giovedì 22 maggio 2008

Toob

Band formata 5 anni or sono, i toob si compongono di due figure chiave dell'elettronica degli ultimi 10 anni. Jakeone aka Jake Williams e Richard Thair hanno avuto dalla loro una carriera di grande rilievo, mai sopra le righe ma a tratti decisiva. se il primo lo si può rintracciare in svariati dj mix di pregevole fattura, il secondo ha militato in alcune band fra le più significative delle ultime due decadi. The Aloof e Red Snapper hanno tracciato percorsi a dir poco sorprendenti, commistionando ombrose influenze trance e grandi intuizioni che vanno dall'acid-house ambientale dei primi fino all'industrial trip-hop dei secondi.

il percorso artistico dei due si unisce nella ragione sociale Toob che prende il via nel 2003 con un paio di EP molto corposi ed opulenti, improntati su un ritmo sostenuto ma mai ossessionante, una strana miscela di breaks, house e acide spore psichedeliche, a tratti capace di riesumare i fasti del maestro Andrew Weatherall.

il 2005 è l'anno dell'esordio targato Lo Recordings ed è una grande sorpresa ascoltare il risultato.



Toob: "How To Spell Toob" (2005, Lo Recordings)

10 tracce perlopiù strumentali, in cui le varie indicazioni sopra riportate vengono ulteriormente amalgamate con grande perizia e senso della melodia, introducendo la voce di Shingai Shoniwa, africana già presente nello splendido Bodily Functions di Matthew Herbert.

Sin dall'iniziale 4 Walls l'album scorre con continuità, dando risalto a ritmi monchi, contorti e pieni di vitalità. Gli intrecci pastosi fra bassi altisonanti (spesso simili a martelli pneumatici) e percussioni regolari sono un gran bel sentire per gli amanti della musica avvolgente, che non si concede mai in maniera completa. esempio di ciò è la cantanta Clawing Its Way Back, sorretta da un giro di synth dai tratti ondulatori, pungente, che spicca nei sottofondi di una composizione preziosa.

Non semplice trip-hop, nemmeno rigurgito post/electro-clash, il disco si innalza con grande forza sopra ogni pregiudizio, raggiungendo vette di grande forza e coesione.

pochi mesi fa è uscito un nuovo 12" intitolato Clipto che vanta la collaborazione anche di Wendy Stubbs, già presente nei trip-hoppers Alpha. Adagiato su ritmi colmi di fascino, i due pezzi (title-track e Mr Brown) segnano un cambio di marcia rispetto a tre anni fa, prospettando ulteriori sviluppi per un eventuale nuova prova sulla lunga distanza.

mercoledì 7 maggio 2008

The Chap: "Mega Breakfast" (Lo Recordings, 2008)





Accovacciati davanti ai nostri stereo, ci chiediamo che cosa valga ancora la pena di ascoltare. La risposta potrebbe essere tutto o niente, a seconda delle propensioni individuali. Probabilmente di cose "necessarie" nel 2008 ce ne sono poche, tuttavia può ancora capitare di rimanere folgorati. Come nel caso di questo "Mega Breakfast".

Era dai tempi del capolavoro degli El Guapo, “Fake French”, che non si lambivano certi traguardi di fantasia compositiva. D’altronde non è una grande sorpresa anche alla luce degli splendidi esempi di visionarietà che i The Chap nel passato ci avevano regalato.

Già al tempo dell’esordio “The Horse” la band si era ritagliata una discreta fetta di interesse, dato che il disco mescolava con sapienza art-disco, rock teso e timbriche digitali. Nonostante la validità della proposta, il disco passava quasi inosservato. Nel 2005, però, lo straripante “Ham” sfondava il muro dell’anonimato con la sua elettronica eccentrica e spiazzante. Su una solida base wave e punk-funk (Talking Heads in testa) venivano innestati cascate di ritmi digitali e strumentali, il tutto centrifugato con un minutaggio ridottissimo (2:30, una media al limite dell’hard-core), gran coadiuvante per la fruibilità globale e punto focale della loro musica.

La varietà e l’indisponibilità alla ripetizione permetteva alla band di comporre tanti piccoli tasselli dal ritornello killer, aventi dalla loro una melodia nel 90% dei casi irresistibile e senza scampo. Anche negli esempi che parevano più normalizzati, un pattern o un rumore posizionato al punto giusto cristallizzavano la genialità di quel frangente donando al resto della composizione un’aura d’autentica beatificazione. Il lato lirico della loro arte traspone l’ingenuità sadica che zampilla dalle parole scovate in qualche intervista, parole e sensazioni tutte personali. Dicono di voler immortalare le cose più bizzarre che in un primo momento appaiono banali o di poca rilevanza, adattarle alla canzone in questione e mettere il tutto assieme. Il risultato di questa stramba filosofia di scrittura è un approccio assolutamente istintivo e impulsivo, a tratti forsennato, ma sempre lucidamente pazzoide e calcolato.

Il nuovo “Mega Breakfast” è sublimazione e punto massimo di qualità oggettiva dell’arte dei The Chap. Colti in maniera furba e certosina i lati più positivi dei due dischi precedenti, la nuova prova si delinea come perfetta confluenza fra questi due flussi, con mescolata e ritocco finale. L’incapacità di definire precisamente ciò che andremo ad ascoltare mettendo il disco nel lettore è palesata dal continuo cambio di marcia; tuttavia estrazioni funky di grande impatto si possono pescare un po’ ovunque, come del resto l’amore per il cantato di gruppo, che guarda caso era marchio di fabbrica del già citato “Fake French”.

Ascoltando l’inno techno-pop “They Have A Name” sembra di essere ripiombati in piena era synth-pop anni 80, ma non c’è da meravigliarsi: tutto quadra perfettamente. Le destabilizzazioni soniche che qua e là ricorrono si ripresentano nella sorprendente “Fun And Interesting”, bomba sopra le righe e singolo del disco da piazzare nello stereo quando si è a caccia di un uragano d'emozioni. Le bordate pulsanti di “Caution Me” pugnalano come una jam fra i Pop Group e una qualsiasi synth-band; “Carlos Walter Wendy Stanley” segue il saliscendi timbrico della precedente con inserti di schitarrate al limite della decenza; la furia con cui si alternano stasi e confusione corale è a dir poco miracolosa.

Il frullato dal gusto agrodolce di “Surgery” splende di una luce tremante e disturbata, la più pacata e sommessa “Take It In The Face” è un synth-pop minimale, colonna sonora per un film noir futurista; l’indefinibile “Ethnic Instrument” è un improbabile mix fra voci trash, ritmica monca e campionamenti di chitarra brevissimi.

“Proper Rock” si barcamena con indecisione fra tensioni rock emaciate e un pop al vetriolo scosso da onde elettroniche; singulti techno dipingono l’ossessionante “The Health Of Nations” che si nutre di estratti concreti molto particolari. Le conclusive “Wuss Wuss” e “I Saw Them” aggiungono ulteriori elementi per disorientare l’ascoltatore, già sufficientemente colmo di materiale da smaltire e digerire.

Se l’originalità ha una definizione questo non è certo, fatto sta che siamo di fronte a un qualcosa di simile, un gruppo dalle potenzialità inaspettate e un estro che raramente riesce ad essere rintracciato in molta musica che ci viene propinata ogni giorno, da gennaio fino al tramonto dell’anno.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 6 maggio 2008

Christian Rainer: "Turn Love To Hate" (Komart, 2008)



Nato e cresciuto in Francia dal 1976, Christian Rainer è un personaggio fecondo come se ne vedono raramente. Artista visivo, musicista, scrittore, regista, promoter: un processo di sviluppo mentale e d’ispirazione, il suo, che fa dell’eterogeneità la sua forza. Collaboratore con importanti fondazioni, musei e gallerie, ha saputo destreggiarsi in contesti fra i più disparati.

Tra una partecipazione e l'altra (come quella con i Ronin per il loro debutto omonimo), Rainer riesce a ritagliarsi il tempo per comporre album tutti per sé. Esordiente nel 2004 con il flessuoso “Mein Braunes Blut”, prosegue la sua carriera solista con il sodalizio stretto assieme agli italiani KiddyCar, i cui frutti si possono apprezzare in “How This World Resounds”, splendido esempio di musica classica aggiornata e contaminata con grande gusto.

Il progetto di questo “Turn Love To Hate” non è solo musicale. Oltre all’album in sé, la pubblicazione viene accompagnata da un Dvd contente i video di ogni traccia. Lo stesso Rainer ha invitato undici artisti provenienti da varie nazioni europee per assegnare a ognuno la realizzazione del cortometraggio relativo a ogni canzone. Non si tratta di un'operazione narcisista, ma della ricerca della libera espressione creativa senza limiti o barriere. A ognuno dei personaggi chiamati in causa, infatti, è stata data la possibilità di scegliere il brano a loro più congeniale, per poter esprimere al meglio il loro estro. Come recitano le righe di presentazione, l’obiettivo principale è quello di donare, e non sottrarre, autonomia alle varie discipline: se la musica si può ascoltare senza osservare le immagini, lo stesso si può dire per i video, capaci di attirare l’attenzione senza l’accompagnamento sonoro. Da segnalare anche la nutrita componente italiana, con ben sei rappresentanti all’appello.

Il titolo già lascia intuire il senso dell'opera: la possibilità di trasformare l’amore in odio rappresenta l’incapacità di ogni individuo di potersi difendere davanti a un sentimento così totalizzante e inafferrabile.

La musica scorre fra riferimenti al pop d’autore di prima classe, infatuazioni classiche post-moderne, frangenti di ombrosa brillantezza. A cavallo fra il Nick Cave più posato, sprazzi di Tom Waits e anche del più maestoso Stuart Staples, “Turn Love To Hate” vive della costante e vibrante tensione che si percepisce scorrendo le sue tredici tracce, fra bordate di dolcezza strumentale e inebrianti ballate ricoperte di carta vetrata.

Episodi come “Violating” sono saggi di grande fascino e suggestione, che confermano l'abilità di Rainer nell'amalgamare influenze fra le più svariate. Crooner teso, inebriato e inebriante in “What’s Fresh Today”, Christian si rivela anche arrangiatore di razza: il violino posizionato nei frangenti giusti dona un’atmosfera luciferina al brano, che scorre nei suoi sette minuti con grande fluidità.

Proseguendo, si potrà scovare l’emozionante “Stranger”, la lunga e pulsante “Fish'n Chips (in Total Eclipse)”, cantata con il cuore strappato dal petto.

Il resto dell’opera non si discosta da quanto già esposto, ma occhio a dare per scontato il contenuto e la forma con cui ogni singolo frammento viene espresso. La sconvolgente “April Woods” è proprio l'antidoto ideale a ogni assuefazione: il duetto con una voce femminile emaciata vale già il prezzo del biglietto.

L’obbligo di ogni amante delle vituperate "canzoni d’amore" è quello di correre ad ascoltare l’arte oscura e preziosa di Christian Rainer.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana