domenica 1 luglio 2007

Sneakster











Il Signor Mark Clifford, aveva già alle spalle una carriera di tutto rispetto, avendo rivoluzionato il modo di concepire l'elettronica moderna con i Seefeel:

dischi come quique o succour sono veri e propri classici, che hanno forgiato un suono che verrà poi chiamato ambient-techno.

ok, però, quello che forse tanti non sanno e che dopo la fine di questa gloriosa carriera, loro non si sono fermati per niente, anzi..

all'interno del gruppo ci sono delle teste piene di idee, tante idee, e il gruppo madre non basta. perciò, fra disaccordi artistici e ambizioni personali, i progetti paralleli sono tanti.

L'unione iniziale del gruppo si sfalda e i vari componenti prendono il loro spazio. Facendo un riassunto, il chitarrista Mark Clifford fa prevalere il suo impegno nel progetto Disjecta. gli altri tre (Peacock, Fletcher, e Seymour) iniziano ad incidere sotto il nome Scala.

Solo dopo Clifford incidce un EP su Warp sotto il moniker Woodenspoon ed infine, arriva l'illuminazione per gli Sneakster. precisamente era l'anno 1999. e mai la musica, come in questo fugace episodio, m'era sembrata così luminosa.

Sophie Hinkley e Mark Clifford si conoscono in un locale di Londra chiamato Milk Bar e da lì iniziano a scrivere del materiale assieme. Uscito su Bella Union il loro primo EP (Fifty Fifty), sempre nello stesso anno, viene pubblicato Pseudo-Nouveau.

Sneakster: "Pseudo-Nouveau" (Bella Union, 1999)

come già ho ripetuto alla noia in varie occasioni, ma non è mai inutile ribadirlo, questa opera è catalogata sotto la sezione capolavori trip-hop dimenticati.

l'esperienza elettronica di Clifford è palese e i ritmi sono cesellati con una perizia tecnica mostruosa, ogni suono è lì al suo posto ed ogni canzone, che sia strumentale o cantata, sprigiona sensualità e bellezza in ogni sua particolarità. La voce della Hinkley è straordinariamente sinuosa, così impegnata a star dietro alla sciabordare elettronico che la circonda, impreziosendo con grande efficacia ogni episodio da lei toccato. da non dimenticarsi come la scrittura dei pezzi non sia un'esclusiva di Clifford, lei partecipa e con molto impegno.

si parte subito alla grande con Whileaway. Il beat metallico che introduce il pezzo è tagliente, ti lascia spiazzato; solo dopo l'inizio del ritmo martellante di stampo industriale ti rendi conto che il disco è iniziato.

La voce di lei è un canto candido, pieno di calore, mai sopra le righe, un misto di capacità interpretative e passione emozionante. I vari inserti percussionistici che qua e là lasciano il segno, evidenziano una ricerca sonora di grande qualità, incentrata su un impatto sordido e misterioso. questa ossessionante cantilena notturna si protrae per quasi 6 minuti, ed è quasi straziante sentire che tale melodia può (e forse deve) finire.

senza nemmeno la possibilità di riprendersi, un qualsiasi ascoltatore arriva a confrontarsi con la successiva Firehearts. ed è davvero dura non rimanere incantati. l'inizio pare presagire un calmo e acquoso episodio ambient, adagiato su un paio di droni che si incrociano, ma non è così. dopo qualche manciata di secondi, inizia a ripetersi un pattern che è quasi irreale da tanto è bello. una sorta di tastiera filtrata, o forse un synth analogico, non è certo facile decifrare la natura di questo suono.. ma a conti fatti, ciò che ci interessa è il risultato finale. quel ciclico muoversi di note fra i vocalizzi di una Hinkley splendida e mai così ombrosa, vortici vocali che sanno di dolore si muovono con velocità, fra una sorta di incanto surreale e magici incatesimi sonori.

il marcio che c'è in questo suono viene tutto fuori con Splinters, un'ambient-pop diretto da un beat sporchissimo, putrido e distrutto, che stride  con la dolcezza della voce di Sophie, brava nell'accentuare questo contrasto. splendidi i momenti di pausa dove il suono pare sospeso e intermittente, dove piccoli vocalizzi, note casuali e vortici digitali riempiono il vuoto. il tutto, ovviamente, ripiomba nell'oscuro con una prosecuzione (e una conclusione) ancor più altalante e disorientativa.

un trittico iniziale così, davvero pochi dischi possono permettersela. perfetto da ogni punto di vista: emozionalità, bellezza compositiva, puro godimento sonoro.

Le velleità ambientali di Clifford vengono tutte fuori nella parte centrale del disco, con un centro dopo l'altro, d'altronde i maestri raramente deludono.

Full Echoes è incentrato in un favoloso organo sintetico, poi accompagnato da angeliche note di chitarra e uno scricchiolante beat di puro stampo minimal techno. affascinante come pochi, la dubbia regolarità della melodia, svanisce sul finire.

sempre ritmi di estrapolazione industrial fanno capolino in Stolen Heart, solcati appena dalla solita voce femminile; il piccolo inframezzo ambientale Trust & Blush regala qualche attimo di tregua, sognando per conto suo nei pochi secondi a sua disposizione.

l'organo torna a far male come in Full of Echoes nel episodio seguente, Static. Da sottolienare la grande qualità della progressione melodica: l'organo, che rimane lo strumento principale per tutti i 5 minuti, è via via sostituito o coadiuvato da un basso, un beat elettronico e la voce, conturbante e di grande impatto emotivo.

Heavy Heat, Heavy Time calca la mano sul lato più ritmico della formula stilistica, incastrando con le solite trovate elettroniche un martellante pattern percussionistico, peraltro molto coeso a mai fuori posto o mal congegnato. la faccenda si complica sempre di più fino a raggiungere vette di rara bellezza, come nei momenti in cui uno spruzzo di synth giganteggia fra i marasmi che sanno d'ossessione. la solita sophie fa il suo sporco lavoro con un'interpretazione da incorniciare.

La conclusiva Sweet Melody ricalca fino a un certo punto il titolo, visto che di dolcezza qua ce n'è ben poca, fanno eccezione alcuni gorgogli elettronici pieni di garbo e buon gusto. il battito solitario che sferza il silenzio prima della fine, così intriso di magia arcana, è ciò che ogni finale che si rispetti dovrebbe avere dentro di sè.

la versione originale del disco uscito nel 1999 finisce qui.

Un anno dopo, viene rilasciata una versione allungata, con l'aggiunta dei pezzi presenti nell'EP citato all'inizio, Fifty-Fifty. tre pezzi remixati da chi? da sua maestà Robin Guthrie. per la precisione Fireheart, Stolen Letter e l'inedito Kinda Blue.

nel primo caso (Fireheart), Guthrie, rimpolpa la struttura scheletrica dell'originale aggiungendo e in parte storpiando l'effetto voluto da clifford, rimanendo comunque un risultato di sicuro interesse completistico. con stolen letter, invece, si accentua il lato sognante della composizione e in effetti il risultato, anche se di differente natura, si distingue per grazia e deliziosità. Kinda Blue, l'inedito recuperato in questa seconda versione dell'album, incastra singulti classici (cello) con un beat molto positivo e martellante, anche nei frangenti più estatici, il marchio di fabbrica e l'animosità repressa non tarda a trapelare da queste note.

che altro dire? nient'altro, se non la volontà di sottolineare quanto una manciata di canzoni possa lasciar segni indelebili anche senza aver avuto clamore. rilevanza che peraltro avrebbe ampiamente meritato.

5 commenti:

  1. still like to read your writings, dear ale, and i want to hear this sneakster thingie!

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  2. still like to read your writings, sweet ale bimbavoice.

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  3. ciao! ammetto di non aver ancora letto il post, ma volevo ricambiare il tuo "bolognese" saluto!

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  4. salutino bolognese...

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  5. Interessante il tuo blog

    ti linko

    ciao

    Rebecca

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