giovedì 22 dicembre 2016

Playlist 2016
















1. FaltyDL - Heaven Is For Quitters
2. HÆLOS - Full Circle
3. Parra For Cuva & Senoy - Darwis
4. Isan - Glass Bird Movement
5. Moderat - III
6. Pascal Pinon - Sundur
7. Agnes Obel - Citizen Of Glass
8. Underworld - Barbara Barbara, We Face A Shining Future
9. Kuedo - Slow Knife
10. Piano Magic - Closure

11. Radio Dept - Running Out Of Love
12. Andrew Weatherall - ‎Convenanza
13. Ofrin - Ore
14. Mala - Mirrors
15. Ocoeur - Reversed
16. Søren Juul - This Moment
17. Motion Graphics - Motion Graphics
18. Bibio - A Mineral Love
19. Beth Orton - Kidsticks
20. Chairlift - Moth
21. Katy B - Honey
22. Nick Cave & The Bad Seeds - Skeleton Tree
23. Primal Scream - Chaosmosis
24. Revglow - Thisorder
25. Ry X - Dawn
26. Skepta - Konnichiwa
27. C Duncan - The Midnight Sun
28. Gold Panda - Good Luck And Do Your Best
29. NZCA Lines - Infinite Summer
30. Søren Juul‎ - This Moment
31. Olga Bell - Tempo

domenica 11 dicembre 2016

FaltyDL: "Heaven Is For Quitters" (Blueberry Records, 2016)
















Contenute le tentazioni esotiche, concretizzatesi in divagazioni poco efficaci, Drew Lustman in arte FaltyDL dimostra di aver ritrovato il controllo del suo talento prima con il 12” “Rich Prick Poor Dick” e poi con questo nuovo album. Il particolare che salta subito all’occhio riguardo “Heaven Is For Quitters” prima dell’ascolto è la pubblicazione esclusiva sull’etichetta Blueberry Records. Nonostante Lustman abbia aperto il suo proprio marchio discografico già dal 2014, l’attività ha iniziato ad intensificarsi dal tardo 2015, con cui ha gestito contemporaneamente le proprie uscite e la promozione di altri artisti (fra cui nuovi interessanti progetti come Uffe e Ren & Stimpy). Con questa operazione ha deciso di slegarsi completamente dalle logiche classiche di distribuzione e pubblicazione, lasciando etichette di grande prestigio come Ninja Tune e Planet Mu (anno scorso venne pubblicato qui “The Crystal Cowboy”).

L’evoluzione della musica del compositore americano è sempre stata evidente e sotto gli occhi di tutti, dagli ascoltatori casuali fino ad arrivare ai più attenti fan. Nonostante qualche uscita meno a fuoco e alcune cose poco centrate, il suo tentativo è sempre stato quello di  andare oltre il passato, cercando di superare i propri limiti anche quando era reduce da pubblicazioni eccezionali come il suo secondo album “You Stand Uncertain”. Il suo sesto disco – comprendendo anche l’uscita a suo nome – si avvicina alle sue vette per incisività già dalle prime tracce. “Tasha”, con il suo incedere mistico e fumoso, introduce il primo episodio cantato dell’opera (“Infinite Sustain”), un bubblegum techno-pop, tagliato e squarciato da synth affilatissimi, sostenuto dalle linee vocali del talento Hannah Cohen (già conosciuta per i buoni “Child Bride” e “Pleasure Boy”), imperniato attorno a un corollario di melodie e idee come nella tradizioni dei più grandi. Dopo tale splendore, troviamo delle fantasie breakbeat camuffate sotto le vesti di un singolo pop (l’eccellente “Frigid Air”), esempi di modernariato elettronico a metà fra techno, IDM e jungle (“River Phoenix” e “Bridge Spot”) e per finire, all’incirca attorno alla metà dell’album, Lustman piazza un altro pezzo cantato. Giocando questa volta la carta della battuta bassa, in una forma sfigurata di trip-hop, si avvale del prezioso contributo di Rosie Lowe – conosciuta per il recente esordio “Control” - annichilendo l’ascoltatore con un sestetto iniziale letteralmente perfetto.

Complice una lunghezza considerevole l’album assume forme variabili e mutevoli, lasciando per strada qualche lungaggine (“Neelon (First Kiss)”) ed altri episodi meritevoli di attenzione (“Fleshy Compromise” sfiora la electro-darkwave,”Shock Therapy” è puro FaltyDL style), mentre sul finire, come anche in altri frangenti dei pezzi già analizzati, il Nostro tenta di ampliare i propri orizzonti con inserti puramente classical, fra cui partiture di piano melliflue (“Whisper Diving”), intrecci di archi e xilofono (“Beasts Of Heaven”) e richiami jappo-zen nella serafica “Osaka Phantom”. Prima di concludere, vale la pena citare le due bonus track presenti solo nella versione giapponese dell'album con il bel tiro techno di “Stolen Kicks” e i vaghi sentori nineties di “New Dreams”.

Il vero valore di “Heaven Is For Quitters” è, nonostante la qualità media molto alta dei singoli episodi, la capacità di tenere alto il coinvolgimento dell’ascoltatore sulla distanza di ben quindici tracce. Come si sa, l’eccessivo minutaggio negli album di musica elettronica è sempre il viatico, anche nei casi di grande ispirazione, per opere sfilacciate e prolisse. Ci sono invece rari casi – come questo – in cui l’artista riesce efficacemente a diluire le proprie idee senza risultare logorroico. Non sappiamo se l’album di FaltyDL sia un capolavoro per questo o per altri motivi, probabilmente no, ma francamente non ci sentiamo di dargli una valutazione sotto l’eccellenza.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 20 novembre 2016

Isan: "Glass Bird Movement" (Morr Music, 2016)















A distanza di sei lunghi anni, Antony Ryan e il suo sodale Robin Saville si ripresentano con un nuovo disco accompagnati dal consueto sottotono. Alfieri di quel filone IDM tanto in voga agli inizi del nuovo secolo, meno celebrati dei Boards Of Canada ma egualmente brillanti, gli Isan hanno attraversato un biennio di discreta visibilità sotto la Morr Music con dischi come “Lucky Cat” e “Meet Next Life”. Colti dall'inevitabile crisi del genere e dopo un paio di album appena sotto le attese, il duo decide di mettere in ibernazione il progetto per un periodo indefinito.

Lo scorso agosto, sulla pagina facebook del progetto, appare la foto di un nuovo artwork con la relativa presentazione del nuovo lavoro, pubblicato ufficialmente il 14 ottobre. L'attesa è tanta perché, nonostante tutti sapessero che non c'era aria di scioglimento, nuove canzoni tardavano ad arrivare. “Glass Bird Movement” rievoca tutte le migliori caratteristiche della musica del duo: atmosfere ovattate, ritmi appena abbozzati, litanie ambient fra il malinconico e il crepuscolare, tante melodie semplici ma bellissime. Il risultato è di sicuro interesse sia per chi ama la musica ambient contemporanea, non troppo estatica ma fresca e movimentata, ma anche per gli storici appassionati dell'elettronica tedesca sdoganata dell'etichetta di Berlino.

Troverete in queste undici canzoni soffici intrecci electro-pop (i loop della title-track, l'empatia IDM di “Parley Glove” e “Slow Rings”), bozze ritmiche tendenti all'ambient (“Lace Murex”, la quasi impalpabile “Linnaues”), episodi più legati alla natura electro di questa musica (“Napier Deltic”,”Rattling Downhill”), il tutto condensato e cementato da una sensibilità timbrica e melodica fuori dal comune, un senso del suono che lascia incantati e sbalorditi. Manifesto dell'opera e miglior episodio è “Risefallsleep”, una sorta di emo-electro-ambient in cui i synth in sottofondo pennellano un giro strappalacrime, con forti affinità ad un altro capolavoro come “Cutlery Flavours”.

Nonostante il genere non sia più in voga, gli Isan e la loro musica possono ancora ritagliarsi spazi lasciati vuoti sia nel mercato discografico che nel cuore degli appassionati, infatti – almeno per il sottoscritto – la mancanza della magie composte da Antony Ryan e Robin Saville era palpabile.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 4 ottobre 2016

Radio Dept. : "Running Out Of Love" (Labrador, 2016)















Come accadde per il terzo album “Clinging To A Scheme”, anche questa nuova avventura dei Radio Dept. si è fatta attendere per diverso tempo. Le avvisaglie del quarto album si sono avute dal 2010 ad oggi con il rilascio di svariati singoli o EP, utili ad individuare la direzione stilistica intrapresa dalla band. Sopratutto con “Death To Fascism” e “Occupied”, uno del 2014 e l'altro del 2015, è stato chiaro fin da subito il cambio di rotta abbastanza deciso. Seppur sempre marchiata da una malinconia e una levità tipica del gruppo svedese, la spinta verso il ritmo e il quasi abbandono delle trame shoegaze indirizza il mirino verso un dance-pop screziato e fumoso, un po' come se i Depeche Mode suonassero il repertorio di una qualche formazione della Sarah Records.

Nonostante lo stranimento al confronto della drum-machine incessante della già citata “Occupied” - notare il vago sapore twinpeaksiano del synth di sottofondo - sia notevole, ciò che sorprende è la totale naturalità con cui Duncansson e soci riescano a gestire strutture ritmiche mai affrontate in passato. La straordinaria intensità di “Swedish Guns” ne è un esempio: associato all'usuale cantato appena sussurrato, abbiamo strascichi di synth, pulsazioni decise e qualche squarcio di chitarra, il tutto confezionato con una perizia tale da non disorientare ma al contrario capace di incantare. Sulla stessa scia di collocano le belle trame sintetiche di “We Got Game” e “Can't Be Guilty”, con le uniche eccezioni fuori dal coro, riconducibili agli esordi, rintracciabili in “Sloboda Narodu” e “Commited To The Cause”. Rimangono da segnalare le ariose sospensioni ambient della title track strumentale e l'insolita solarità del twee-pop elettronico di “This Thing Was Bound To Happen”. La lunga e finale “Teach To Forget”, flessuosa, robotica e perfino ballabile, mostra tutta la flessibilità stilistica dell'ensemble svedese, eliminando completamente l'uso delle chitarre e creando le stesse atmosfere irresistibili provenienti da “Lesser Matters” senza stridore ma semplicemente con strumenti diversi. A margine di qualsiasi considerazione inerente alle nuove canzoni, gli ascoltatori più attenti avranno comunque ravvisato che le pulsazioni elettroniche sono sempre state più di un contorno per i Nostri fin dagli esordi, dunque questa evoluzione è molto più naturale di quanto si possa percepire ascoltando le  tracce di questo ultimo disco.

Non un semplice album di risulta né un indeciso passo di transizione, “Running Out Of Love” rappresenta un altro importante tassello nell'importante carriera dei Radio Dept. Sempre coerenti con se stessi e mai sotto un certo standard qualitativo, confermano con quest'ultima prova la propria identità come formazione di punta nell'ambito del pop indipendente.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 14 marzo 2016

Barbara Morgenstern. Diario di una techno-cantautrice.



Sull'onda lunga dell'entusiasmo post-unitario, i Novanta tedeschi furono un'irripetibile congiuntura di esperienze distinte ma comunicanti. Se da una parte è innegabile l'influsso di venti d'Occidente, sotto forma dello standard "acido" d'Oltremanica - un fascino che attecchirà a un punto tale da elevare Berlino nel giro di un lustro da colonia a metropoli del 4/4 - dall'altra se il suono di nomi pur differenti come Mouse On Mars, Basic Channel e i fratelli Lippok ha una peculiarità inconfondibile e riconosciuta è un fatto che si ricollega a sua volta innegabilmente alla geografia, questa volta quella immediata dei fa(u)sti elettronici di marca seventies, traghettati fino al ricongiungimento delle due Germanie da brani quali "Computer Liebe " e "Techno-pop" dei Roboter di Düsseldorf.
Nel fiorire di scene elettroniche, a Est come a Ovest, tra le storie ancora tutte da rivalutare ci sono quelle di etichette formato-famiglia come Kitty-yo e Monika, due label che presero in considerazione per prime discorsi di genere e homo digitalis e promosse da madrine quali Gudrun Gut e Agf. Lo spirito spiccatamente indipendente di ambienti di questo tipo genera anche esperienze come la Wohnzimmer, fondamentalmente un collettivo di musicisti che sceglie di sbarazzarsi delle macchinazioni dell'industria discografica e di organizzare serate, nomen omen, nel proprio soggiorno di casa.
È in questi scenari che Barbara Morgenstern comincia a farsi notare.

Giunta nella capitale, fresca di conservatorio dalla provincia vestfaliana, Morgenstern finisce ben presto nel circolo giusto, con compari quali Maximilian Hecker, Pole e Ronald Lippok e la comunità Wohnzimmer in cui affina la sua sensibilità "sintetica".
Nel 1997 consegna i due primi Ep, Plastikreport e Enter The Partyzone, quest'ultimo per la "ladies only" Monika Enterprise. Si tratta di due brevi raccolte di canzoni - in tedesco - che ben testimoniano lo sviluppo della penna della Morgenstern, in particolare il suo prendere le mosse da certo synth-pop minimalista e con un gusto per le dissonanze, ma anche da una vena quasi-punk ("Im Wiederhall").
Nello stesso mood viene inciso il primo album vero e proprio, Vermona ET 6-1, ancora per la Monika, con cui da inizio un'affettuosa collaborazione che durerà quasi un ventennio, nel cui catalogo compare nel 1998. L'album raccoglie alcune tracce già edite nei due Ep e le amalgama in un insieme più coerente in cui vengono intercalate produzioni originali. Questi ultimi sono però pezzi che fanno la differenza, in un album che altrimenti sarebbe rimasto una compilation di tentativi apprezzabili ma nulla più. Brani come "Das Wort" e "Ein Versuch", oltre a brillare come tenere ballate minimal-electroniche, mettono bene in chiaro come la Morgenstern non sia interessata - non esclusivamente - agli aspetti legati alla costruzione e de-costruzione del suono (come lo sarà Agf e altri nomi legati alle punte d'avanguardia del glitch), quanto, invece, la sua missione sia più una ricerca di armonia tra le nuove frontiere minimal, un'estetica tardo synth-pop e un'inclinazione più tradizionalmente cantautorale.

Tutto questo giunge però a completa fioritura con il successivo Fjorden (2000), registrato con Thomas Fehlmann e i fratelli Robert e Ronald Lippok, già Tarwater e To Rococo Rot.
L'album riesce a riassettare i precedenti, acerbi, esperimenti in direzione di un glitch-synth-pop più trasparente, a fuoco e, più frequentemente, "canzonettaro".
Se infatti la notturna apertura di "Tag Und Nacht", la serenata sintetica della titletrack e il melanconico strumentale di "Dr. Mr" sono piacevolissimi bozzoli glitch che strizzano l'occhio a certo downtempo e ad alcune reminiscenze "björkiane" e Boards Of Canada, il singolo "Augenblick" è uno splendido e rarissimo esempio di idm magistralmente sposata a un passo (trip-)pop e canticchiabile melodia multi-strato, "Der Hintergedanke" ha quasi la sensibilità di una Nico o una Joni Mitchell nelle sue corde confessionali e "Mjisnjedschaz" è esattamente come immaginereste un blues trasognato intonato su uno scheletro techno-ambient.
In questo equilibrio su spinte apparentemente contraddittorie si forgia così l'idea di "elektronisches Pop" della Morgenstern, una forma ambiziosa ma umile a un tempo, caldamente riflessiva ma anche positiva e con un senso della dinamica nella agro-dolcezza estrema delle atmosfere che ne nascono e nelle storie di meditazioni quotidiane timidamente scoperchiate nella metà abbondante "cantata" dei brani.
In punta di piedi, Fjorden imposta lo standard di (alta) qualità su cui la compositrice tedesca svilupperà il suo personale percorso nelle produzioni a venire.

Barbara MorgensternIl discorso prosegue tre anni dopo con Nichts Muss, pubblicato in piena esplosione electro-pop e indietronica. Il disco si fa apprezzare per un gradevole piglio electro veramente ispirato, dove la fantasia nell'uso di synth e drum-machine si incastona in maniera pregevole in un contesto pop. Avvicinabile a certe cose di casa Morr Music o Plug Research, il materiale qui presente traghetta la tradizione teutonica del pop robotico verso una forma canzone elettronica dalle vena cantautoriale, arricchendo singulti tech-pop con partiture di piano, chitarra e altri strumenti acustici. In Nichts Muss, si consolida un altro elemento di tutta la musica di Barbara. Infatti, la fluidità con cui i suoni accompagnano il cantato rende per effetto la lingua tedesca insolitamente musicale, scorrevole, facile da ascoltare, fatto inusuale per la fonetica e l'immaginario cui solitamente viene associata.
Fin dal fantastico loop di “Nichts Und Niemand”, passando dai morbidi gorgheggi di “Gute Natch”, ciò che viene alla mente in modo affettuoso sono i successi contemporanei dei conterranei Lali Puna. Melodie educate, non banali o sdolcinate, ma delicate, ritmicamente pungenti, piene di scosse, architettate con perizia e creatività. Gemme come il glitch-techno-pop di “Merci” o lo splendida cavalcata con profumi kraut della title-track, sono solo alcuni degli esempi che fanno di questo terzo disco uno dei migliori di tutta la carriera della nativa di Hagen. Il principale merito di Nichts Muss non è solo quello di concretizzare, dopo gli ottimi segnali di Fjorden, la peculiare poetica morgensterniana, ma anche quello di saper sapientemente convogliare l'ispirazione in qualcosa che va al di là delle semplici pop-song, come viene testimoniato dagli strumentali presenti in scaletta, in bilico fra kraut, electro e ambient (“Is”, “We're All Gonna Fucking Die”).

Dopo un'intenso periodo di composizione prevalentemente solitaria, Barbara da sfogo alla propria vocazione collaborativa in musica e pubblica Pick Up Sticks insieme a Bill Wells (stimato polistrumentista nel giro avant), Stefan Schneider (dei To Rococo Rot) e Annie Whitehead. Il disco, preziosamente in bilico fra bruscoli glitch e jazz in punta di piedi, incanta senza disturbare nonostante la vena fortemente sperimentale. Chitarre pizzicate, timidi fiati in sottofondo, pulviscoli elettronici e qualche strato di tastiere fanno di pezzi come “Waft” o “A Soldier's Shoulder” un fulgido esempio di quel digital-jazz tanto in voga nei giri avanguardistici di inizio millennio. Mai troppo sconnesso o “casuale”, la prova di questo quartetto si distingue per l'efficace mistura fra avanguardia e accessibilità. La titletrack – come del resto un po' tutto l'album - sorprende per la capacità di intrattenre e mantenere un certo equilibrio nonostante la struttura scheletrica, raggiungendo vette in un brano pressochè perfetto come “The Dust Of Months”.

Sempre in vena "collaborativa", nel 2005, nasce invece Tesri, album composto di 12 brani in featuring con il fidato Robert Lippok. Album che, con poca sorpresa visti i nomi in ballo, si costruisce su una concezione minimalista dell'elettronica, ma in funzione tuttavia di un pop futurista e apolide. I brani non sono strutturalmente molto complessi e l'ascolto è sempre guidato da melodie semplici, da sovrapposizioni di suoni, ricavati da synth, chitarre e piano, delicati e ben definiti, accompagnati da percussioni e scelte ritmiche mai esasperate anche quando queste aumentano in vivacità e intensità. In due occasioni - "Kaitusburi" e il grazioso intermezzo di "Otuskimi" - i due si avvalgono anche della collaborazione di Mieko Shimizo alla voce, che contribuisce con un tocco vagamente "cosmopolita" sugli scenari digital-acustici minuziosamente disegnati dal duo.
Spesso è però il piano a fare da portante melodico, come in uno dei brani più memorabili della raccolta, "Sommer", che riporta a mente certe partiture pop di Sakamoto. L'altra collaborazione alla voce è di Damon Aaron dei Telefon Tel Aviv, che dona calore e sofferenza al fluire di break e suoni sinusoidali di "If The Day Remains Unspoken For". Come al solito i brani procedono per addizioni, stratificazioni, e sottrazioni di elementi semplici, di campionamenti e suoni cristallini e puliti, procedimento che è palese nella conclusiva "Winter", dove i rintocchi essenziali del pianoforte e della chitarra giocano a riempire gli spazi creati da loop ed effetti di tastiera dolci e minimali.
Tassello nella discografia della Morgenstern forse di importanza non capitale, Tesri è comunque un capitolo prezioso nella comprensione dell'idea globale di musica da parte della nostra.

Barbara MorgensternAppena un anno dopo quindi la Morgenstern si rimette in solo e arriva The Grass Is Always Greener, quarto album solista e opera che amplia le tonalità del talento della musicista tedesca. Con questa prova inizia una sorta di mini parentesi pseudo-cantautoriale, in cui la compositrice decide di concentrarsi su molti strumenti acustici diminuendo drasticamente l'uso dell'elettronica e dei pur sempre cari ritmi sintetici. In questo leggero cambio di rotta c'è dentro tutto il talento di una vera artista, capace di rinnovarsi ed esplorare nuovi orizzonti senza fossilizzarsi sul proprio campo di azione abitudinario. Il risultato è tutt'altro che fuori fuoco, infatti la modifica della rotta è graduale e perfettamente architettata. Nonostante il synth-pop plasticoso e dai toni distesi rimanga (soffici loop in “Quality Time”, la tesa “The Operator”), a farla da padrone sono flessuose ballate pop (la title-track, la malia di “Polar” e “Das Schöne Einheitsbild”) e indefinibili strumentali a metà fra modern-classical ed elettronica (il bel giro di piano in “Juist” e “Initials B.M.”, la splendida “Die Japanische Schranke”). Continuando nell'ascolto si percepisce chiaramente la voglia di fare qualcosa di diverso, di realizzarlo senza approssimazione o in maniera affettata, tale processo di rinnovamento è rintracciabile nelle scudisciate di synth in “Ein Paar Sekunden” o nel quasi spoken-word pop robotico di “Alles Was Lebt Bewegt Sich”, per altro ottimo esempio della capacità narrativa della Morgenstern, che attinge come al solito da quadretti di vita quotidiana cosiccome da una vena poetica quasi "zen".
Nonostante la sensazione di trovarsi di fronte a un album di transizione ci sia, nell'insieme l'album risulta decisamente positivo e con molti motivi di interesse.

Con il quinto album in studio la Morgenstern decide di proseguire la leggera mutazione intrapresa dalla sua musica, continuando a puntare al lato più cantautoriale della sua arte. Infatti – come già fatto in parte con The Grass Is Always Greener -, BM riassume e concentra tutti gli elementi della musica della Morgenstern compiendo un ulteriore passo verso la definitiva consacrazione. L'uso dell'elettronica viene dosato con perizia rispetto al passato, privilegiando strumenti acustici, nell'intento di dare una sferzata di novità ad un songwriting già di per sè variegato. Da premiare le splendide partiture di piano, mai troppo magniloquenti né invasive, raffinate e perfettamente calate nella fine atmosfera delle tracce (esemplare lo strumentale "Für Luise", come del resto il piano-pop "Camouflage"). Tutti questi componenti vanno a formare un puzzle difficilmente ripetibile, un vero mosaico realizzato a regola d'arte. Policromie d'alta scuola si intersecano con risultati a tratti superbi (l'intreccio fra tastiere e piano di "Driving My Car", duetto fra chitarra e vibrafono in "Come To Berlin"), il ritmo spesso nasce dal niente per poi tramutarsi in un'esplosione timbrica quasi orchestrale (da manuale "Reich & Berühmt" e "Deine Geschichte"). Il perfetto connubio fra classicità e moderno approccio al songwriting splende in tutto il suo fervore, giungendo a una quadratura del cerchio senza sbavature. Gocce di melodia oppressa si distendono con risvolti ombrosi (la rarefatta "Jakarta", le gracili strutture di "Hochhau"), l'acidità electro funge da diversivo per la parte centrale dell'opera (il techno-pop indomabile di "Morbus Basedow", la corta "My Velocity"). Da incorniciare le tenere scuciture minimaliste della composizione senza voce che chiude il disco, un vago miscuglio di improvvisazione cameristica e sinistre influenze dark-ambient.

A cinque anni di distanza dall'ultima volta, torna la premiata ditta presente in Pick Up Sticks con un altro album di jazz deumanizzato e destrutturato intitolato Paper Of Pins. Questa seconda prova riprende il discorso del precedente mutando la forma verso un ambient-pop in cui la componente jazz viene appena accennata dai fiati, mentre la struttura ritmica si scarnifica fino all'osso per diventare un timido anelito. Ciò che ne viene fuori è un'interessante forma di ambient music policromatica, difforme e frizzante, punteggiata dai fiati e sempre entro un generale senso di buon gusto e misura. Fra le otto tracce si fa preferire “Produce Of More Than One Country”, composta da tutti e quattro i membri del quartetto, in cui tutti i componenti si impastano in maniera perfetta, senza dimenticare incanti dal sapore crepuscolare come la quieta “Tributaries” o la romantica “The Hermitage Of Braid”. A differenza di tante produzioni di questo settore, il sodalizio artistico fra questi quattro artisti produce una musica sofisticata ma al contempo “facile”, senza strozzature riconducibili all'improvvisazione, elegante e fluida. Impastando zampilli di synth con risacche di fiati, il disco veleggia versa l'eccellenza fra ritmi sghembi (la bellissima “Rowing Without Roars”) e un misto di tecnologia e romanticismo (mix di sensazioni in “Brown Recluse”), conducendo alla conclusione con un'ultima gemma (la leggiadra “Loitering With Intent”).

Barbara MorgensternDopo un momentaneo allontanamento dall'electro-pop tipicamente tedesco che l'ha contraddistinta, quindi, la Nostra chiude il cerchio e con l'arrivo di Sweet Silence sembra invece tornare indietro di una decina d'anni. Infatti la struttura dell'album si riscopre quasi completamente sintetica, tanto che nei pezzi cantati pare di sentire un synth-pop primordiale, robotico, in cui l'evocazione dei Kraftwerk è quasi scontata (si ascolti l'intro di "Highway", in cui lo spettro dei maestri di Düsseldorf si aggira già nel titolo).
In Sweet Silence la prima cosa che risalta in maniera lampante è la bellezza dei suoni, organizzati in superbe melodie inusuali, frizzanti e mai statiche. In Sweet Silence troveremo un campionario sterminato di composizioni impossibili da dimenticare - infatti, fin dall'iniziale titletrack, passando per la magnifica e gelida "Spring Time", saremo assaliti dall'inappuntabile grazia di ogni singolo pertugio. Il nuovo lavoro si muove però anche su un ulteriore livello, sperimentato con i due dischi precedenti e che potremmo definire a pieno titolo "cantautorale". Forte delle recenti esperienze di reading poetry (il progetto "Only My Pen Tolerates My Choices"), senza dimenticare il cameo nel canzoniere della concittadina Antye Greie-Fuchs, la Morgenstern sembra voler allargare il proprio raggio d'azione, abbandonando per una volta la lingua tedesca e abbracciando un campo lirico alquanto esteso, che spazia da frammenti di routine quotidiana a quiete riflessioni esistenziali, con la solita penna sottilmente canzonatoria, ma con una marcia in più in termini di poetica e comunicatività.

È grazie a questa combinazione, quindi, che Sweet Silence funziona alla perfezione come disco pop brillante e maturo, composto da tredici tasselli che si reggono peraltro benissimo anche singolarmente: il leggiadro synth-pop di "Need To Hang Around", il gioco a incastri di sampling vocali di "Kookoo", il gentile upbeat di "Jump Into The Life-Pool" (che riproduce sinteticamente quell'eterno movimento a spirale qual è il cerchio della vita) fino alla sinuosa deviazione electro di "Auditorium", in cui è più percepibile la mano di T. Raumschmiere in regia, e il bel crescendo glitch-techno di "Status Symbol", unico pezzo ad osare oltre i quattro minuti.
Diretto e incalzante, Sweet Silence è un esempio magistrale di leggerezza e lavoro certosino, di essenzialità e freschezza primaverile. Per un disco che si rifà a modelli creduti morti e stantii non è davvero niente male.

Tre anni dopo, ecco quindi che Doppelstern rinnova l'incantesimo con undici brani-duetto (la "stella doppia" del titolo) con i quali la Morgenstern sembra voler tirare le fila di quasi ventanni di peculiarissimo songwriting che l'ha vista flirtare con il glitch, l'avanguardia, la techno e gran parte dei teutonismi venuti a galla agli albori del millennio. Stilare un "greatest hits" sarebbe stata senza dubbio un'impresa pigra e artisticamente mortificante, per la sempre ispirata e curiosa Morgenstern. La cantautrice di Hagen ha scelto invece di rivedere il suo operato attraverso la lente delle tante collaborazioni messe assieme sin dai suoi esordi nell'eccitante scena berlinese di metà-Novanta. Ecco quindi che la nostra chiama a raduno gente dal calibro di Robert Lippok, Gudrun Gut, Julia Kent, Hauschka e T.Raumschmiere.

Nonostante la compositrice tedesca non abbia mai ottenuto grandi consensi al di fuori del circolo degli appassionati del settore, il merito della sua musica è incalcolabile. Capace di traghettare l'indietronica verso una forma mutata di synth-pop ammaliante e dal forte sapore canzonettaro, la Morgenstern conferma anche in questa ultima fatica le sue straordinarie capacità. Le prime due tracce sono un esempio lampante del suo potere riassuntivo, infatti se “Was Du Nicht Siehst” è un brillante esempio di godibilissimo tech-pop, “Meins Sollte Meins Sein” rispecchia certe tendenze classical molto di tendenza negli ultimi anni. Le innumerevoli collaborazioni all'interno della scaletta impreziosiscono e donano varietà al disco, evitando di rendere troppo frammentario l'andamento ma bensì frizzante.
Singoli pop di spessore (i singulti alla berlinese di “Übermorgen” e ”No One Nowhere Cares”) si incastonano fra sofisticati esempi di ambient-pop (“Too Much” con Gudrun Gut e “Gleich Ist Gleicher Als Gleich”), strumentali dal fascino morboso (la tesa “Facades”) e un pezzo dall'andamento mid-tempo dai sapori jappo (“Aglow”). La coda dell'album, con il picco nel pezzo pianistico “Schie”, ricorda le tentazioni cameristiche di BM, convogliando l'opera verso una sorta di compendio di portata consistente. L'arte di Barbara giunge dunque a un punto fermo, da cui dovrà ripartire convogliando le sue forze su qualcosa di nuovo e magari più elettronico.
A scapito della sua vena pop più posata, la chiave per poter esplodere seriamente sarà quella di puntare su quella verve electro di cui parlavamo ad inizio recensione. È in quel caso che Barbara raggiunge il massimo del suo appeal, permettendole di coniugare la sua grazia compositiva con un'innata capacità di comporre melodie indimenticabili.

di Alessandro Biancalana  e Roberto Rizzo. Contributi di Paolo Sforza ("Tesri").


Barbara Morgenstern: "Doppelstern" (Monika, 2015)















Ascoltare un nuovo album di Barbara Morgenstern è un po' come darsi appuntamento con una vecchia amica, una di quelle che si vedono ogni cinque anni, ma con cui è sufficiente incrociare uno sguardo per ritrovare l'intesa di sempre e scambiarsi le confidenze e le impressioni più intime accumulate dall'ultimo incontro.
A tre anni dall'ottimo "Sweet Silence", interamente in lingua inglese e guidato da una ritrovata verve electro, ecco che "Doppelstern" rinnova l'incantesimo con undici brani-duetto (la "stella doppia" del titolo) con i quali la Morgenstern sembra voler tirare le fila di quasi ventanni di peculiarissimo songwriting che l'ha vista flirtare con il glitch, l'avanguardia, la techno e gran parte dei teutonismi venuti a galla agli albori del millennio.
Stilare un "greatest hits" sarebbe stata senza dubbio un'impresa pigra e artisticamente mortificante, per la sempre ispirata e curiosa Morgenstern. La cantautrice di Hagen ha scelto invece di rivedere il suo operato attraverso la lente delle tante collaborazioni messe assieme sin dai suoi esordi nell'eccitante scena berlinese di metà-Novanta. Ecco quindi che la nostra chiama a raduno gente del calibro di Robert Lippok, Gudrun Gut, Julia Kent, Hauschka e T. Raumschmiere.

Nonostante la compositrice tedesca non abbia mai ottenuto grandi consensi al di fuori del circolo degli appassionati del settore, il merito della sua musica è incalcolabile. Capace di traghettare l'indietronica verso una forma mutata di synth-pop ammaliante e dal forte sapore canzonettaro, la Morgenstern conferma anche in questa ultima fatica le sue straordinarie capacità. Le prime due tracce sono un esempio lampante del suo potere riassuntivo, infatti se “Was Du Nicht Siehst” è un brillante esempio di godibilissimo tech-pop, “Meins Sollte Meins Sein” rispecchia certe tendenze classical molto in voga negli ultimi anni. Le innumerevoli collaborazioni all'interno della scaletta impreziosiscono e donano varietà al disco, evitando di rendere troppo frammentario l'andamento.

Singoli pop di spessore (i singulti alla berlinese di “Übermorgen” e ”No One Nowhere Cares”) si incastonano fra sofisticati esempi di ambient-pop (“Too Much” con Gudrun Gut e “Gleich Ist Gleicher Als Gleich”), strumentali dal fascino morboso (la tesa “Facades”) e un pezzo dall'andamento midtempo dai sapori jappo (“Aglow”). La coda dell'album, con il picco nel pezzo pianistico “Schie”, ricorda le tentazioni cameristiche di “BM”, convogliando l'opera verso una sorta di compendio di portata consistente. L'arte di Barbara giunge dunque a un punto fermo, da cui dovrà ripartire convogliando le sue forze su qualcosa di nuovo e magari più elettronico.
A scapito della sua vena pop più posata, la chiave per poter esplodere seriamente sarà quella di puntare su quella verve electro di cui parlavamo ad inizio recensione. È in quel caso che Barbara raggiunge il massimo del suo appeal, coniugando la sua grazia compositiva con un'innata capacità di comporre melodie indimenticabili.

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recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo