Non è il caso di perderci
fiumi d'inchiostro nello spazio di una recensione, ma davvero sarebbe
il caso di chiedersi seriamente il perché certi album non godano dell'hype che sulla carta meriterebbero. Accadde già nel 2011, quando Kimya Dawson,
a suo tempo fin troppo osannata per l'avventura con i Moldy Peaches e
poi divenuta un culto indie internazionale con la colonna sonora di "Juno"
(che le fruttò anche tanti bei soldini), pubblicò il suo disco più
bello, "Thunder Thighs", nell'indifferenza generale. Ora, non è che alla
logorroica cantautrice post-hippie sia mai importato alcunché delle
luci della ribalta, però il suo ritorno in pista dopo "Juno" era molto
atteso e il disco bellissimo. Magari è un problema legato alla
predominanza dell'elemento lirico, che quindi la rende poco appetibile
al di là dei confini anglofoni, fatto sta che per lo meno nel Belpaese
di quel disco non si accorse quasi nessuno.
Peccato,
perché tra l'altro nasceva esattamente in una mezza manciata di tracce
di "Thunder Thighs" la collaborazione tra il folletto antifolk Kimya e
il (troppo in fretta) dimenticato rapper Aesop Rock.
Uno spilungone bianco con una voce nerissima che al principio del nuovo
secolo aveva fatto la sua parte per impreziosire il catalogo Def Jux di
El-P,
imponendolo come uno dei marchi fondamentali per capire l'ultima
rivoluzione underground dell'hip-hop. Una rivoluzione che in parte
cospirava proprio nella direzione di un avvicinamento alle frange più
intellettuali dell'universo indie. Il matrimonio artistico fra Kimya ed
Aesop Rock era quindi perfetto sulla carta ma non troppo facile da
immaginare nel concreto: così "bianca", spedita e naif la musica di lei;
così black, torbida e "pesante" quella di lui. Eppure il terreno della
scansione linguistica del rap (o magari dello scioglilingua...) era un
primo elemento di contatto fra due musicisti che degli steccati
stilistici e delle politiche di "genere" non hanno mai saputo che
farsene. Quindi, dato che l'esperimento sul disco di Kimya funzionava,
perché non farci una vera e propria band? Fu così che nacquero gli
Uncluded...
“Hokey
Fright” è tanto particolare quanto dal destino incerto. Perfetta
fusione fra stilizzazione folk e strutture rap/hip-hop, il disco rischia
di scontentare tutti o di piacere a chiunque. Potrebbe essere troppo
morbido e delicato per i fan del rap, eccessivamente contaminato per i
puristi della musica voce e chitarra. Tuttavia è difficile rimanere
indifferenti alla dolcezza degli episodi in cui la spensieratezza del
piglio di Kimya prevale come in “Delycate Cycle” (accompagnata da un
bellissimo video
di lancio), come nei casi in cui gli spigoli di Aesop la fanno da
padrone (la scura “Tv On 10”, il magma di parole di “Bats”). Magnifico
il flow di “The Aquarium”, capolavoro di lirismo e ritmi come nella
migliore tradizione rap, seguito dalla struggente e gracile favoletta
adolescenziale di “Teleprompters” in cui Kimya mette nero su bianco una
delle sue più belle canzoni mai scritte. Il disco si dilunga e presta il
fianco al minutaggio con qualche riempitivo sopratutto sul finale
(”Wyhoum”, “Tits Up”), tuttavia la lunghezza sostenuta risulta
funzionale a raccontare e far comprendere meglio che cosa sono gli
Uncluded. Difficile dire se sia un progetto più di Kimya o di Aesop
Rock, fatto sta che l'equilibrio delle due parti è quasi perfetto, ed
entrambi riescono a calarsi perfettamente nelle parti dell'altro,
adattandosi magnificamente ai tempi del folk e quelli dell'hip-hop. Non
stride per niente sentire il rapper bianco sputare sentenze sorretto
solo da alcuni arpegghi di chitarre, come del resto non è fuori luogo la
voce eternamente adolescenziale della ragazza riccioluta attorniata da
ritmi up-tempo.
In virtù di tutta questa sfrontatezza e novità resta appunto da vedere come procederà il duo, se sarà la solita esperienza one shot
o se le idee sono un po' più strutturate e a lungo termine. A
prescindere da ciò, “Hokey Fright” resta un album divertente, efficace e
vagamente innovativo. Probabilmente rimarrà pieno di polvere in molti
degli scaffali in cui è stato esposto, tuttavia a noi resta la
sensazione che tutto ciò è davvero ingiusto.
(7)
recensione di Alessandro Biancalana e Federico Savini
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