venerdì 30 agosto 2013

The Asphodells: "Ruled By Passion, Destroyed By Lust" (Rotters Golf Club, 2013)















Dietro un uomo come Andrew Weatherall ci sarebbero mille storie da raccontare e altrettante parole da spendere. Per un personaggio che ha lasciato il segno su uno degli album più celebri delle ultime decadi (il celeberrimo “Screamadelica” dei Primal Scream), oltre ad aver fatto parte di formazioni di spessore assoluto (Two Lone Swordsmen e soprattutto Sabres Of Paradise), il giornalismo non potrà mai rendere sufficientemente la reale portata del suo talento. DJ istrionico e produttore lungimirante e sfrontato, l’inglese presenta la sua nuova idea a fianco di Tim Fairplay. Non molto conosciuto chitarrista della band electro-rock Battant, il britannico vira la sua carriera in ambito elettronico con cose molto buone come l’EP “Timothy J Fairplay EP”, in cui Andrew collabora remixando “Sleighride/Blizzard”, e il successivo “Somebody, Somewhere”, perfetti preludi per la collaborazione a stretto contatto con il più quotato connazionale. Come nota a margine, è utile ricordare che Fairplay ha coinvolto in veste di bassista il suo collega Andy Baxter nei già citati Battant.

Progetto già pianificato da anni e infarcito di simbolismi fra i più disparati a partire dal nome: The Asphodells. Nel periodo vittoriano l’asfodelio, genere di pianta abbondante nei prati soleggiati, era presagio di rovina e distruzione, come per Omero era una specie erbacea degli inferi. A conferma di quanta sostanza ci sia dietro questo album, troviamo la cover di un poema di John Betjeman. Poeta e scrittore d’inizio 900, il britannico è stato uno dei riferimenti della cultura adolescenziale di Weatherall, il quale, con l’assenso di Fairplay, ha deciso di realizzare una cover di “Late-Flowering Lust”, traccia contenuta originariamente nell’album “Late Flowering Love” del 1974. Con una tale impalcatura a metà fra misticismo e letteratura, il disco acquisisce un alone di epicità non indifferente.

Musicalmente l’opera è una magistrale fusione di suoni, tendenze e ritmi. Unendo l’esperienza di decenni di produzioni, il Nostro frulla house cavernicola, chitarrismi rock, electro e tentazioni disco con l’aggiunta di un’atmosfera mai sopra le righe, dimessa, perennemente nera come la pece. Come nei dischi dei Two Lone Swordsmen, il suono è come incapsulato, compresso, oppresso, proprio come una discoteca a seicento metri sottoterra (ascoltare “From The Double Gone Chapel” per farsi un’idea). Nei pezzi in cui spunta una vaga struttura rock, il duetto basso-chitarra richiama a certi richiami wave/post-punk, un qualcosa a metà fra Jah Wobble e Wire, il tutto perfettamente celato da meccanismi electro mai sotto l’eccellenza. La voce, sempre di Weatherall, è un perfetto corollario demoniaco che si incastra magistralmente nei toni marci delle tracce, contribuendo a rimpolpare la natura tormentata della musica.

Troviamo incastri electro-techno che duettano con chitarre e basso dub con risultati strabilianti (la coppia “Never There” e “Skwatch”), ci sono hit da balere deserte e distrutte (l’incedere micidiale dell’iniziale “Beglammered”, i flussi di synth in “Another Lonely City”), le due versioni della cover di Betjeman (“Late Flowering Lust” e “Late Flowering Dub”, entrambe scosse da vibrazioni ritmiche inimitabili). Trovano spazio singoli quasi riconducibili alla stagione electro-clash (il giro di synth di “We Are The Axis” sembra venir fuori dal 2002), ariosità synth-pop eighthies (“The Quiet Dignity (Of Unwitnessed Lives)”), divagazioni disco sfigurate (la lunga e flessuosa “A Love From Outer Space (Version 2)”). In coda c’è il tempo per progessioni hard-electro ossessive (l’infinità ciclicità dei suoni in “A Minute's Dub”) ed altri rigurgiti wave/electro (“Zone”), oltre al remix di “A Love From Outer Space” da parte di Mugwump.

”Ruled By Passion, Destroyed By Lust” ha le carte in regola non solo per diventare uno dei dischi dell’anno ma anche per essere un classico, siamo infatti di fronte allo stato dell’arte dell’ispirazione di Andrew Weatherall. Continuazione di un processo di esplorazione della musica elettronica, l’esordio del nuovo duo Asphodells è un disco potente, vissuto, passionale e colmo di musica malata e ispirata.

(8) 

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 28 agosto 2013

Monokle: "Saints" (Ki Records, 2012)















Dopo Christian Löffler e la sua techno sognante, torna su queste pagine un altro recupero dell'etichetta Ki Records. Questa volta dalla Germania viene pescato Monokle, russo di San Pietroburgo con coordinate stilistiche non dissimili dal tedesco citato poco sopra.

Siamo sempre nei dintorni di un'elettronica addomesticata con incantevole moderazione, modulata nei dintorni di una ritmicità contenuta, mai eccessiva o aggressiva. Qualche anno fa la si chiamava dream-techno e mai una definizione fu così azzeccata, infatti l'anima sudata, funk e scientifica della techno viene fusa con suoni, melodie e ritmi vellutati, morbidi, tenui. Il risultato, nonostante sia un tantino già sentito, è meravigliosamente riuscito. Le canzoni sul lungo periodo sanno emozionare e coinvolgono con un sapore di amarognolo perfettamente calato in un'atmosfera da film sci-fi distopico. Immaginando delle lande sperdute ai confini di una metropoli in rovina, cos'altro piazzare se non pezzi come “Homesick” o “Embers”? E c'è di che gioire al principio con gli arrangiamenti classici di “Holt Found”, la quale prosegue idealmente con la successiva “Glow” dove le stesse voci vengono circondate da numeri di synth giocosi.

Si gioca anche la carta minimal-techno con “Swan”,  virando verso un ambient disturbante con il procedere della traccia che si rileva dinamica, silente, ancora adornata da una ricerca sulle melodie per niente banale. Il resto del disco attesta la propria identità sul versante pensoso e rilassato della techno, lasciando da parte complicate geometrie compositive ed esplorando la bellezza del suono con pochi e semplici componenti. Niente di propriamente innovativo ma realizzato con enorme passione e precisione.

In tutto questo immaginario così fuori da un contesto da dancefloor canonico, trova posto anche un singolo potentissimo come “Slower”, questa volta non solo strumentale ma coadiuvato dalla voce di Nadya Gritskevich. Un sorprendente numero techno-pop colmo di elementi di interesse, fra controvoci campionate, brandelli di melodia e synth gommosissimi a corredo, oltre alle corde vocali della Gritskevich (esordiente) veramente molto efficaci.

La musica elettronica ha bisogno di nuovi elementi di talento per svilupparsi in maniera omogenea e sincera, dunque non si può che elogiare il lavoro svolto dalla piccola e minuscola Ki Records, dove in patria teutonica sta rovistando nel mucchio dei nuovi musicisti per promuovere e sostenere elementi dal sicuro futuro come Monokle. “Saints” è senza ombra di dubbio uno dei migliori esordi in circolazioni negli ultimi anni, dunque non lasciatevelo sfuggire.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Moderat: "II" (Monkeytown Records, 2013)


Dare un seguito, proseguire un inizio ben impostato, è sempre stato il cruccio di ogni musicista, a prescindere dall’era e dal genere di riferimento. Ogni qualvolta un oggetto di successo attende un seguito le speranze si rivolgono sempre al futuro, a cosa verrà, quale magia ci riserverà quel tal artista. Questo concetto è perfettamente applicabile a “II”, seconda prova del sodalizio artistico fra Sascha Ring aka Apparat e il duo Modeselektor. Il primo album era stato preceduto da una discreta curiosità, tali erano le potenzialità teoriche di un tale accordo dando una veloce scorsa alle prestigiose carriere delle menti in gioco. Ed infatti “Moderat” si rivelò uno splendido esempio di modernariato elettronico sinuoso, seducente, con “Rusty Nails” ad ergersi a capolavoro su tutte le altre tracce dalla qualità media altissima. Dette tali premesse, la parola “attesa” nei confronti di “II”, seppur banale e scontata, è quantomeno dovuta.

Pubblicato in piena estate, ed anticipato dal singolo “Bad Kingdom” un paio di settimane prima, il disco non delude e rimpolpa il progetto di nuovi stimoli. Nonostante il suono di riferimento sia quello solito, un misto fra  techno teutonica e suoni UK (garage, 2 step), l’album vaga mirabilmente fra atmosfere, umori e sensazioni, travalicando gli steccati di genere. Le canzoni possiedono un suono totale, potente e preciso, graffiano nel profondo e sostengono la durata sopra i cinque minuti grazie a ritmi e melodie scintillanti. La voce di Apparat, sue le liriche di ogni pezzo cantato, sono il definitivo marchio di fabbrica di un progetto che questa volta rinuncia alle collaborazioni esterne e si autoalimenta con le proprie forze. Anima tedesca, attenti alle tendenze ma non calligrafici, Apparat e soci compiono un'ulteriore rivisitazione del loro immaginario di suono elettronico, tecnologicamente avanzato ma malinconicamente nostalgico, mai stucchevole e perennemente perfettibile.

Se “Bad Kingdom” ricalca l’epicità pop della corrispondente “Rusty Nails”, l’introduzione dei breakbeat ’90 dona ai pezzi un fascino crepuscolare (la rilassatezza quasi chill-out di “Version”, i bei controtempi in “Ilona”), mentre la classicità techno lascia libero spazio alle straordinarie capacità di beat-maker di Apparat (la voragine e i contraccolpi ritmici di “Milk” e “Therapy”). Le movenze a metà fra downtempo e techno-pop dei pezzi cantati coniugano l’eleganza di ere e stili diversi, cercando un ideale incontro fra gruppi come Télépopmusik e Telefon Tel Aviv, raggiungendo vette altissime (lo splendore di “Let In The Light”, soul digitalizzato per “Gita”), lasciando per strada canzoni sincere e passionali, intrise di malinconia e mistero, mostrando un’anima profondamente romantica (la struggente “Damage Done”). E la conclusione “This Time”, abisso di silenzio e tappeti di synth affilatissimi, è la perfetta chiusura di un cerchio a cui è impossibile rimanere indifferenti. Schiocca l’ultima scintilla e l’album termina, si siede e riparte da capo.

Difficile dire qualcosa di più significativo di fronte a una bellezza così gentile e ben architettata, perfettamente nobilitata dalla presenza di qualche piccolo difetto di forma e contenuto. Mesi di lavoro e una gestazione lunga quasi tre anni hanno portato il trio a un risultato intenso, un disco che prosegue e ben completa il bell’esordio, sicuramente una delle migliori uscite elettroniche del 2013. Ed anche adesso, l’attesa, seppur banale e scontata, di ascoltare nuovi sviluppi è fortissima.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana