)



Maurice Fulton deve avere un gran fiuto, non solo per le inossidabili mescolanze afrohouse, ma soprattutto per il talento puro e le femminee colorazioni soul, le stesse che da un decennio a questa parte stanno letteralmente riscrivendo le gerarchie del settore. A Sheffield, dove sembra essersi focalizzata una piccola ma focosa nicchia di esploratori house, sono in pochi a conoscere Kathy Diamond; solo un talentuoso dj poteva afferrare appieno il concetto armonico espresso da una suadente (e apparente) signorina della porta accanto, solo uno che indossa ai suoi rave la t-shirt di Jay Z e poi ti piazza un sontuoso remix di “Over And Over” degli Hot Chip, poteva strappare una simile manipolatrice melodica ai circoli modaioli dei club londinesi. “Miss Diamond To You” è semplicemente il primo luminoso invito di una ragazza destinata al successo.

Sono molti gli elementi che potrebbero suggerire il paragone con altre neo-stelle del firmamento deep-house/deep soul, vedi Clara Hill o Monique Bingham. Uno fra tutti è definito dalla tendenza costante di ammaliarsi (e ammaliare) con un beat secondario mai in equilibrio, disincantato da una modellazione canora tanto accattivante quanto volutamente dissuasiva. L’altro, invece, non ha proprio nulla in comune con le principessine della new soul  generation, visto che trae dalla ricerca in coda nuovi, se non nuovissimi, percorsi voluminosi. Trattasi di sinuosi tracciati elettrici tesi ad alterare ulteriormente l’andazzo del disco, vere e proprie prolungazioni/divagazioni che farebbero la gioia di ogni dj del pianeta che si rispetti; ne è dimostrazione “Another Life”, racchiusa da una smaniosa trance funkeggiante, o la più quieta “On & On” , deviata in poppa da robotiche pulsazioni di natura teutonica.

Ballabile, ma con garbo, la delicatezza con cui i ritmi esplodono in dilungate jam psycho-funk hanno del miracoloso. Come già accennato, le influenze qui presenti sono fra le più disparate. Amore sconsiderato per il soul sanguigno e ritmico, passione malcelata per le chitarre funk, pura malattia per l’house vocale classica. La fervida tensione che pervade l’iniziale “Between The Lines” si distende in sei minuti in cui il ritmo sale, scende, si schianta contro le parole di Kathy, sbatte contro tastiere allucinogene. Il siparietto vibrante di “In All You See A Woman” è soltanto l’anticamera per la psichdelica “All Woman”, in cui hand-clappling sciabordano metallici, le percussioni tipicamente tribal esaltano con furore, le chitarre iniettano adrenalina incontenibile. C’è qualcosa di inimitabile nella divagazione strumentale, in cui i singoli elementi confluiscono in un unico torrente sonoro senza freno e senza il minimo rispetto per alcuna regola ritmica. Distrazioni tastieristiche sul finire danno il là al marasma.

Ancora scampoli da trenta secondi o poco più, alla deriva del pezzo successivo. “I Need You Here Right Now” sembra voler dar lezioni di oscurità dance, con quella sua frase da malinconia spicciola racchiusa in un guscio di cattiveria. Il vero corpo, l’estasi, è “Until The Sun Goes Down”; una suite strumentale fino a poco più di metà, in cui cataclismi di rullante riverberato vengono stoppati da tastiere che dondolano. Sul finire, si degna d’apparire la voce con una solennità annichilente.

Stesso siparietto fra “Created & Enhance” e “The Moment”; prima l’introduzione da messa nera con ballo annesso, poi il visibilio dance. “I am waiting for the moment when I can be in love with you” recita quest’ultima, più accessibile rispetto al passato; si concede seducendo sordida, con fascino viperino. Virtuosismi pianistici in “Over”, in odor di sala da ballo con sudore sul palco, davanti a centinaia di teste danzanti. I flussi tastieristici, uniti alle linee di basso pulsante, si intersecano con omogeneità sorprendente.

“However You Get Here” gela il sangue con la sua immediatezza luceferina; la vibrante “Racing Thru Time” garantisce un ritmo costante, sempre in bilico fra svenimento drogato e schizofrenie indigene. Il finale, infatti, si perde nel flusso che si crea fra la melodia di piano, chitarra e synth e la sezione ritmica composta da basso, cassa e percussioni. Un vero “viaggio” in cui l’atmosfera si fa sempre più torbida e melmosa, invischiata com’è nel tentativo di uscire dal tormento che la consuma.

Senza pause, pare di raggiungere la fine, e infatti “I Need You” è la penultima prima del termine. Più astratta e meno corposa, la struttura è sorretta da battiti di drum-machine e corpose sezioni di batteria, che a conti fatti mettono in piedi scampoli veramente trascinanti. La voce, in questo caso, si limita ad alcuni strascichi trattati da un vocoder marcio e snaturato; ancora, come mai prima, le tastiere rappresentano un elemento indispensabile, capaci di incollare in mente tratteggi cromatici vivaci e irriconoscibili. In coda, la versione originale di “Another Life” si fa notare per toni più elettronici, con l’aggiunta di synth pieni di bollicine e una ritmica per lo più sintetica.

Fra chi ha bisogno di canzoni per espellere ossessioni spersonalizzanti, e il tipo di persona il cui primo bisogno è ripulire la mente da tensione inespressa, questo disco è capace di mettere in accordo chiunque sappia apprezzare qualità capaci di ibridare spiriti antichi, provenienti sia dall’America orgogliosa della propria anima sia dai bagordi dei locali house d’inizio anni 90.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

AOEmusic: "Songs Such As No Radio Plays" (autoproduzione, 2007)



Solitamente, la passione per la musica, prende il corpo e l’anima, si contorge con essi, e ne rimane parte integrante. Un simile processo tanto semplice quanto stupefacente è capitato a Sergio Pigozzi aka AOEmusic, acronimo che sta per “Acceleration Of Emotions”.

Nato a Verona negli anni 80, inizia a coltivare un’attrazione fatale verso la melodia fin dalla primissima adolescenza. Suona il basso in alcune formazioni punk della sua città, inizia a prendere dimestichezza con strumenti come il sequencer e il synth, da via al suo percorso personale in campo compositivo. La prima collaborazione importante arriva con l’incontro di Massimo Turco (critico e giudice dell’Arezzo Wave), che coinvolge Sergio in un concerto di spalla ai Casino Royale. Purtroppo, l’esperienza si rivela deludente e il progetto muore ancor prima di essere iniziato.

Il processo di autoproduzione diventa sempre più corposo, tanto che nel 2001 nasce un contatto con Massimo del collettivo “Black Sun Productions”, conosciuto di persona a Zurigo. Qui si sviluppa il rapporto con una delle realtà musicali più oscure e misteriosi esistenti: i Coil. Da questo incontro nasce qualche progetto che prende forma inizialmente con un lavoro di remix sul disco “Astral Walk”, proseguito poi con le basi per un’opera composta assieme, chiamata "The Repossession Of The Lost Innoncence”, che purtroppo non vedrà mai la luce.

L’apice di questa esperienza si concretizza con la registrazione del pezzo "La Canzone Dei Pendagli Da Forca" presente nel loro penultimo album,  “OperettAmorale". Intanto, la sua carriera di compositore sfocia nel suo primo album, intitolato “Starting At The End”, contenente tutte i suoi primi lavori, dallo stampo più cinematografico, con un taglio da colonna sonora molto seducente.

“Songs Such As No Radio Plays” viene completato nei primi mesi del 2007. Al suo interno sono racchiusi suoni, intrecci e soluzioni che esprimono tutta la personalità dell’autore; un’opera elettronica fortemente personale, verrebbe da dire. Vera "musica emozionale". Lo stampo sperimentale e meno rilassato del presente prende il posto dei suoi vecchi lavori (il già citato “Starting At The End”), senza ripudiare il passato, ma mescolando impressioni, atmosfere e sensazioni in un risultato dalle sembianze poco definibili; la decorazione, volta per volta, si concretizza in un particolare, nel più piccolo aspetto. Una musica che si rivela in tutta la sua essenza con gradualità, lasciando all’ascoltatore uno scarto di comprensione minimo e minimale.

La partenza si affida subito all’emozionalità di “Beat Off”, uno splendido scontro fra partiture di piano cadenzate con grande tatto e battiti sottili, diluiti, ossessionanti. La grande naturalità con cui scorre questo primo episodio mette in evidenza la capacità di assemblatore di Sergio. Nonostante la soluzione adottata risulti debitrice di certe sperimentazioni pianistiche addobbate da singulti minimal-techno (vedere il primo disco di Murcof), il gusto e la sensibilità con cui il gelido ritmo si staglia con forza contro il silenzio delle note pianistiche trasforma qualsiasi dubbio in certezza.

La successiva “Thin” ha un taglio più disteso e meno ritmico, una sorta di jazz digitale dalle tinte fosche, contraddistinto da un andamento down-tempo mai domo.

Lo scorrere del disco evidenzia una forte impronta eterogenea, disorientando l’ascoltatore ad ogni episodio. Infatti, “New Radio” prende la scorciatoia di sicuro successo con l’aggiunta di archi sguscianti avvicinati a una serie di pattern elettronici molto positivi. Il sopraggiungere di alcuni colpi ritmici miscelati e distanziati con grande equilibrio dona alla parte centrale della composizione un influsso contagioso.

Toni più sommessi in “AM”, impreziosita dalla grazia di alcuni violini, tocchi di astrattismo pregevoli nella scomposta “XJ2911”. La varietà di atmosfere evocate è confermata anche da questa accoppiata; capacità su cui l’autore gioca con grande maestria e precisione.

L’intreccio di melodie presente in “Angels e Gods” sposta l’attenzione su alcuni aspetti più propriamente ritmici mai svelati precedentemente. “I Can’t No Longer Sleep” ha il pregio di riprendere il discorso lasciato in sospeso della prima traccia, utilizzando ancora il piano come strumento principe, qui però supportato da varie tastiere e polveri digitali di varia estrazione.

Come già detto commentando le sue prime opere, il taglio cinematografico di questa musica non si assopisce completamente, e infatti in questo caso emerge con forza, senza mai annoiare.

Avvicinandosi verso la conclusione, la maliarda “Backward” si lascia andare a un accordo di chitarra molto disteso, con l’apporto di percussioni tribali. “Trasformazioni” si spiega in tutto il suo splendore, attraverso una trasformazione ambient inaspettata. Non musica rilassante, visto che i sussulti glitch sempre presenti donano vivacità malata a un episodio che fa del suo valore l’incisività. Conclude la movimentata “Time For Fm”, un accenno a certa techno sperimentale abbastanza ben realizzato, forse un po’ fuori dal coro rispetto alle restanti nove tracce.

In conclusione, pare necessario evidenziare come le produzioni elettroniche nostrane, negli ultimi anni, abbiano rilasciato opere e nuovi autori di grande rilievo. Dalla grande prova di Obsil dell’anno scorso, passando per il recente progetto Echoes Of The Whales, arrivando a questo “Songs Such As No Radio Plays”, che fa intravedere grandi qualità, magari un po’ confuse, ma di sicuro valore, e che potranno essere confermate in futuro attraverso sviluppi più omogenei.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 3 settembre 2007

Montag: "Going Places" (Carpark, 2007)


Canadese di nascita, precisamente in Gaspè, cresciuto in una zona a nord di Montreal, Montag, all’anagrafe Antoine Bédard, è ritenuto uno dei maggiori musicisti canadesi in ambito elettronico. A ben vedere, vista la sua carriera, l’affermazione non è di molto lontana dalla realtà. Attivo da ben 5 anni, in questo periodo, ha pubblicato 3 album e 2 EP. La formula musicale sviluppata si è evoluta in varie forme, fino a raggiungere la sua evoluzione perfetta con quest’ultimo “Going Places“. Se l’accoppiata “Are You A Friend?”-“Alone, Not Alone” cesellava una forma inusuale di astrattismo pop, quest’ultima prova da sfogo a una certa accessibilità che in precedenza era assopita dietro una struttura più complessa. Senza niente togliere all’ottimo approccio dell’esordio, è doveroso evidenziare come quest’ultima impronta canzonettara data da Montag sia più congegniale alla musica da lui proposta. Ne giovano sia la sua voce, valorizzata e messa in evidenza, sia il risultato finale, divertente e vario, le cui tonalità cromatiche evolvono con grande fantasia. Le canzone di “Goinge Places” paiono palloncini gonfiati ad elio, lasciati volare in un cielo soleggiato.

L’inizio, affidato alla vaporosa “I Have Sound”, si distingue per la perizia sonora con cui è stata assemblato. Un electro-pop ben studiato e solcato dalla voce delicata di Antoine, dove percussioni e varie distrazioni elettroniche di collocano in maniera omogenea e mai sopra le righe. In questa traccia si annota la collaborazione di Anthony Gonzales degli M83.

Prosegue la divertente “Best Boy Electric”, dove la componente digitale prende il sopravvento e si attorciglia su sé stessa; i vari bleeps presenti sono veramente deliziosi. La voce, come già nell’episodio precedente, viene sottoposta ad un miriade di trattamenti che snaturano un po’ l’essenza della stessa; c’è da dire che, comunque, il risultato finale è veramente irresistibile.

Quest’alone di spensieratezza si conferma con la seguente “Mechanical Kids”, un vero e proprio bozzetto rifinito fin nei minimi particolari. Il beat muta con il passare dei secondi, quando sorretto da una drum-machine appena udibile, o “suonato” da una batteria che sembra comandare una marcetta scanzonata. Alcune voci in sottofondo sono interpretate da Amy Millan degli Stars.

La successiva “Alice” varia leggermente, innestando un cantato francese molto ben interpretato ed alcuni fiati dal sapore jazz; “322 Water” si rivela più posata e distaccata, una grande capacità di arrangiamento porta alla creazione di un’atmosfera unica, a metà fra un dream-pop sognante ed una sorta di ambient smorzata dall’attitudine frizzante.

“Softness, I Forgot Your Name” trova la sua incisività in una serie di archi pizzicati con grande grazia (prezioso il contributo di Owen Pallett aka Final Fantasy), “Safe In Sound” innesta un vortice di voci femminili/maschili (ancora Amy Millan) che si schiantano su un ritmo costante e prezioso.

Le scaglie vocali di “Hi-5 Au DJ” sono l’anticamera per la meravigliosa “Hands Off, Creature!”, un pop che si costruisce progressivamente, con i suoi colori, con i suoi elementi distinti, attraverso una magia all’apparenza semplice ma efficace nella sua essenzialità. Piccoli scatti ritmici, concretizzati in un basso sintetico molto gommoso, sono l’accompagnamento per la fioritura di mille cristalli digitali disegnati con il cuore di un’artista sognatore. A conti fatti, l’episodio in cui vengono racchiusi tutti gli elementi della musica di Montag.

Avvicinandoci alla fine del disco, spunta la minimale “> (Plus Grand Que)”, in cui si accentuano i riferimenti vagamente dream-pop. L’ibridazione di quest’ultima influenza con manipolazioni robotiche cesellano una forma canzone che, se non del tutto originale, seduce per la sua perfezione formale ed una emozionalità marcata. Anche se con componenti di sesso femminile, questa approccio ricorda i Sing-Sing, duo femminile nato da una costola degli storici Lush (Emma Anderson), che appunto prendeva quasi di peso certe estetiche dream-pop e le contaminava con intuizioni di stampo elettronico.

Note di piano solitarie riempiono i vuoti nella glaciale “No One Else”, infarcita di bruscoli glitch e synth saltellanti, trasformando gradualmente quanto già fatto in precedenza, con un tocco di femminilità in più, visto il supporto vocale delle tre Au Revoire Simone.

Menzione speciale per il commiato della title-track, che vede la nascita di un progetto musicale chiamato “We Have Sound Project”: una iniziativa che coinvolge musicisti amici di Montag e provenienti da tutto il mondo, fra cui  E*Rock, Vitaminsforyou, Ckid e altri. Ognuno di questi ha inviato un suono da lui creato, lo stesso Antoine si è occupato di assemblare il tutto, ed il risultato è a dir poco straniante. Scrosci digitali, scampoli di parole, ritmi diluiti; tutto si amalgama senza varcare la soglia della confusione e dimostra quanto la trovata sopra citata sia stata un qualcosa di positivo. Le bollicine che spumeggiano sul finire, con grande lentezza, lasciano il posto al silenzio con una gradualità quasi impercettibile.

Risvegliati con il giungere del termine, lasciamo da parte le emozioni per dare un resoconto esaustivo. Se con le sue precedenti opere, Montag voleva dar sfogo ai propri animi più oscuri, in questo ultimo capitolo, ci sono le potenzialità per offrire la sua musica con un più ampio raggio d’azione, permettendo di riscoprire il suo passato tanto positivo. Antoine, capace di svelare i sogni con tatto encomiabile, ci permette di immergere l’animo in un’atmosfera pacifica e ovattata solamente con la pressione del pulsante Start e “Going Places” inserito.

(7)
 
recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 27 agosto 2007

Xeltrei: "Litotes" (Symbolic Interactio, 2007)





È un periodo di attività frenetica per il compositore svedese David Wenngren che, appena dato alle stampe “Höstluft”, terzo album della sua creatura artistica d’origine, Library Tapes, è già pronto a cimentarsi in ben due diversi progetti, ovvero Fireflies, improntato all’ambient-drone e Xeltrei, che lo vede affiancato al pianoforte dalla sua compagna Erica Gunnarsson.

Il debutto di Xeltrei, per il momento destinato esclusivamente al mercato giapponese, vede Wenngren proseguire quasi senza soluzione di continuità il suo percorso verso il minimalismo pianistico, la rarefazione ambientale e una più spiccata propensione al filtraggio dei suoni attraverso il computer.

“Lo-fi piano music made with love”: così recita la presentazione di questo lavoro da parte del duo. E certamente l’ascolto dei dieci brevi frammenti compresi in “Litotes” dà ragione della definizione e dello spirito con il quale essi sono stati composti e realizzati. Dalla mezz’ora scarsa di durata dell’album traspare, infatti, un’intensità emotiva quasi imprevedibile, se si pensa ai pochissimi elementi che lo connotano e al fatto che anche le poche note lentamente stillate dal pianoforte non possiedono la leggiadria di molti passaggi di “Höstluft”, essendo invece quasi esclusivamente contrassegnate da una solennità sobria e notturna. La cupezza – soltanto superficiale – di tali atmosfere è poi acuita dai beccheggi e disturbi di sottofondo dei field recording, contorno costante e a tratti quasi impercettibile dei compassati tocchi di piano, che tuttavia in un paio di episodi (la title track, “Karuseller”) si eleva in primo piano in una sorta di inquietante preludio alle due-tre liberatorie note di pianoforte del finale.

Senza entrare nel dettaglio delle tracce, risulta più utile dare una panoramica a più ampio raggio, data l’omogeneità della proposta finale. L’approccio compositivo di Library Tapes viene abbandonato quasi completamente: mentre lì ci si stabiliva con grazia su partiture pianistiche più definite e ingombranti, qui predomina l’essenzialità, spesso solcata da piccoli “vuoti”. Un silenzio a tratti espressivo, il quale, nei momenti in cui il piano (sempre strumento principe) si fa da parte, lascia il posto alla grande incisività di suoni raccolti dalla natura, che donano un inconfondibile sapore rustico a ogni episodio. Onde sciabordanti, fruscii di vento tagliente, rumori dai colori floreali, suoni che per loro natura non hanno una tangibilità musicale ma, al contrario, creano un’atmosfera, appunto, “silenziosa”.

Un altro grande pregio di Wenngren risiede nella capacità di non lasciarsi mai andare in lungaggini a dir poco deleterie, la positività di ogni suo disco (anche Library Tapes possiede questa qualità) è da ricercarsi anche in questo particolare. L’immediatezza delle dieci tracce qua presenti non distrae l’ascoltatore che in un battibaleno giunge alla conclusione, ed è pronto a riassaporare l’alternanza “pieno-vuoto’ del disco. Con ciò non si vogliono certo sminuire soluzioni stilistiche più dilatate; l’obiettivo di queste considerazioni è anzi quello di evidenziare come la scelta di “riassumere” tante idee in un breve lasso di tempo giovi in maniera straordinaria a un lavoro di questo genere.

In conclusione, “Litotes” rappresenta un ulteriore, prezioso tassello che, unito ad altri similari usciti nel volgere di pochi mesi (Eluvium, Irisarri, Swod, Porn Sword Tobacco, lo stesso Library Tapes), induce a considerare fin d’ora il 2007 come anno della “experimental-piano-music”: per pura coincidenza – o forse no – un nugolo di artisti ha pubblicato un numero importante di prove le cui soluzioni si sono differenziate per pura sensibilità personale. Inoltre, è stato dato il via a un interessante sviluppo artistico, i cui progressi futuri non fanno che alimentare la nostra grande curiosità.

Non si può, pertanto, non elogiare il compositore David Wenngren, capace di mettere insieme una musica con elementi (e risorse) molto spartane, all’interno di una carriera artistica che continua con grande impetuosità a prendere varie strade, non deludendo mai i propri estimatori.

(7)
 
recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

lunedì 30 luglio 2007

Keren Ann: s/t (Metro Blue, 2007)
















A due anni esatti dalla buona prova offerta in “Nolita”, riemerge l’oscura malinconia della chansonnier dalla vita errante, in continua simbiosi tra limpido songwriting cantautoriale e inclinazioni che attingono dal jazz, dal rock e - ancora una volta - dai tradizionalismi francesi.

Ed è subito meraviglia, sia chiaro. Mai come prima, Keren Ann si lascia ispirare da suggestioni più ampie che guardano sì a Joni Mitchell, all’inevitabile Gainsbourg e Françoise Hardy, altresì alle orchestrazioni di ampio respiro à-la Yann Tiersen, ai saliscendi emozionali di Canterbury e ai minimalismi di richiamo Eno/Glass.

E’ una grazia discreta, quella di queste nove tracce, che risiede sempre nell’equilibrio tra la splendida voce di Keren e arrangiamenti curati al dettaglio, che spesso danno vita ad atmosfere vaporose e decisamente senza tempo nel quale è incantevole perdersi.

Prendiamo “The Harder Ships Of The World”, con il suo lunatico incedere del pianoforte, pochi tocchi impressionistici e spiritati, che completano una melodia perlopiù dominata da una chitarra acustica, qualche rara percussione e sottili aliti di synth, che risuonano lontani e impalpabili. Di fronte a tale incanto, ci si limita in silenzio a sognare, a ripercorrere con la mente antiche suggestioni e idee che riportano al Mark Hollis solista.

Applausi a scena aperta, dunque. Che vanno replicati nella litania dolciastra di “Where No Endings End”, fascino tierseniano e strascicato, gracile voce da batticuore e risultato che non va così lontano dalla "Madama Tristezza" di Matt Elliott.

Poi arriva “Liberty” ed è il bignami della mestizia di Keren Ann; poco meno di 6 minuti per farsi coccolare dai bisbigli garbati e irresistibili della voce, cori angelici che fanno il verso alle incursioni di Robert Wyatt, un incedere zuccherino della mano sul pianoforte, il saltellare sulle note alte incanta con eleganza. Il glockenspiel e la chitarra acustica tengono il passo, con il cuore messo alle strette un’altra volta.

Lo sviluppo dell’iniziale “It’s All A Lie” schianta l’ascoltatore con un malumore deviato, distorto, doloroso e latente; gli spettri sonori che abitano le profondità di questa composizione hanno del paranormale: una costante ansia sonora pervade ogni singolo secondo della canzone. Elementi essenziali, distratti e scheletrici: un lieve battito di percussione è solcato dalla chitarra elettrica; questa, sì, capace di lasciare fendenti sicuri e laceranti, accompagnati da un’interpretazione fra le migliori offerte da Keren nella sua carriera.

Negli episodi descritti poco sopra, si evidenzia uno sviluppo in crescendo dello stile compositivo di Keren; il tutto, ovviamente incentrato sulle sue doti canore fuori dal comune.

Keren si contorce in sinuosi intrecci melodici che hanno del miracoloso, soprattutto per la loro essenzialità: ne è un esempio “Let Your Head Down”. Una fisarmonica polverosa, accompagnata da un hand-clapping azzeccatissimo, mettono in piedi una filastrocca luciferina ed emozionante; l’avvento della componente percussionistica non fa che accentuare il pathos. La parte centrale implode in un’orgia di suoni e rumori aggraziati, collassando poi in un finale dalle sembianze spirituali.

Non c’è da stupirsi se davanti alle gracili intarsiature di “In Your Back” si rimarrà completamente attratti, sedotti, per poi essere lasciati, miseramente, senza un briciolo di compassione. Il timido accenno elettronico (un synth) pare una ragnatela magicamente disegnata da una matita nel cielo, supportata da una struttura tutt’altro che banale; ancora incertezze ritmiche, mai sopra le righe né eccessive: questa attenzione nell’arrangiamento mai ingombrante evidenzia un’attenzione certosina nel dosare i vari ingredienti.

Il rock si presenta prepotente e corrosivo nel frangente più aggressivo del disco, “In Ain’t No Crime”. Un pugno nello stomaco, senza fronzoli o ricami. Lo scalpitare regolare e ciclico della chitarra è perfettamente incastrato con la batteria, precisa e puntuale; la voce, con una resa povera e quasi radiofonica, bestemmia con rabbia la propria inquietudine.

Avvicinandosi al commiato, i toni si fanno leggermente più ariosi e meno secchi. Ne è dimostrazione di ciò la penultima “Between The Flatland And The Caspian Sea”, con un andamento più ad ampia fruizione, con un piglio dalle sembianze country, così disimpegnato e disciolto in una melodia diligente, ma mai scontata. Una maggiore ricchezza strumentale non inficia l’atmosfera generale, e, anzi, aggiunge maggiori spunti di riflessione. Il coro conclusivo, così congiunto e accorato, si distingue per il grande garbo; una musica che si rivela empatica e dissonante al tempo stesso.

Giunti all’ultima traccia, un po’ tutti i lettori, avranno già in mente cosa aspettarsi: una canzone dai tratti soffusi e vagamente malinconici, con un tocco di pessimismo appena accennato. Certo, non ci sarebbe niente di male in ciò, e sarebbe giustamente accolto e approvato con entusiasmo. Invece, la sorpresa è dietro l’angolo, visto che “Caspia” è un episodio molto contorto, che produce un effetto decisamente inusitato sull’ascoltatore. Singulti elettronici si mescolano con trovate ritmiche di grande levatura; le chitarre (una acustica, l’altra elettrica) miscelano note puntigliose in perfetta armonia con la catastrofe sintetica che le circonda. La voce, solo dopo qualche manciata di secondi, decide di fare un timido capolino con un delizioso :”La La La… La La La”. Fra voci orrorifiche (quasi al limite di certa dark-ambient) e alcuni xilofoni distrutti, si sfuma progressivamente verso il silenzio.

Aggiungendo sommessamente Keren Ann al novero delle cantautrici più ingiustamente sottovalutate del momento, decidiamo di candidare questo album come il migliore della sua carriera, forse perché è il più toccante, forse perché c’è sembrato giusto rilanciarla proprio ora, magari perché è semplicemente stupendo. Raccolto in nove bozzoli appena dischiusi, e ti si rivela gradualmente: come quando attacchiamo delle foto su un foglio, ricostruiamo le nostre memorie, e ci rendiamo conto che non c’è niente di più prezioso e importante.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Pizzichetta

lunedì 16 luglio 2007

Library Tapes: "Hostluft" (Mike Mine Music, 2007)



Pianoforte ed elettronica: un connubio tra due strumentazioni tra loro in apparenza molto distanti, ma che è ormai divenuto abituale in seguito ai molteplici esperimenti di accostamento di questi due elementi, condotti da artisti contemporanei, di sensibilità ed estrazione diverse.

Il risultato dell’interazione di melodie pianistiche e screziature elettroniche non è tuttavia sempre frutto di una mera operazione formale, o almeno non lo è quando alla sua base vi è la volontà di trascendere una forma ormai non così originale, per sottolineare le vibranti potenzialità emotive del pianoforte, in composizioni di semplice intensità, appena sporcate da crepitii ed effetti elettronici vari.

È questo che avviene nelle opere dello svedese David Wenngren, adesso giunto al suo terzo lavoro nel breve volgere di due anni sotto la sigla Library Tapes, dopo i due pubblicati per Resonant, “Alone In The Bright Lights Of A Shattered Life” e “Feelings For Something Lost”.

“Höstluft” segna la naturale prosecuzione della “poetica dell’assenza” di Wenngren, qui resa ancor più intima e quasi imperscrutabile dalla scelta della lingua svedese per il titolo dell’album e quelli di tutte le scarne composizioni qui comprese che, in poco meno di mezz’ora, alternano sparse note di piano (“Mörker Genom Tomrum”, “Noslipós”) a melodie romantiche e più strutturate (“Skiss Av Träd”, “Dis/Dagg/Dimma”).

Se infatti i due lavori precedenti vedevano una maggiore presenza di trame elettroniche oscure, solo a tratti solcate da partiture pianistiche, “Höstluft” può considerarsi un album pensato e composto per piano solo, in cui le esili sfumature digitali rappresentano soltanto l’impalpabile corollario di composizioni di intenso minimalismo isolazionista, non alieno, tuttavia, da passaggi lievi e solari (“Ensamhet”, tra tutti), né da momenti di sinistra cupezza. È il caso, quest’ultimo, dello sferragliare metallico dell’incantevole “Noslipós”, che getta panico nell’animo dell’ascoltatore, puntualmente risollevato dalle effusioni amorose di “Repor”, una splendida partitura puntellata da soavi note liquide, disciolte, finemente straziate da distrazioni particellari. La più frenetica “Mellan Ljud Och Text” aggiunge granulosi field-recording al solito flusso melodico, sviluppato con grazia cristallina; ed è corroborata dalla successiva “Skiss Av Löv”, che dona nuova luce e sviluppa con tatto gli intrecci minuscoli e imperscrutabili che vengono a crearsi.

La seconda parte del disco si caratterizza per un approccio più astratto e in parte disgiunto da quello delle tracce precedenti; perché, se “Pjotr“ innesta una disturbante schizofrenia glitch, la title track si avviluppa autonomamente con suoni d’altri mondi e incentra la sua ragion d’essere in un grande pathos di fondo. La già citata “Ensamhet” si distingue per un malcelato e straniante romanticismo, la conclusiva “Distans” sancisce la fine, fotografando con grande fedeltà cinematografica la realtà del suono di Library Tapes: una grande corrente in cui si mescola alla rinfusa, paradossalmente con ordine disordinato, ciò che la mente di David Wenngren sogna nel suo inconscio: colori sibilanti e presenze sonore marginali e al tempo stesso vitali, con l’anima rivolta verso la pace e la mente così eterea da risultare quasi immateriale.

Dopo i recenti album di Eluvium e Rafael Anton Irisarri, un’altra pregevole prova della declinazione in chiave moderna ed emotivamente traboccante del classicismo minimale incentrato sul pianoforte.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

mercoledì 11 luglio 2007

Action Biker


Sarah Nyberg Pergament nasce nel 1983 a Trelleborg, in Svezia.

Se ne va a Goteborg molto giovane insieme ai suoi genitori che lavorano come musicisti professionali. da loro apprende una forte sensibilità artistica, con l'avanzare della passione per la musica.

Dopo qualche anno di scuola e l'apparizione in vari contesti musicali, Sarah inizia con il suo computer a comporre le sue canzoni. Nell'inverno del 2002 decide di chiamarsi 'Action Biker', dal nome del videogioco nato su Commodore 64.

e da qui inizia la magia e la relativa semplicità della sua musica.

fra il 2002 e il 2003 escono tre scheggie pop:


Action Biker: "Untitled" (self released, 2002)










Action Biker: "Elephant & Castle" (Wiaiwya, 2003)
 



 






Action Biker: "Sandy Edwards" (Break & Enter, 2003)

il primo dei tre elencati si distingue per una fragilità ritmica e strumentale quasi amatoriale, anzi non quasi, completamente amatoriale. qualche synth, una scassatissima drum-machine, la voce di una bimba, fantasia da vendere. synth-pop sarebbe da dire, ma non completamente. c'è uno spirito pop raffinato qua dentro, molto intimista e non cialtrone. canzoni piccole e preziose.

Farrah è molto disciolta e malinconica, con uno stomp minimale di batteria elettronica quasi come se fosse un gioco; le tastierine che giocano con il ritmo sembrano quasi prenderci in giro. deliziosa.

la scanzonata Heartbreak è talmente magnetica e immediata che costringe all'ascolto prolungato, come minimo una decina di volte.. groove serrato, pad elettronici impazziti, testo scemino e ironico, due minuti di felicità.

Il terzo episodio (Teve Star) è sulla scia del precedente se non ancor più essenziale. sembra facile scrivere canzoni così; ed invece se sulla superficie sembra di esser davanti a uno scherzo, queste canzoni nascondono un'estrosità compositiva fuori dal comune, perchè come si sa, scrivere ritornelli pop incisivi è enormemente difficile.

rise and fall innesta alcuni coretti sintentici alla formula che sembra non avere limiti..

il cambio linguistico nel secondo EP citato (Elephant & Castle) (dall'inglese al francese) non scalfisce di un centimetro l'efficacia di queste canzoncine.

si vede che pian pianino la ragazza ha acquisito una certa consapevolezza produttiva ed infatti nelle cinque canzoni qui presenti la differenza rispetto al precedente si sente.

La Conjugaison Pour Tous è un vortice di divertimento digitale, fra filtraggi vari, ritmi scomposti e scemi, ritornelli perfetti e un bozzettismo pop di rara qualità e coesione. la voce, come sempre, si distingue per timbro cristallino e purezza timbrica.

e così stesso discorso per la seguente L'Amour L'Après-Midi, semplicemente perfetta. le capacità di questa ragazza sono notevoli, i mezzi utilizzati pochissimi e il risultato sorprendente. singulti digitali si intrecciano con un synth plasticoso e assassino, quando il piccolo inframezzo strumentale Gothenburg, Sweden arriva e sparisce in un attimo, lasciando allibiti.

Smash Hit Producer è divertentissima con i suoni dei videogiochi campionati e un ritmo giocattoloso che non può se non ispirare simpatia.

la conclusiva A Short Message ha un taglio molto più oscuro, sia per quanto riguarda il cantato, e sopratutto dal lato delle le melodie, più taglienti e severe rispeto al materiale descritto fino ad ora. le percussioni riverberate in sottofondo sono un briciolo di genialità che spunta fuori con forza; attimi di bellezza infantile si fanno vivi intorno a questa composizione, così scheletrica e lacerante al tempo stesso. da mozzare il fiato lo sferzante synth metallico posto in coda.

stomp quasi minimal-house per il pezzo che apre il brevissimo 7" Sandy Edwards, dedicato al fotografo australiano. la mutazione ritmica non inficia, come detto poche sopra, l'anima di una musica nata amatoriale e compiuta ancor più con l'intento di lasciare tutto così senza troppo impegno in sede di produzione o arrangiamento. magari è pure una necessità, ma a me piace pensare che sia una scelta consapevole e ragionata.

perciò, la title-track, avvinghiata in uno groove gommoso, canta :"I Want to be like Sandy Edwards" e la voce in sottofondo :"She wants to be like Ewdards".. con un groviglio di tastiere sapientemente cesellate e dosate nel più minimo particolari.

le bollicine elettroniche di The Perfect Job sono puro godimento ludico, così colorate e scanzonate. questa canzone potrebbe continuare all'infinito e non stancherebbe mai. il groviglio di voci posto sul finire si lascia ricordare con paicere.

poi c'è Wrong Side. beh, dato che è la sua ultima canzone ufficiale in ordine cronologico, e visto che non la si vede da 4 anni ormai, non poteva non lasciarci in un modo migliore.

distrazioni ritmiche dettate dal synth incespicano con l'arrivo di un clapping inarrestabile, ed è un progressivo impastamento melodico a farsi vivo, con il sopraggiungere della sua voce ombrosa e pacata, quasi rassegnata alla fine, ed è proprio la conclusione che lascia con l'amaro in bocca. vorremo centinaia di canzoni così, ma purtroppo ci dobbiamo accontentare ascoltandola 10, 20, 30 volte. splendida.

ed è così che un talento se ne va, purtroppo ho i miei dubbi che si rifaccia viva.. sul suo myspace c'è qualche canzone nuova molto carina ma non credo arriverà mai ad un album d'esordio.. io ci spero...

Training Day


ieri sera non sapevo cosa guardare, ed allora ho iniziato a sfogliare la mia collezione di dvd pieni di film da vedere.. ogni volta la scelta mi occupa più o meno dieci minuti. poi mi appare il nome 'training day', di cui avevo sentito parlare vagamente qualche tempo fa e allora mi dico :"perchè no? il nome mi ispira".

questo film, datato 2001, è un thriller poliziesco il cui inizio non promette niente di buono dal punto di vsta qualitativo.

Il primo giorno della giovane recluta Jake Hoyt, che vuole entrare nella squadra antidroga, accanto al veterano Alonzo Harris, pluri-decorato e specializzato nell'incastrare pesci grossi, che lo deve giudicare.

Sembra il tipico e davvero inflazionato scontro tra personalità contrapposte: inesperienza, fragilità e idealismo contro successo professionale, durezza e arroganza necessari. Già si suppone che la coppia male assortita troverà un punto di intesa e alla fine, collaborando insieme con contorno di sparatorie e inseguimenti, si salveranno la vita a vicenda e diventeranno amiconi. Invece le cose vanno in maniera completamente diversa.

mi hanno affascinato i due protagonisti, due attori che stimo tantissimo, cioè Denzel Washington e Ethan Hawke. se il primo è un maestro nel fare la parte del poliziotto esperto e cinico (Alonso), l'altro è magistrale nell'interpretare l'inesperienza del "pivello" appena uscito dall'accademia: pieno di principi ma pur sempre timoroso di sbagliare qualcosa. un continuo cambio di prospettiva, i personaggi mutano, i colpi di scena sono innumerevoli e la tensione è sempre costante.. fino al finale, completamente spiazzante, con una crudeltà che viene tutta fuori e ti sbatte al muro.

un grande spaccato crudele e incazzato di una realtà fatta di gangster, sangue e pallottole velocissime.

domenica 1 luglio 2007

Sneakster











Il Signor Mark Clifford, aveva già alle spalle una carriera di tutto rispetto, avendo rivoluzionato il modo di concepire l'elettronica moderna con i Seefeel:

dischi come quique o succour sono veri e propri classici, che hanno forgiato un suono che verrà poi chiamato ambient-techno.

ok, però, quello che forse tanti non sanno e che dopo la fine di questa gloriosa carriera, loro non si sono fermati per niente, anzi..

all'interno del gruppo ci sono delle teste piene di idee, tante idee, e il gruppo madre non basta. perciò, fra disaccordi artistici e ambizioni personali, i progetti paralleli sono tanti.

L'unione iniziale del gruppo si sfalda e i vari componenti prendono il loro spazio. Facendo un riassunto, il chitarrista Mark Clifford fa prevalere il suo impegno nel progetto Disjecta. gli altri tre (Peacock, Fletcher, e Seymour) iniziano ad incidere sotto il nome Scala.

Solo dopo Clifford incidce un EP su Warp sotto il moniker Woodenspoon ed infine, arriva l'illuminazione per gli Sneakster. precisamente era l'anno 1999. e mai la musica, come in questo fugace episodio, m'era sembrata così luminosa.

Sophie Hinkley e Mark Clifford si conoscono in un locale di Londra chiamato Milk Bar e da lì iniziano a scrivere del materiale assieme. Uscito su Bella Union il loro primo EP (Fifty Fifty), sempre nello stesso anno, viene pubblicato Pseudo-Nouveau.

Sneakster: "Pseudo-Nouveau" (Bella Union, 1999)

come già ho ripetuto alla noia in varie occasioni, ma non è mai inutile ribadirlo, questa opera è catalogata sotto la sezione capolavori trip-hop dimenticati.

l'esperienza elettronica di Clifford è palese e i ritmi sono cesellati con una perizia tecnica mostruosa, ogni suono è lì al suo posto ed ogni canzone, che sia strumentale o cantata, sprigiona sensualità e bellezza in ogni sua particolarità. La voce della Hinkley è straordinariamente sinuosa, così impegnata a star dietro alla sciabordare elettronico che la circonda, impreziosendo con grande efficacia ogni episodio da lei toccato. da non dimenticarsi come la scrittura dei pezzi non sia un'esclusiva di Clifford, lei partecipa e con molto impegno.

si parte subito alla grande con Whileaway. Il beat metallico che introduce il pezzo è tagliente, ti lascia spiazzato; solo dopo l'inizio del ritmo martellante di stampo industriale ti rendi conto che il disco è iniziato.

La voce di lei è un canto candido, pieno di calore, mai sopra le righe, un misto di capacità interpretative e passione emozionante. I vari inserti percussionistici che qua e là lasciano il segno, evidenziano una ricerca sonora di grande qualità, incentrata su un impatto sordido e misterioso. questa ossessionante cantilena notturna si protrae per quasi 6 minuti, ed è quasi straziante sentire che tale melodia può (e forse deve) finire.

senza nemmeno la possibilità di riprendersi, un qualsiasi ascoltatore arriva a confrontarsi con la successiva Firehearts. ed è davvero dura non rimanere incantati. l'inizio pare presagire un calmo e acquoso episodio ambient, adagiato su un paio di droni che si incrociano, ma non è così. dopo qualche manciata di secondi, inizia a ripetersi un pattern che è quasi irreale da tanto è bello. una sorta di tastiera filtrata, o forse un synth analogico, non è certo facile decifrare la natura di questo suono.. ma a conti fatti, ciò che ci interessa è il risultato finale. quel ciclico muoversi di note fra i vocalizzi di una Hinkley splendida e mai così ombrosa, vortici vocali che sanno di dolore si muovono con velocità, fra una sorta di incanto surreale e magici incatesimi sonori.

il marcio che c'è in questo suono viene tutto fuori con Splinters, un'ambient-pop diretto da un beat sporchissimo, putrido e distrutto, che stride  con la dolcezza della voce di Sophie, brava nell'accentuare questo contrasto. splendidi i momenti di pausa dove il suono pare sospeso e intermittente, dove piccoli vocalizzi, note casuali e vortici digitali riempiono il vuoto. il tutto, ovviamente, ripiomba nell'oscuro con una prosecuzione (e una conclusione) ancor più altalante e disorientativa.

un trittico iniziale così, davvero pochi dischi possono permettersela. perfetto da ogni punto di vista: emozionalità, bellezza compositiva, puro godimento sonoro.

Le velleità ambientali di Clifford vengono tutte fuori nella parte centrale del disco, con un centro dopo l'altro, d'altronde i maestri raramente deludono.

Full Echoes è incentrato in un favoloso organo sintetico, poi accompagnato da angeliche note di chitarra e uno scricchiolante beat di puro stampo minimal techno. affascinante come pochi, la dubbia regolarità della melodia, svanisce sul finire.

sempre ritmi di estrapolazione industrial fanno capolino in Stolen Heart, solcati appena dalla solita voce femminile; il piccolo inframezzo ambientale Trust & Blush regala qualche attimo di tregua, sognando per conto suo nei pochi secondi a sua disposizione.

l'organo torna a far male come in Full of Echoes nel episodio seguente, Static. Da sottolienare la grande qualità della progressione melodica: l'organo, che rimane lo strumento principale per tutti i 5 minuti, è via via sostituito o coadiuvato da un basso, un beat elettronico e la voce, conturbante e di grande impatto emotivo.

Heavy Heat, Heavy Time calca la mano sul lato più ritmico della formula stilistica, incastrando con le solite trovate elettroniche un martellante pattern percussionistico, peraltro molto coeso a mai fuori posto o mal congegnato. la faccenda si complica sempre di più fino a raggiungere vette di rara bellezza, come nei momenti in cui uno spruzzo di synth giganteggia fra i marasmi che sanno d'ossessione. la solita sophie fa il suo sporco lavoro con un'interpretazione da incorniciare.

La conclusiva Sweet Melody ricalca fino a un certo punto il titolo, visto che di dolcezza qua ce n'è ben poca, fanno eccezione alcuni gorgogli elettronici pieni di garbo e buon gusto. il battito solitario che sferza il silenzio prima della fine, così intriso di magia arcana, è ciò che ogni finale che si rispetti dovrebbe avere dentro di sè.

la versione originale del disco uscito nel 1999 finisce qui.

Un anno dopo, viene rilasciata una versione allungata, con l'aggiunta dei pezzi presenti nell'EP citato all'inizio, Fifty-Fifty. tre pezzi remixati da chi? da sua maestà Robin Guthrie. per la precisione Fireheart, Stolen Letter e l'inedito Kinda Blue.

nel primo caso (Fireheart), Guthrie, rimpolpa la struttura scheletrica dell'originale aggiungendo e in parte storpiando l'effetto voluto da clifford, rimanendo comunque un risultato di sicuro interesse completistico. con stolen letter, invece, si accentua il lato sognante della composizione e in effetti il risultato, anche se di differente natura, si distingue per grazia e deliziosità. Kinda Blue, l'inedito recuperato in questa seconda versione dell'album, incastra singulti classici (cello) con un beat molto positivo e martellante, anche nei frangenti più estatici, il marchio di fabbrica e l'animosità repressa non tarda a trapelare da queste note.

che altro dire? nient'altro, se non la volontà di sottolineare quanto una manciata di canzoni possa lasciar segni indelebili anche senza aver avuto clamore. rilevanza che peraltro avrebbe ampiamente meritato.

lunedì 25 giugno 2007

Moskitoo: "Drape" (12k, 2007)



Proveniente dal Giappone, la nuova esordiente di casa 12k, propone un lavoro ispirato dal clima glaciale della sua terra di provenienza. Nata (nel 1978) e cresciuta precisamente a Sapporo, sotto la prefettura più a nord del paese, Hokkaido, Sanae Yamasaki, scorge la genesi del suo impegno artistico in una fantasia strumentale sorprendente. Con l’apporto del suo piccolo babaglio musicale, (chitarra, percussione metallica, un synth, drum-machine, qualche strumento giocattolo) compone melodie stilizzate e a tratti immateriali, di chiara ispirazione minimale, colme di vortici digitali e ideate con grande garbo e cura per i particolari. L’incontro che le permette di rendere concreto il suo più grande desiderio, poter pubblicare la sua musica e renderla disponibile al pubblico (“raccontare i propri sogni”), è quello con Taylor Deupree, capo della 12k, etichetta sui cui uscirà il disco. Da sempre attratto da sonorità provenienti dal Sol Levante, Deupreee, ha spesso accolto nel suo roster artisti giapponesi, fra cui ricordiamo con piacere Sawako, Gutevolk, Piana e Minamo. Ed ora si aggiunge pure Moskitoo.

“Drape” ricalca certe strutture ritmiche e timbriche tipiche degli artisti menzionati poco fa, infatti, le affinità con gli astrattismi concreti di Sawako e le strutture digitali del primo album di Piana (“Snow Bird”) sono molto forti, anche se in questo caso ciò che differenzia è l’approccio leggermente fuori dal tempo e dalle logiche. Se i frangenti completamente strumentali dischiudono un guscio di emozionalità per troppo tempo repressa, risultando scritti con impulso incontenibile, gli episodi in cui Sanae usa la sua voce (mai effettata), sprigionano una magia piena di fantasticherie e splendore, raggiungendo vette di fascinosità apparentemente senza limite. Da mettere in risalto altre due caratteristiche che possono risultare interessanti per sviscerare la natura in apparenza nascosta dell’arte di Moskitoo. L’attenzione per i suoni utilizzati, la porta anche a incamerare nelle sue composizioni un’infinità di campionamenti che, nonostante la loro irriconoscibilità, donano ad ogni canzone un incanto del tutto misterioso. La seconda precisazione, che può sempre avere un motivo d’interesse, è la sua passione per il disegno e le arti figurative. Una certa capacità astratta nel “disegnare” reticoli armonici è palese e sicuramente queste sue predisposizioni l’hanno aiutata nel raggiungere il risultato finale che giunge a noi.

La storia di “Drape” si svela con “Paddle”, una sorta di introduzione. Gemiti metallici, poi supportati da suoni acquatici di una bellezza purissima, si protraggono con la voce, timida, quasi appartata. Un piano, con le sue note sporadiche e con il capo chino, detta il tempo, poi distratto e deviato da alcuni strappi digitali, che conducono alla fine fra un gelido soffio di vento che sferza, e un caldo bagliore che indica la strada per “Skie”; ed è subito un incantesimo a vibrare. Uno xilofono, scende e suona, accompagnato da un schizzo che si sbizzarrisce in quanto a sviluppo creatività. Il tutto continua a srotolarsi con grande grazia; si aggiungono, con il passare dei secondi, la voce, piccoli singhiozzi e un estrosità garbata.

La successiva “De Sii?” è un minuscolo bozzetto che si racchiude in un ciclico rincorrersi di timbri ovattati, e impressiona per personalità compositiva, come “Manima No Lemon”, la logica prosecuzione decisamente più dilungata e contorta, con altri inserti vocali e trovate che denotano un estro invidiabile, anche per la grande presa progressiva di cui è intriso il pezzo, infatti, la partenza quasi silenziosa, deriva in una conclusione molto corposa ma pur sempre aggraziata.

Il connubio fra drones sintetici e gorgogli elettronici si rinnova con sorpresa nella corta “Tarantilla”, evidenziando, come negli episodi precedenti, una certa animosità inquieta nella musica di Moskitoo, sempre debitamente nascosta e celata da una patina di colore tenue, ma pur sempre presente, anche se difficile da scovare.

Le parole, ancora, come accennato in sede di presentazione, fanno dono di gioia e sincerità (“Terrier”), in un clamore di ispirazione ambientale e tradizione giapponese, i samples rurali di “Shaggy” hanno un che di amatoriale e rustico, perfettamente puntellati da un partitura di metallophone a tratti dissonante.

Avviandoci con grande velocità alla parte finale dell’opera, ci troviamo davanti uno dei momenti più sperimentali, visto che “Tip Toe Blues” recide la linea di apparente regolarità con cui era unita la prima metà, per tuffarsi nel rimestare di una melodia accartocciata e scomposta; la voce è completamente slegata dai suoni, e ciò porta a un lieve senso di disturbo che non fa altro che rendere più ricca la ricetta; infarcita com’è di tanti ingredienti sfiziosi. Soprattutto in questo caso, si possono intravedere future evoluzioni della musica di Moskitoo, magari distanti dagli standard glitch-pop e più vicina a certa avanguardia vocale di stampo europeo (AGF) ma anche giapponese (l’ultimo album di Tujiko Noriko). C’è poc’altro da fare se non dire che i vecchi amori, però, lasciano sempre il segno. Il tipico svolgimento di “Wham & Whammy”, che ricalca proprio lo stile della prima Tujiko Noriko, è irresistibile. Questo è puro glitch-pop, pieno di suoni microscopici e minuscoli, supportati da una fantasia fuori dal tempo, proveniente dall’indie-tronica classica, commutata dalla dolcezza giapponese, mai dimenticata, che non annoia mai. Il beat di drum-machine (questa volta dritta e precisa) e circondata da spruzzi di synth dai mille colori e sfumature, dal ritornello che ti si stampa in testa e ti ritrovi a cantarlo per ore.. :”Oh-Oh-Oh.. Don’t Never Wake Up..”. Desiderosi di conferme, ci lasciamo felicemente cullare dalla conclusiva “Watashi No Neml Tabi”, dove la voglia di sorprendere si completa con un lavoro su una stratificazione vocale, sempre accompagnato da un impalcatura ritmica di tutto rispetto e molto originale.

Senza dilungare quest’analisi approfondita, ci lasciamo mettendo in risalto la ricerca musicale della 12k e del suo creatore Taylor Deupree, capace di scovare talenti altrimenti destinati a rimanere nel loro mondo, incapaci di “raccontare i propri sogni”, e d’altronde, chi è capace di farlo con la musica non può che ottenere il nostro plauso.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana