domenica 15 dicembre 2013

The Uncluded: "Hokey Fright" (Rhymesayers Entertainment, 2013)
















Non è il caso di perderci fiumi d'inchiostro nello spazio di una recensione, ma davvero sarebbe il caso di chiedersi seriamente il perché certi album non godano dell'hype che sulla carta meriterebbero. Accadde già nel 2011, quando Kimya Dawson, a suo tempo fin troppo osannata per l'avventura con i Moldy Peaches e poi divenuta un culto indie internazionale con la colonna sonora di "Juno" (che le fruttò anche tanti bei soldini), pubblicò il suo disco più bello, "Thunder Thighs", nell'indifferenza generale. Ora, non è che alla logorroica cantautrice post-hippie sia mai importato alcunché delle luci della ribalta, però il suo ritorno in pista dopo "Juno" era molto atteso e il disco bellissimo. Magari è un problema legato alla predominanza dell'elemento lirico, che quindi la rende poco appetibile al di là dei confini anglofoni, fatto sta che per lo meno nel Belpaese di quel disco non si accorse quasi nessuno.

Peccato, perché tra l'altro nasceva esattamente in una mezza manciata di tracce di "Thunder Thighs" la collaborazione tra il folletto antifolk Kimya e il (troppo in fretta) dimenticato rapper Aesop Rock. Uno spilungone bianco con una voce nerissima che al principio del nuovo secolo aveva fatto la sua parte per impreziosire il catalogo Def Jux di El-P, imponendolo come uno dei marchi fondamentali per capire l'ultima rivoluzione underground dell'hip-hop. Una rivoluzione che in parte cospirava proprio nella direzione di un avvicinamento alle frange più intellettuali dell'universo indie. Il matrimonio artistico fra Kimya ed Aesop Rock era quindi perfetto sulla carta ma non troppo facile da immaginare nel concreto: così "bianca", spedita e naif la musica di lei; così black, torbida e "pesante" quella di lui. Eppure il terreno della scansione linguistica del rap (o magari dello scioglilingua...) era un primo elemento di contatto fra due musicisti che degli steccati stilistici e delle politiche di "genere" non hanno mai saputo che farsene. Quindi, dato che l'esperimento sul disco di Kimya funzionava, perché non farci una vera e propria band? Fu così che nacquero gli Uncluded...

“Hokey Fright” è tanto particolare quanto dal destino incerto. Perfetta fusione fra stilizzazione folk e strutture rap/hip-hop, il disco rischia di scontentare tutti o di piacere a chiunque. Potrebbe essere troppo morbido e delicato per i fan del rap, eccessivamente contaminato per i puristi della musica voce e chitarra. Tuttavia è difficile rimanere indifferenti alla dolcezza degli episodi in cui la spensieratezza del piglio di Kimya prevale come in “Delycate Cycle” (accompagnata da un bellissimo video di lancio), come nei casi in cui gli spigoli di Aesop la fanno da padrone (la scura “Tv On 10”, il magma di parole di “Bats”). Magnifico il flow di “The Aquarium”, capolavoro di lirismo e ritmi come nella migliore tradizione rap, seguito dalla struggente e gracile favoletta adolescenziale di “Teleprompters” in cui Kimya mette nero su bianco una delle sue più belle canzoni mai scritte. Il disco si dilunga e presta il fianco al minutaggio con qualche riempitivo sopratutto sul finale (”Wyhoum”, “Tits Up”), tuttavia la lunghezza sostenuta risulta funzionale a raccontare e far comprendere meglio che cosa sono gli Uncluded. Difficile dire se sia un progetto più di Kimya o di Aesop Rock, fatto sta che l'equilibrio delle due parti è quasi perfetto, ed entrambi riescono a calarsi perfettamente nelle parti dell'altro, adattandosi magnificamente ai tempi del folk e quelli dell'hip-hop. Non stride per niente sentire il rapper bianco sputare sentenze sorretto solo da alcuni arpegghi di chitarre, come del resto non è fuori luogo la voce eternamente adolescenziale della ragazza riccioluta attorniata da ritmi up-tempo.

In virtù di tutta questa sfrontatezza e novità resta appunto da vedere come procederà il duo, se sarà la solita esperienza one shot o se le idee sono un po' più strutturate e a lungo termine. A prescindere da ciò, “Hokey Fright” resta un album divertente, efficace e vagamente innovativo. Probabilmente rimarrà pieno di polvere in molti degli scaffali in cui è stato esposto, tuttavia a noi resta la sensazione che tutto ciò è davvero ingiusto.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Federico Savini

mercoledì 4 dicembre 2013

Close: "Getting Closer" (!K7, 2013)



 












Era da molto tempo che l'uomo dietro la Simple Records (Ian Pooley e Motocitysoul hanno pubblicato qui) non usciva con materiale nuovo, prendendo una breve pausa dal suo lavoro di boss discografico e DJ. Inglese di nascita (Glastonbury), produttore, disc jokey e reclutatore di talenti, discograficamente ha lasciato ai posteri diversi 12” con il sodale Tam Cooper nel biennio 2007/2009 e un discreto album solista “Space Between” datato 2005, minestrone di dub, techno e broken-beat. Si è sentito parlare pochissimo di lui, le sue produzioni, nonostante siano di discreta se non ottima qualità, hanno avuto poco clamore e dunque questo suo ritorno ha suscitato uno scarso interesse sulla piazza del mercato discografico.

Il progetto Close prevede in primis la collaborazione della vocalist Charlene Soraia (bello il suo “Moonchild” del 2011), del musicista reggea Tikiman e di Fink (artista di casa Ninja Tune) includendo dunque dei pezzi cantati, oltre agli strumentali di contorno. L'album, intitolato “Getting Closer”, prevede un classico, seducente ed efficace meticciato electro capace di assorbire varie tendenze elettroniche. Se negli episodi con supporto vocale siamo sempre in perfetta sintonia fra trip-hop, synth-pop e house, nel resto delle tracce techno, downtempo e broken-beat animano  tracce ispirate, contenenti bei suoni, mai sconvolgenti ma sempre sopra una media qualitativa invidiabile.

Quello che fa di “Getting Closer” un disco pregevole è però anche e soprattutto una qualità affatto scontata nel genere, la capacità di incasellamento, di patchwork, di stimoli tanto disparati in un insieme fluido e compatto. Will Saul si dimostra in questo una vecchia volpe di prima classe: mano lucida ed elegante, evita gli strafacimenti, gli effetti facilotti e le accozzaglie, sa quando è il momento di cambiare marcia mantenendo sul complesso una chiara visione d’insieme. Così si può pensare a “Getting Closer” come a un piacevolissimo tappeto omogeneo in cui trovano posto il dream-synth-pop di “I Died 1000 Times”, lo splendido future-dub di “Born In A Rolling Barrel”, i sentori downtempo di “Cubizm” (si può pensare al recente Bonobo) l’audace “Time Fades”, riuscita commistione tra house music e certi esperimenti à-la Burnt Friedman fino allo stiloso house-pop di “Beam Me Up”.

“Getting Closer” è uno di quei dischi che in qualche modo riescono a conquistarsi con discrezione un posto particolare nel cuore dell’ascoltatore, non ruba mai del tutto la scena ma non fa neppure da tappezzeria, scorre con morbidezza alzando i toni ai momenti opportuni.
Per Will Saul, ad oggi, la sua opera più riuscita.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo

domenica 1 dicembre 2013

Psapp: "What Makes Us Glow" (The State51 Conspiracy, 2013)

Autori di uno stile unico e riconoscibile, gli Psapp hanno marchiato a fuoco lo scenario musicale indipendente degli ultimi dieci anni. Dal 2008, anno in cui fu rilasciato l'ultimo lavoro “The Camel's Back”, si è sentita la mancanza di quella visione del pop fuori dai canoni, estroversa, fiabesca, una prospettiva di cui si sente il bisogno per evadere dai luoghi comuni della musica. Lungo una carriera composta da tre album e una celebrità inaspettata (la sigla di Grey's Anatomy con “Cosy In The Rocket”), la band europea (tedesco Carim Clasmann, inglese Galia Durant) non ha mai accellerato i tempi, moderando i ritmi di pubblicazione e la quantità di musica prodotta. Tuttavia, cinque anni per una band contemporanea sono davvero tanti. Cosa sarà successo al magico toy-pop degli Psapp?

“What Makes Us Glow” ha l'arduo compito di fare da collante con il passato dopo un lungo periodo di assenza dalle scene, risultare attuale senza snaturare una formula vincente e possibilmente non essere ripetitivo. La buona notizia è che ci riesce egregiamente, la brutta è che dura troppo poco. La voce di Galia, le deliziose cromature, i ritmi mai domi, le stranezze della toy-orchestra, tutto è rimasto come prima senza risultare calligrafico o azzardato. Straordinaria coerenza, senso della misura e capacità tecniche smisurate sono solo alcune delle qualità che permettono a questo collettivo di mantenere una peculiarità che, sì, possiamo dirlo senza dubbi, rimane saldamente intatta.

Trovare tratti distintivi a una giostrina sfavillante di tale finezza è una pratica masochistica al pari di dover distinguere i colori di un arcobaleno estivo. La forza degli Psapp non è l'assolo di chitarra o un sintetizzatore in solo, come gli acuti vocali. La vera carta vincente la troviamo in suono complessivo sfaccettato, dove molti elementi, ognuno in egual misura ed egualmente necessari, compongono pezzo per pezzo un unicum efficace e distinguibile. Dunque non una musica di singoli o di personalità emergenti, tuttavia il prodotto di una banda, di un gruppo, di una molteplicità.

Dunque quando il carillon di “Wet Salt” prende il via, fra xilofoni, chitarre, strumenti giocattolo e percussioni, inizia come un viaggio fra cantilene mistiche (“The Cruel, The Kind, The Band”, l'eleganza magniloquente di “That's The Spirit”), la gioiosità psichedelica degli episodi più sballati (le varie “Seven”, “In The Black”, “Your Hot Knife”) e le solite tendenze world-pop (sonorità e profumi arabeggianti in “Everything Belongs To The Sun” e “In And Out”). Dove la lentezza prende il sopravvento si scoprono lati più riflessivi (i deliziosi ritmi cadenzati di “Bone Marrow”, botta-risposta fra violino e tromba per “The Well And The Wall”), smorzando temporaneamente una rincorsa forsennata e irresistibile. Come manifesto del disco possiamo prendere la title-track, sunto esaustivo di dodici tracce perennemente in bilico fra fantastico e fantasioso, mai stucchevoli, pronte a rimanere con i piedi per terra senza superare i limiti del buon gusto.

Per chi gli aspettava, per chi non li conosce o anche per chi li ha sempre odiati o ignorati, non c'è altro da dire se non: “Bentornati Psapp!”.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana