mercoledì 10 dicembre 2014

Concerto Ladyvette @ Bravo Caffè, Bologna 05/12/2014

Nel contesto della zona universitaria di Bologna, il Bravo Caffè, storico locale di spettacoli jazz/soul/cabaret, propone il concerto del progetto Ladyvette, curioso terzetto di ragazze italiane dedito ad un progetto artistico quantomeno singolare. Dotate di una discreta autoironia e di buone capacità vocali, oltre al fondamentale contributo di tre musicisti di ottima preparazione, le tre divette – si fanno chiamare Sugar, Cherry e Pepper – propongono una frizzante riesumazione degli standard swing - genere nato in America fin da metà degli anni ’30 ma esploso in Italia solo nei ’50 - con un colorito contorno di spettacolo puramente cabaret. La parte musicale dunque si divide in reinterpretazioni di artisti italiani molto conosciuti (Laura Pausini, 883) - francamente la parte meno interessante dello show -, riproposizioni molto vivaci e calligrafiche di classici dell’era d’oro dello swing americani e pezzi originali scritti da loro.

Dato l’ottimo affiatamento e la perfetta alchimia fra parte visiva e musica, pare quasi ovvio ricercare nella realtà live la dimensione più adatta per una band di questo tipo. Tuttavia, vuoi la buona riuscita dei pezzi inediti, vuoi le buone qualità espresse dalle ragazze, non sembra impossibile puntare sul lato meramente compositivo e buttarsi in un album tutto fatto di pezzi originali. In certi ambienti questo tipo musica ha sempre un discreto interesse, soprattutto adesso che la vena del revival è sempre apprezzata e soprattutto in Italia dove questo genere musica ha rappresentato un forte elemento di costume. Ad accompagnare la serata c’è sempre stata un’indomabile vena da cabaret delle ragazze, le quali hanno inscenato simpatici e mai banali siparietti fra loro tre, il pubblico e la band stessa, diluendo il tempo sul palco ed aiutando il pubblico ad immedesimarsi e coinvolgersi allo spettacolo.

Rimane dunque nella memoria una notte fatta di sapori e sensazioni di un tempo, musiche allegre e tanta comicità ormai dimenticata. Con l’augurio di una carriera un pelino più ambiziosa, lasciamo alle Ladyvette il beneficio di aver animato una fredda nottata bolognese con la loro musica.

domenica 30 novembre 2014

To Rococo Rot: "Instrument" (City Slang, 2014)















Dopo quasi cinque anni di assenza, gli alfieri del post-rock cibernetico tornando a pubblicare un album dopo il discreto “Speculation”. In questo periodi i tre componenti non si sono per niente riposati, bensì hanno coltivato gli svariati progetti paralleli di cui sono titolari. Se Stefan Schneider ha intrapreso una proficua collaborazione con Hans-Joachim Roedelius – storico membro dei Cluster - in due discreti album (“Stunden”,”Tiden”), Ronald Lippock ha essenzialmente continuato il percorso dei suoi Tarwater (di recentissima pubblicazione “Adrift”), mentre l'altro fratello Robert ha lavorato ad un album solista del 2011 -“Redsuperstructure”-, un ottimo centrifugato di glitch, techno e ambient.

Giace un po' di nostalgia fra le note di “Instrument”. Pensare ai tempi in cui album come “Hotel Morgen” o “The Amateur View” ricoprivano tutte le copertine delle riviste del settore gioca a sfavore del collettivo tedesco, il quale non ha mai mutato la qualità della musica, proponendo sempre interessanti variazioni al tanto caro post-rock elettronico. Nonostante ciò le intuizioni dei berlinesi (come degli altrettanto fondamentali Kreidler) sono state la base del successo di tante altre derive più o meno riuscite dell'elettronica degli ultimi dieci anni, dettando le basi per tanti sviluppi successivi. Tuttavia, il grande merito della band è stata una grande dedizione alla loro musica, la completa estraneità ai trend e una consueta efficacia nei live. Da sottolineare il particolare sodalizio con il folle sperimentatore Arto Lindsay, il quale si occupa di produrre l'album e di cantare ben tre pezzi.

Dunque fra classici episodi electro-pop impreziositi dalla voce di Linsday (il buon incipit “Many Descriptions”, le discrete strutture pop di “Classify”) e le bordate di basso (l'imponente “Besides”, il bel tiro della jazzata “Baritone”), vengono fuori i To Rococo Rot di un tempo in vari episodi esemplari. C'è l'imbarazzo della scelta fra motorik scalcianti (la preziosa “Down In The Traffic”),  sperimentazione tonale da antologia (“Spreading The Strings Out”,”Pro Model”) e candide suite dal sapore crepuscolare (“Gitter”). Il tutto è condito costantemente da una sensazione di precisione e raffinatezza, come se tutto fosse perfettamente rifinito e calcolato fino nei minimi particolari.

Con la “solita” dimostrazione di maestria declinata con un taglio tutto personale, coadiuvata dal tocco folle di un personaggio come l'ex frontman dei DNA, i To Rococo Rot ribadiscono la loro posizione di prima importanza nel panorama europeo della musica strumentale d'avanguardia. Siamo solo in attesa di nuovi ed inaspettati sviluppi.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

sabato 15 novembre 2014

Tune-Yards @ Bologna, Locomotiv 08/11/2014

Fin dai suoi primi esordi nel 2009 (il primo disco si intitola “Bird-Brains”), Merrill Garbus si distinse fra le mille proposte del pop indipendente per un piglio estroso fuori dal comune. Nel tempo la sua musica si è evoluta mischiando art-pop, stranezze freak e sperimentazione pura, giungendo a un incrocio fra gli Animal Collective più pop e gli Architecture In Helsinki. Una proposta sicuramente originale, partorita da una mente indomita e molto vivace.

Dopo due anni di assenza da Bologna (marzo 2012 la sua ultima apparizione, sempre al Locomitiv), la ragazza del Connecticut torna in Emilia a presentare il suo nuovissimo “Nikki Nack”. Coadiuvata dal suo fidato Nate Brenner al basso più altri effetti, da una percussionista e da due coriste, lo show si rivela enormemente più energico rispetto al disco. Dal vivo la band spinge in maniera abbastanza decisa sul lato ballabile dei pezzi, rendendo più incisivo l'incedere ritmico e le linee di basso. La realtà dei fatti è che, nonostante le tre prove siano sempre state di buona qualità, per Merrill la dimensione live è il compimento massimo della sua arte. Oltre ad una spiccata capacità di trascinare il pubblico, è palese quanto pezzi come “Water Fountain” e “Sink-O” abbiano un appeal con il palco inossidabile, dunque risulta assolutamente normale che lo spettacolo dal vivo sia decisamente più efficace del disco. Senza sosta la band snocciola con velocità supersonica i vorticosi meccanismi pop di “Stop That Man”, “Left Behind” e “Gangsta”, deliziando la platea e facendola impazzire con scenografie improvvisate con gli altri componenti. L'americana, essendo un'ottima polistrumentista, suona indifferentemente percussioni, pad elettronico e una piccola chitarra, dimostrandosi oltre ad una trascinatrice anche una musicista eccellente

Dopo quasi due ore di concerto, Merrill saluta Bologna con un arrivederci, compiendo altri passi verso una maturazione che la porterà a completare la sua carriera.

sabato 25 ottobre 2014

To Rococo Rot @ Bologna, Locomotiv 24/10/2014

Tornati in ballo dopo quattro anni dal buon “Speculation”, i tre tedeschi To Rococo Rot sbarcano in Italia per presentare il nuovo album “Instrument”. Già stati a Bologna anni fa, la band teutonica conferma l'assoluta validità di una musica che pare in questi anni un po' sfiorita a livello di interesse discografico. Alfieri di quel post-rock (per non parlare dei fondamentali Tarwater) debitore tanto al kraut-rock quanto all'elettronica, i fratelli Lippock e Stephan Schneider mettono in ballo uno spettacolo live di assoluto valore.

La simpatia un po' impacciata di Robert Lippock funge da intermezzo fra le varie esecuzioni in cui ritmo, melodie cibernetiche e atmosfera, si fondono in maniera magistrale. Dove il batterista Ronald batte com un metronomo fra batteria classica, hand clapping e percussioni varie, il bassista Stephan fa da collante con un lavoro encomiabile a livello di precisione ed efficacia. Il protagonista di tutto il suono che ne risulta è ovviamente Robert Lippock, il quale sfigura le basi dei pezzi preregistrati con varie manipolazioni live ed effetti di altissima resa. Fra pezzi dell'ultimo disco – il quale si avvale della collaborazione di Arto Lindsay in cabina di regia - e riesumazioni varie nel vasto repertorio più che decennale, i tedeschi danno una lezione a molti artisti più giovani su come comporre ed eseguire suite strumentali praticamente perfette. I reticoli electro a metà fra techno, IDM e glitch-music sono il perfetto corollario ad una struttura ritmica che è a conti fatti un rigurgito del kraut-rock classico dei vari Can e Neu!, il tutto si presenta in assoluta armonia, senza forzature di nessun tipo e con un livello di coinvolgimento molto alto.

Con una durata che si aggira in torno all'ora e mezzo – compreso un encore di due pezzi – i tre reduci da un'era che pare lontanissima, hanno ricordato che pure uno stile fuori moda può donare emozioni fuori dal comune.

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 10 ottobre 2014

FaltyDL: "In The Wild" (Ninja Tune, 2014)
















Giunto alla prova del fuoco dopo tre album poco meno che straordinari, Drew Cyrus Lustman in arte FaltyDL pubblica “In The Wild” sempre su Ninja Tune dopo due uscite con la Planet Mu. Se “Hardcourage” era uno scintillante successore del suo album migliore (“You Stand Uncertain”), questa nuova tappa del percorso dell'americano ha fin da subito la stimmate del disco di transizione.

Spiace constatare la sostanziale confusione ed indecisione che attanaglia la musica del fin qui poliedrico compositore a stelle e strisce, giunto a un punto di svolta ed apparentemente incapace di trovare uno sfogo alla sua immensa creatività. Le diciassette tracce di “In The Wild” sono un miscuglio di UK garage, rivoli di future jazz e tentazioni IDM che girano su sé stesse, trovando occasionalmente lo spunto interessante (i loop vocali di “Do Me”) senza tuttavia raggiungere un'efficacia d'insieme. Lo stesso meticciato elettronico che aveva contraddistinto gemme come “Stay I'm Changed”, “Uncea” o “Korben Dallas”, anche solo facendo riferimento al disco precedente, qua non ha la medesima presa, sfociando in primis in una prosopopea infarcita da inspiegabili intermezzi da poco meno di un minuto.

Quando un minimo di vibrazioni tornano a scuotere il torpore, viene fuori qualche buono spunto (la cantata “Frontin”, il buon pathos di “Dos Gardenias”), sopratutto con “Heart & Soul”, l'unico vero episodio degno del passato, canzone magistralmente avviluppata fra scosse UK garage, movimenti dubstep e campioni vocali. Il resto è calma piatta o quasi, fra uscite proto-ambient (“Grief”), IDM dal sapore Warp (non male “In The Shit”), ed alcuni manierismi evitabili (“Dånger”, “Some Jazz Shit”).

L'unico modo per superare la tangibile delusione dopo l'ascolto del quarto disco di FaltyDL è tornare ad ascoltare i precedenti tre, con la speranza che questo sia solo un errore di percorso. L'americano ha in mano la sua carriera ancora giovane, il suo talento non ci tradirà una seconda volta, ne siamo sicuri.

(5)

recensione di Alessandro Biancalana

giovedì 4 settembre 2014

Piana: "Muse" (Guns N' Girls Records, 2014)















Fin dagli inizi degli anni Duemila, gli artisti nipponici e l’estetica del Sol Levante sfondarono oltre la madre patria in vari contesti musicali. Gli ambiti coinvolti sono stati molteplici, dall’elettronica (fra i tanti si possono citare aus, Kashiwa Daisuke, Aoki Takamasa), alla musica d’avanguardia più estrema (il più celebre è Haino ma il sottobosco è infinito), fino a molti artisti collocabili in territori ibridi. Fra questi ultimi si fecevano largo musicisti in perfetta sintonia con il periodo.
Quando in Europa esplodeva l’indietronica, in Giappone personaggi come Gutevolk, Takagi Masakatsu, Tujiko Noriko o Moskitoo (tornata anche lei dopo tanto tempo con “Mitosis”) dipingevano timidi acquerelli che furono accomunati sotto la corrente glitch-pop. Il perfetto connubio fra estetica zen, intromissione dell’elettronica e strumenti acustici misero in risalto talenti meritevoli d’attenzione al di fuori del numero raccolto di appassionati del genere.

Quando tutto sembrava pronto per uno sbarco su larga scala di certi suoni, qualcosa si è interrotto: infatti, molti dei rappresentanti di tale corrente hanno smesso per anni di produrre musica; una realtà come l’etichetta Daisyworld Discs, fondata dall’ex Yellow Magic Orchestra Haruomi Hosono – un po’ il simbolo del glitch-pop insieme alla Noble Records e la 12k – affievolì la produzione fino a terminarla prematuramente lasciando in sospeso molte cose.
In tutto ciò Piana, al secolo Naoki Sasaki, si fece notare con le sue debolissime simmetrie elettronico-acustiche nei tre splendidi album “Snow Bird”, “Ephemeral” e “Eternal Castle”, pubblicati nel giro di quattro anni. Dopo di ciò un silenzio durato più di sette anni, equivalente a un’era geologica in termini di mercato discografico.

“Muse” è un album a tratti nostalgico, diverso dai suoi predecessori ma in qualche modo collegato. La formula si attesta su un pop fragile e crepuscolare, sorretto da filamenti elettronici sottilissimi, una voce che sa toccare importanti vette di lirismo e una base acustica sempre ispirata. L’uso dell’elettronica è sempre di stampo prettamente minimale (le splendide favole zen di “In Silence” e “Imaginary Window”), nonostante si noti la voglia di rinnovare attraverso trasfigurazioni più ardite; notare come in “Borderless”, “Ruins” e “Phosphorescence” si sfiorino spesso ritmi techno-pop. Nelle nove tracce viene dato molto risalto al piano come strumento principale (il cantato inglese di “I Think…”, i raffinati intrecci di “7 years”), come nella chiusura “Tohanabi”, dove la grazia delle note pare raffigurare un magico affresco sonoro paragonabile alle composizioni floreali ikebana.

Se “Muse” sarà per Naoko Sasaki l’occasione per riprendere in mano la propria carriera musicale o solo uno sparuto ritorno alle scene, questo ce lo dirà solo il tempo. Fatto sta che la sua musica, fra mille turbinii luccicanti e tendenze più o meno durature, mancava all’appello a molti ascoltatori. Possiamo solo augurarci che l’attesa per un nuovo album non siano altri sette, interminabili anni.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 28 aprile 2014

Liars: "Mess" (Mute Records, 2014)















Arrivati al settimo album in studio dopo quasi quindici anni di attività, i Liars hanno forgiato uno stile distintivo e una personalità riconoscibile. Sempre imprevedibili, intellettuali schizofrenici e fuori dagli schemi, hanno manipolato generi e stili giocando a nascondino con gli ascoltatori. Se gli esordi sorpresero per gli assalti no-wave e una potenza espressiva impressionante, negli anni si sono progressivamente avvicinati a una struttura elettronica debitrice tanto al synth-punk dei Suicide, quanto ai ritmi dance della EBM anni 90 che tanto faceva faville nei club vagamente dark di quei tempi, oltre ovviamente alla techno e in parte l'house. Visti dal vivo sul finire del 2012, l'uso predominante di drum-machine e synth taglientissimi confermava la tendenza; i tre americani sapevano già dove volevano andare a parare. “Mess” è l'inesorabile, definitivo e completo approdo a questo stile, una personale ed ulteriore definizione di punk.

Il nuovo album dei Losangelini gioca ad essere un album dance senza esserlo mai definitivamente, mischia le carte buttando dentro versioni distorte del synth-pop, della techno e dell'elettronica in generale. Versioni dei Depeche Mode imbottiti di ansiolitici affiorano negli episodi più “pop” (il singolo di lancio “Mess On A Mission”, le bordate taglienti di “Vox Tuned D.E.D”), trasfigurazioni techno mischiano le carte virando verso lidi finora inesplorati dal gruppo (sia “Darkside” che “Mask Maker” ricordano le cose di The Architect), mentre i rimandi prettamente EBM danno un esempio di cosa significhi il termine dance per i Liars (i giri circolari del synth di “I'm No Gold”, le stasi e le implosioni di “Pro Anti Anti”). La vena fortemente sperimentale della musica partorita dai “bugiardi” rimane nelle scomposte note che reggono la difficoltosa “Can't Hear Well”, nelle deliranti e dolorose note della lunga “Perpetual Village”, oltre al finale “Left Speaker Blown”, nove minuti di catarsi malata, una purificante discesa agli inferi, il perfetto compimento che riesce contemporaneamente a spalancare le porte al nuovo rimanendo fedeli al passato.

Forse accolto in maniera incerta per i fan di vecchia data, “Mess” in un certo senso dà un calcio al passato senza rinnegarlo, impasta nuove tendenze e le centrifuga con il solito piglio iconoclasta. Dopo anni di sferragliate chitarristiche e drumming incessante, forse la via dell'elettronica potrà essere nuova linfa vitale per una band mai doma e sempre pronta a sorprendere.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Davide Matrisciano: "Il profumo dei fiori secchi" (Prehistorik Sounds, 2014)















Dopo il buon esordio targato 2012, Davide Matrisciano torna a distanza di due anni con un nuovo album. Come già annunciato sul finire del comunicato stampa di “Traffuci di pulsazioni (9 modi di intendere il frastuono)”, il cambio di rotta è veramente importante. Se il precedente album proponeva un'elettronica strumentale ispirata tanto all'ambient quanto al marchio Warp, “Il profumo dei fiori secchi” vira su un cantautorato raffinato che ricorda in modo abbastanza forte tanto Battiato quanto David Sylvian. Ed è proprio il maestro siciliano a marchiare a fuoco il progetto del quasi trentenne Matrisciano.

I testi, in continuo bilico fra colto e non-sense metaforico, ricordano i sofismi che hanno reso famoso Battiato e la sua musica. Questa somiglianza – in alcuni casi si sfiora il tributo – risulta troppo forte, inficiando le peculiarità di liriche che troppo spesso sfociano in un'eccessiva sofisticatezza. Per quanto riguarda la musica, siamo di fronte a tutto il talento già espresso in precedenza. Niente da dire sulle brillantezza del synth che qua e là dipinge melodie bellissime (“Corrente elettronica e papaveri”, “Al di là degli ombrelli”, “Esternazione delle ombre”), mentre quando vengono rispettati gli stilemi pop-rock le tracce sono un po' scialbe (“Armonia irreversibile”, “Legni bruciati”). Nel momento in cui vengono infrante le regole i risultati sono apprezzabili (l'andamento spezzato di “Guarda su”, la splendida “Ho camminato su un aquilone”), tuttavia l'impressione, con lo scorrere – a volte un po' farraginoso – dell'album, è che l'artista abbia fatto il classico passo più lungo della gamba. Per sostenere una tracklist da quindici canzoni con una durata media di quattro minuti e mezzo, c'è bisogno di un'ispirazione davvero baciata dalla grazia. Nonostante ci siano delle buone – a volte ottime – cose (vedi i rivoli elettronici di “Soli tra i fiori”), alcuni passaggi a vuoto vanificano uno sforzo compositivo ambizioso. Sicuramente con qualche traccia in meno e testi più intelleggibili, il disco ne avrebbe guadagnato di fruibilità, rendendo il tutto più coeso e compatto.

Rimane comunque apprezzabile la voglia di cambiare, la qualità dei riferimenti, e il talento melodico che rimane intatto anche nei momenti interlocutori. Il coraggio di fare qualcosa di nuovo deve essere sempre premiato, dunque per Matrisciano non si tratta di una bocciatura ma di un semplice incoraggiamento a fare qualcosa di più, superando i limiti imposti dall'inesperienza.

(6,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 7 aprile 2014

Gianfranco Grilli: "Eastern Chillout" (Halidon, 2014)















Gianfranco Grilli, ad un anno scarso di distanza da “Ancient Roads”, torna sul mercato con “Eastern Chillout”, un titolo che esemplifica il cambio di rotta messo in atto dal compositore marchigiano. Siamo infatti di fronte ad un album di pura chillout music. Se lo spirito da corriere cosmico rimane in qualche frangente, sopratutto nell'uso dei synth, la battuta bassa, imparentata con la tradizione della bass music e del downtempo, e l'uso delle percussioni ricorda più una stanza da cocktail che i viaggi lisergici della kosmische musik.

Nonostante gli stilemi di questa corrente musicale siano stati abusati fin a rendere il genere pura spazzatura da bar di serie b, Grilli riesce a creare una musica fluida, piacevole e ben congegnata. La varietà dei suoni, unita a un sapiente uso di campioni vocali, rende i nove strumentali del successore di “Ancient Roads” una ventata di aria fresca. Niente di avvenieristico o azzardato, sembra tutto scritto per rendere la musica accessibile ad un pubblico il più ampio possibile, il che non è per niente un difetto se il risultato fosse all'altezza.

Fra cantilene mediorientali e tropicalismi al sapore di curry, i brani scorrono veloci e l'impressione che si ha è che l'incursione in questo genere sia per Grilli un mero album di passaggio, quasi una divagazione divertita e isolata, infatti, la sua vera predisposizione è indirizzata verso le cadenze puramente ambient. Tuttavia, se si ha l'impressione di avere a che fare con un album da tappezzeria rossa e uno spritz, ascoltare “The Paths Of The Hindu Kush”, ben sorretta da delle belle percussioni, per ricredersi e dare una chance all'album.

Consigliato agli amanti del genere e di tutta la corrente downtempo vagamente ispirata al sole cocente del medioriente, astenersi tutti gli altri.

mercoledì 12 marzo 2014

18/02/2014, Bill Callahan @ Teatro Antoniano

 Dopo un tour mondiale ed europeo di portata non indifferente, Bill Callahan giunge al Teatro Antoniano di Bologna in una fresca serata di un tardo inverno italiano. Con una formazione classica basso-batteria-chitarra e un tastierista di supporto, lo show del cantautore americano si mostra come un intrattenimento di grandissimo spessore.
Il cantato baritono dello schivo talento stelle e strisce è in forma e le canzoni, sapientemente colte fra il folto repertorio fin qui sviluppato, scorrono in un crescendo di emozioni e suoni ben calibrati. L'esecuzione è solida, scorrevole e la qualità sopra la media fin dall'inizio, dove tensioni folk-rock (la bellissima  “Javelin Unlanding”, proveniente dal recente "Dream River", svetta fra le altre) fanno spazio a meditazioni acustiche struggenti - il taglio, in perenne bilico fra dramma e pace. Un solo ritorno sul palco dopo un'ora e mezzo di concerto, un'ultima canzone e un saluto timido e distaccato. Poco da eccepire, se non l'eccessiva esecuzione “meccanica” dei pezzi e la poca interazione di Bill con il pubblico, per il resto le due ore scarse trascorse in sua compagnia sono fra i migliori spettacoli in ambito cantautoriale a cui si possa assistere.

Dopo qualche decina di minuti in cui tutto è finito, fuori dalla sala, viene da pensare che Callahan è un po' un miracolato. Se si pensa alla generazione di artisti della sua età, negli ultimi dieci/quindici anni una buona parte di essi ci hanno lasciato. Il frontman degli Sparklehorse Mark Linkous, Vic Chesnutt, Jason Molina aka Songs:Ohia ed Elliott Smith sono tutti finiti malissimo, i loro grandi successi non hanno permesso alla loro vita di diventare migliore, mozzando di fatto carriere che avrebbero reso migliore il mondo della musica. Bill Callahan, giunto alla ribalta negli stessi anni in cui gli altri avevano un discreto riscontro, con lo pseudonimo Smog prima, e in solo poi, sta cercando di mantenere viva una tradizione di scrittura passionale, vivida, semplice ed essenziale, basata sulle emozioni e le sensazioni. Riflessioni che rendono ancor più omaggio al quasi cinquantenne artista del Maryland, ancora intento a girovagare il mondo con la sua chitarra, quattro canzoni e la voglia di incantare ancora intatta.

lunedì 3 febbraio 2014

Notwist: "Close To The Glass" (Sub Pop Records, 2013)















Quando si parla dei Notwist è sempre doveroso usare le parole giuste. Chi frequenta gli ambiti indipendenti del pop internazionale sa quanto sia stata importante l'epopea della band tedesca. Oltre al marchio stilistico, che ha influenzato generazioni di appassionati e musicisti, il mito dei Notwist viene da un passato lontano. Dopo gli esordi indie-rock tendenti all'hardcore-punk, il collettivo teutonico si è interrogato sulle potenzialità dell'uso integrale delle chitarre. Da lì sono nati “Shrink” e “Neon Golden”, oltre al buon ritorno dopo sei anni con “The Devil, You + Me”. A seguito di un tour promozionale in giro per il mondo (anche in Italia, nel 2010), il gruppo si è preso un altro periodo di pausa durato qualche anno. Che cosa possono dare ancora i Notwist, in un momento in cui certe sonorità sono demodé e l'ondata del pop elettronico tedesco di qualche anno fa (fra i tanti: To Rococo Rot e Barbara Morgenstern) attraversa una fase calante?

“Close To The Glass” conferma quanto i musicisti tedeschi siano dei compositori di musica pop, ma lo fa con un pizzico di intrigo in più. Abbandonate almeno in parte le fragili intarsiature electro-folk di “Neon Golden”, il nuovo album ha un impatto molto forte sull'ascoltatore. Sia “Signals” che la title track sono enigmi da decifrare, racchiusi in complicati pattern elettronici nei quali è difficile districarsi. Sempre di semplici canzoni stiamo parlando, tuttavia questa volta sembra che la band abbia voluto fare un passo avanti. La voce di Markus Acher è sempre discreta e appena sussurrata, come in passato, capace di sfruttare appieno le proprie potenzialità negli episodi in cui risalta di più (la belle melodie acustiche di “Casino” e “Steppin' In”, la lineare struttura pop di “Kong”). A livello compositivo le canzoni eccellono spesso (i bei grovigli electro di “Into Another Tune” e “From One Wrong Place To The Next”), raggiungendo un ipotetico picco con “Run Run Run”, una sgangherata pop song martoriata da fantasmi di fiati e synth sfigurati, un'orgia di suoni perfettamente orchestrata in cinque minuti veramente spiazzanti.

La vena sperimentale del collettivo la troviamo rafforzata nella lunga divagazione kraut di “Lineri”, uno splendido tributo alla musica di casa e un ideale ricongiungimento con band come Kreidler e gli stessi To Rococo Rot. Pacata e fluente la musica scorre via fino a “They Follow Me”, l'ideale conclusione per un disco dei Notwist. La traccia finale, infatti, è una dolce fiaba attraversata da rivoli di malinconia, con una coda strumentale in cui polveri elettroniche si fanno largo fra note di violino e qualche beat. Un modo perfetto per mettere la parola fine a un album tutt'altro che accomodante.

Si intravedono dunque segnali dell'inizio di un nuovo percorso per i Notwist, impegnati a reinventare uno stile che ha fatto scuola, ma che aveva bisogno di nuovi stimoli. Ci sono riusciti molto bene, con la loro usuale originalità e levità, coniugando passato con futuro, non rinnegando un'epoca che li ha visti vincitori e costruendosi un avvenire più che proficuo. A questo punto non resta che correre a comprare i biglietti per le due date italiane di Segrate e Bologna, programmate per il prossimo aprile.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 6 gennaio 2014

Black Hearted Brother: "Star Are Our Home" (Sonic Cathedral Recordings, 2013)















 Reduci di un'era passata e più volte rievocata, Neil Halstead e Mark Van Hoen presentano nel 2013 un nuovo progetto dal sapore solo in parte nostalgico. Coadiuvati dal terzo componente Nicholas Holton (Holton's Opulent Oog, Coley Park), il debutto “Stars Are Our Home” lascia da parte le più ovvie tendenze delle due teste pensanti – l'elettronica per Van Hoen, lo shoegaze e il folk per Halstead – per proporre un disco di forgiato da una psichedelia dolce, screziata solo superficialmente da feedback di chitarra e increspature elettroniche. L'ispirazione bucolica, oltre a scrittura e registrazione improntate all'immediatezza piuttosto che al cesello, sono gli ulteriori elementi che contraddistinguono questo strano oggetto.

Muri di chitarra prendono il sopravvento con sapori variopinti (l'accoppiata, tagliente e sulfurea, composta dalla title-track e da “(I Don't Mean To) Wonder”), piccole praline psych-pop scintillano in una notte infinita (i bei ricami electro di “If I Was Here To Change Your Mind”, la solarità di “This Is How It Feels” e “Got Your Love”) mentre le esplosioni di matrice post-rock irradiano le folate di “Time In The Machine”. Quando saremmo sul punto di dire che questo è un disco più di Halstead che non di Mark Van Hoen, troviamo un'adorabile filotto in cui c'è tutta la sensibilità elettronica dell'inglese. Abbiamo l'imbarazzo della scelta fra l'adorabile beat metallico di “Oh Crust”, le movenze electro-pop di “My Baby Just Sailed Away” e gli incastri ambient-pop di “I'm Back”. Suoni sicuramente già sentiti in passato con gruppi quali Locust e Scala, mai usciti di moda e calati con sapienza in un contesto differente dall'uscita solista. Quando è invece l'animo rurale e intimista di Halstead a prevalere siamo di fronte a fragili intarsiature pop come da sua maniera, ascoltare a tal proposito “UFO” e sopratutto la toccante “Take Heart”, parente della levità dei Mojave 3. La conclusione, un perfetto mix delle varie estrazioni degli artisti, pone la parola fine nel modo migliore, con un sorriso e una spensieratezza benaugurante (“Look Out Here They Come”).

Si ha l'impressione che questa sia un'uscita quasi liberatoria per gli artisti in ballo, una divagazione dai lavori in proprio, un qualcosa fuori dal comune difficilmente ripetibile. Tuttavia il risultato è veramente di altissima caratura, calibrato, emotivo, straripante, un tuffo in un passato non troppo lontano, una manciata di canzoni dal sicuro interesse per molte generazioni di ascoltatori.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana