lunedì 14 dicembre 2009

Lusine: "A Certain Distance" (Ghostly International, 2009)







Lusine, al secolo Jeff Mcllwain, è un errante dell’elettronica moderna rimasto sempre in disparte. Compiuta quest’anno una decade di carriera discografica (esordio con l’EP “Coded” nel 1999), l’artista ha attraversato varie fasi di ispirazione artistica lungo tutto questo decennio. Passata la sbornia per l’ondata IDM con ottimi album come l’omonimo “L’usine” e “Iron City”, si arriva a questo “A Certain Distance” attraverso prove interlocutorie, capaci di esplorare territori più sostenuti (gli accenni techno di “Serial Hodgepodge”) e lande sperimentali (l’ambient brumosa in “Language Barrier”).

Sapiente cesellatore di melodie a prescindere dalla tonalità, Lusine gioca le sue carte più ambiziose realizzando un’opera complessa e completa. “A Certain Distance” non è solo un album di elettronica ambientale come ne abbiamo sentiti tanti; la sua peculiarità coinvolge vari ambiti. Sensazioni pop forgiate con gusto sopraffino, clangori tech-house sostenuti da una mano ferma e sapiente, zampilli ambient che profumano di infatuazione dreamy. Scorrendo sommariamente l’album si percepisce una sensazione di tenera morbidezza perfino nei frangenti più spigolosi, creando un’atmosfera ovattata e accogliente. Oltre a questi meriti in sede di composizione, va citata la scelta azzeccata dei vocalist presenti nelle canzoni cantate. Vilja Larjosto dipinge trame sognanti nei momenti più toccanti dell’album (loop ipnotici nella incantevole “Two Dots”, piglio da musa soul nei timbri secchi di “Twilight”), mentre Caitlin Sherman si lascia andare in un vortice di sensualità morbosa (l’ambient-pop brumoso “Gravity”).

Quando la componente strumentale prende il sopravvento lasciando da parte le ugole femminili, siamo di fronte a un modernariato elettronico sopra la media e decisamente variegato. Pensosità robotica dipinge arcobaleni luminosi (l’iniziale “Operation Costs” è un delizioso affresco di techno idilliaca, “Thick Of It” si staglia algida e serafica), gelidi tappeti sintetici giacciono con calma mistica (gocce di bellezza ambient-techno in “Tin Hat”, i grovigli sintetici di “Baffle” e “Every Disguise”).

Fra rintocchi romantici e soffusi (la dolcezza di “Double Vision”) e il finale percussivo (gioielli di techno gentili come “Cirrus” e “Crowded Room” si sentono raramente), “A Certain Distance” si conclude con fascino e sinuosità. Lusine festeggia il suo anniversario regalandoci emozioni intense e freschezza rigeneratrice.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 8 dicembre 2009

Annie: "Don't Stop" (Smalltown Supersound, 2009)



L’uscita di “Anniemal”, datata settembre 2004, mise all’erta i più attenti cultori del pop di qualità per la sua sferzante freschezza rigeneratrice. Quell’album conteneva un concentrato di synth-pop anni 80, fascino nordico, profumi seducenti e tanta, tanta bella musica. Non una canzone usciva dal coro di un’opera colorata, frizzante, incontenibile. A partire dello splendido singolo “The Greatest Hit”, passando per la malinconia sonica di “My Heartbeat”, fino al noir-funk-pop di “No Easy Love”.  Dopo il meritato (seppur limitato) successo guadagnato nel periodo appena successivo all’uscita del disco, la cantante prende un lungo periodo di pausa intervallato da qualche singolo più che buono (“Anthonio”, “Follow Me”) e da un episodio della celebre compilation a puntate “DJ-Kicks”, rivelatisi negli anni uno delle miglior fin dal primo capitolo.

Si inizia con l’incipit di “Hey Annie” e pare proprio che non siano passati questi cinque anni d’attesa per un nuovo album. I cambiamenti rispetto al passato sono quasi impercettibili. Se si esclude uno stile estetico differente (la nuova giocosità kitsch contro l’austerità sexy del passato), “Don’t Stop” è in tutto e per tutto una naturale evoluzione del percorso tracciato da “Anniemal”. La voce di Annie è un affresco melodioso al servizio di canzoni che hanno un approccio diretto con l’ascoltatore, la continua altalena di emozioni coincide con un supporto strumentale perfettamente coagulato con i restanti elementi.

Mentre tastiere piangenti e battiti malinconici e disperati strappano lacrime dolenti (il pathos annichilente in “When The Night”, l’avvenenza stravolta dei synth di “Bad Times”), ritornelli contagiosi e ricerca pop convivono senza forzature in un fiorire di perle (lo spleen sognante di “Hey Annie”, il ritmo sostenuto di “My Love Is Better”, la violenza melodica in “The Breakfast Song”). I frangenti più arditi (le bollicine 8 bit di “I Don’t Like Your Band”, gli electro-noir-pop “Marie Cherie” e “Take You Home”) mettono in fila popsinger che in questi anni hanno cercato di sfondare il mercato con risultati altalenanti. La classe con cui Annie riesce a trattare una materia scottante come il pop sorprende fino a un certo punto, d’altronde sono le stesse qualità già ampiamente espresse in passato.

Spingendo il piede sull’acceleratore, la qualità non perde la sua autenticità (il techno-pop sussurrato di “Songs Remind Me You”, sciabolate ritmiche sostenute nella title track), mentre la dolcezza di “Heaven And Hell” in chiusura mette d’accordo con un piglio sincero, delicato, capace di trasmettere un sentimento intenso e incantato.

Con gestualità e look da regina scandinava venuta dalle nevi, Annie torna con un’opera fine, mai urlata ma piuttosto mostrata sottovoce, composta da canzoni che sono un po’ il compendio del pop anni Duemila inteso come agglomerato di tentazioni e stili più o meno azzeccati. Sotto le virgole impazzite del moog gelido di “When The Night”, auguriamo all’artista un riscontro maggiore rispetto al passato da idolo underground.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 29 novembre 2009

Gus Gus: "24/7" (Kompakt, 2009)



Collettivo dalla forte tinta camaleontica, i Gus Gus tornano a distanza di due anni dall’irrisolto “Forever”. Recuperato uno dei fondatori del gruppo (Daníel Ágúst), il presente degli islandesi è più che mai rivolto verso un’esplorazione continua. Non paghi di aver lasciato alle spalle opere decisive per la crescita della musica elettronica durante gli anni 90 (soprattutto “Polydistortion” e “This Is Normal”), i tre freddi nordici dal cuore caldissimo riversano in “24/7” una fluida miscela di passione dance.

Registrato in isolamento all’interno di una vecchia fabbrica di pesce a Tankurinn, il disco si mostra essenziale, secco, minimalista. La forte tinta dub che adorna tutte le composizioni permette uno sviluppo flessuoso e progressivo, l’uso discreto dell’eco vocale aggiunge un tocco psichedelico che sa di infatuazione trance. Tracce che non vanno mai sotto i sette minuti (unica eccezione il trance-pop di “Take My Baby”) richiedono una forte identità e un consapevole bilanciamento fra ambizioni e misura. Il risultato di questa evoluzione è un arcobaleno tinteggiato di cromature analogiche, la dispersione tonale è una piacevole perdizione oppiacea che concilia l’ascoltatore con l’atmosfera senza limite di spazio e tempo. Il trio supera sé stesso inconsapevolmente e concepisce un bignami di trasfigurazione compositiva carpendo a piene mani dal passato (l’esperienza maturata negli anni), senza dimenticare il prezioso filtro sulle nuove tendenze (il profondo inserimento nell’ambiente a livello internazionale).

La strumentazione analogica espone tutto il suo splendore nelle convulsioni più concitate (la colata infiammata di synth nella finale “Add This Song”, il turbine a metà fra techno-pop e progressive house di “Hateful”), mentre i battiti decisi e palpitanti sono il cardine degli episodi più pensosi (l’appeal oscuro seppur deciso di “On The Job”, l’ossessione ritmica da sballo dell’esemplare tech-house “Bremen Cowboy”).

Trovare difetti a un lavoro formale e contenutistico così profumato e di classe è un esercizio di masochismo a cui non è necessario sottoporsi. L’unico punto focale su cui vale la pena concentrarsi è la forza dirompente che fluisce limpida e vivida lungo meandri labirintici senza uscita. Se a qualcuno mancava il tremito della tensione viscerale degli esordi marcati Gus Gus, il rifugio più consono è la calda e rassicurante miscela esplosiva di “24/7”.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 22 novembre 2009

Falcao And Monashee: s/t (Borne Recordings, 2009)



Rispettando in maniera ossequiosa la regola della coppia uomo-donna in ambito alternative-folk, il duo Falcao And Monashee raggiunge il debutto dopo una lavorazione fine ed elaborata. Conosciutisi a Vancouver nel 2007, Rodrigo Falcao (brasiliano di nascita) e Monashee Sun (canadese, figlia di musicisti) si stabiliscono su un’isola chiamata Galiano Island. Immersi in un microcosmo incantato i due artisti esprimono la loro ispirazione con un primo EP da cinque tracce. Lasciata l’isola, con tappa intermedia a Sao Paulo, tornano a Vancouver dove aggiungono altre tre tracce per un totale di otto canzoni, proprio quelle che vanno a comporre il loro debutto omonimo.

Nell’ultima decade il folk, in ogni sua mutazione e sfumatura, è stato ben approfondito e dunque non c’è (quasi) più niente di cui sorprendersi. Il discriminante con cui distinguere puro mestiere ed operazioni valide è la passione interpretativa, l’ispirazione nelle liriche, i riferimenti poco scontati. Nel caso specifico ci troviamo di fronte a un folk sommesso, malinconico ma non pessimista, decadente ma non funereo. I toni acuti del cantato femminile stanno in contrapposizione con le pennellate distaccate della strumentazione nutrita. Si possono ben distinguere un organo Hammond, tastiere di vecchia data, chitarre, banjo, percussioni di ogni genere, arpa, violino e perfino un mandolino. Non un baccanale confusionario, bensì una solida stratificazione della realtà strumentale gestita con discrezione e professionalità.

Sinuose nenie dark-folk gesticolano fumose e seducenti (il giro ipnotico di banjo in “Teleportation”, il duetto vocale mistico di “Plot”), mentre la robustezza di un folk-pop ben delineato arricchisce la proposta con brio (Monashee fa la musa in “Special Agent”, “Parasocial” splende di riflessi colorati). Fra sfumature elettroniche ben dosate (i field-recordings in “Heaven”), e altre gemme di folk errante (l’intreccio acustico di “All Terrain”, le trasparenze ben archiettate in “Strange Universe”).

A metà fra sperimentazione freak e sensibilità pop, il duo Falcao And Monashee si cimenta con la materia folk mostrando sensibilità e gusto nell’allacciare stili differenti. Un buon viatico per costruire una carriera fruttuosa e slegata da canoni e proposte alquanto ordinarie.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 15 novembre 2009

Racoon: "Little Shapes" (Disasters By Choice, 2009)


Romano di nascita, con postazione fissa ad Oakland, Luigi Marino è un esordiente promosso dall’etichetta romana Disasters By Choice. La sua principale occupazione nell’ambito musicale riguarda lo studio approfondito della musica contemporanea e in particolare l’uso delle percussioni. Studente di musica elettronica e improvvisazione al Mills College di Oakland, il ragazzo è anche assistente all’insegnamento di computer music.

“Little Shapes” è la prima espressione della personale interpretazione della musica pop da parte dell’artista. Lo scontro-incontro dei suoi studi con la natura del progetto conduce verso una visione incantata della forma canzone; la declinazione sognante della sperimentazione di fondo miscela lo spirito avvenieristico con un'indole da musicante pop. Il gusto e la misura con cui vengono calibrate le varie tendenze è il punto cruciale di un disco a tratti incantevole.

Quando i toni più distesi prendono il sopravvento, assistiamo a quadretti costruiti con sapienza maniacale (gli sbuffi glitch di “Haiku” e “The Anonymous Brother Of Lily Chou Chou”, il melodramma meccanico in “Untitled”), nei momenti in cui il ritmo si fa più sostenuto la musica vira nei dintorni di una IDM scalpitante (l’adorabile stilettata in “A Teacup Of Chinese Mess”, gli scheletri digitali impazziti di “Stairway To Earth” e “T”).

Le ombre di una nebbia fitta e opulenta trasformano innocui stracci ambient in ossessioni soffuse (il silenzio increspato di “Bhagawhandi”, il tono sommesso e silente in “Still Here” e “7.02”), il quadro si completa con altre due fantasie pescate da un inesauribile campionario di idee (gli zampilli dream di “Untitled 1”, la solennità malinconica che pervade da “Outro”).

Raccolta di melodie spezzate e ricomposte con amore e passione, “Litte Shapes” mostra al pubblico degli appassionati un esordiente umilmente radicato in una realtà elettronica consolidata. A metà fra nostalgia ritmica e innovazione stilistica, Racoon ha davanti a sé un futuro potenzialmente brillante, gli sviluppi della sua carriera potrebbero riservare sorprese decisamente interessanti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 9 novembre 2009

subtractiveLAD: "Where The Land Meets Sky" (n5MD,2009)



E’ difficile associare a un ascolto rarefatto una sensazione o anche una sola immagine. Spesso si trae piacere da una musica semplicemente per la sua bellezza, tuttavia andando a fondo è difficoltoso evocare qualcosa di preciso a cui far riferimento. Nel caso della nuova prova del compositore canadese subtractiveLAD, all’anagrafe Stephen Hummel, questo dubbio è una necessità a cui si deve dare una risposta. Protesa verso una forma personale di ambient glaciale, nel corso di questo nuovo lavoro articolato sulla lunghissima distanza di due cd, la formula si tramuta spesso e diventa un’essenza a sé stante, senza una precisa identità stilistica. Shoegaze? Ambient isolazionista? Post-rock? Questa forte peculiarità induce a porsi diversi quesiti; essenzialmente il tutto si riduce alla comprensione della natura stessa di queste composizioni.

Ascoltando con attenzione ognuna delle 13 tracce che compongono la prima parte di “Where The Land Meets The Sky”, si prova una serie di sensazioni: desolazione, solitudine, rassegnazione. Pare di scorgere distese glaciali al cui orizzonte non sorge nessuno sole e non tramonta nessuna luna, dove non c’è vento se non quello per spazzare via i rimorsi. Una musica che nasce da un profondo raccoglimento prima interiore, di natura personale e umano, poi artistico.

Ma il contesto emotivo è solo uno dei capitoli del nuovo corso di subtractiveLAD. Quello che risalta dall’ascolto di "Where The Land Meets The Sky" è soprattutto la maturità del compositore canadese nel cesellare ogni singolo elemento nell’insieme. Limate certe asperità di rumore che ancora si affacciavano nei lavori precedenti (fra cui il precedente “Apparatus”), Hummel indovina la formula magica perché le sue ascensioni ambientali si tingano di immenso.

“Filament” e “Something Like A Star” si espandono senza peso con il fare trasognato di uno Steve Roach, sino a “Till The Break Of Day”, che come un ultimo sguardo rivolto verso le sponde di casa sprofonda nella pace di droni carichi di rimpianto e amarezza. Ma tutti i brani si fondano su spire di suoni dal fortissimo potere evocativo, che esaltano come non mai il talento di Hummel come fine scultore di suoni. Per questo non convince del tutto la sua scelta di affidarsi ancora nella maggior parte dei brani a ritmi che spesso rompono l’incanto invece di rafforzarlo. Ma l’artista canadese, come se lui stesso se ne rendesse conto, si supera nella seconda parte del lavoro, inoltrandosi senza remore in sterminate dilatazioni ambientali. Tre brani per quasi un’ora di durata, nuvole in viaggio verso l’orizzonte. Con serafica calma e profondissima bellezza, sulle tracce dei maestri, Guthrie, Roach, Budd.

Hummel si spinge così oltre i limiti delle sue precedenti esperienze, limiti dovuti al poco coraggio, a una sostanziale precisione di scrittura delle strutture e a dinamiche positive ma troppo ossequiose e prevedibili. Con rinnovato vigore in sede di composizione, Hummel è riuscito stavolta a mettere nero su bianco il suo lavoro più incisivo, in attesa di quel capolavoro che si sente essere alla sua portata.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Mauro Roma

lunedì 2 novembre 2009

Redshape: "The Dance Paradox" (Delsin, 2009)



Redshape è in fiamme, e non lo diciamo solo per la maschera rossa con cui si copre il volto. Sono ormai tre anni che l'uomo si aggira nel mondo della produzione di musica techno con l'aria di quello che non sta al gioco, che non si conforma facilmente, che non ti lascia sul piatto un dj tool come gli altri, a volte ti lascia sul piatto tutto tranne che un dj tool. Redshape che dall'angolare ep "Telefunk" gioca una partita a sé stante.

Finalmente Delsin (Aardvarck, Newworldaquarium, Quince, Future Beat Alliance) lancia nell'iperspazio "The Dance Paradox" ed è subito paranoia. Redshape ha abituato tutti i suoi ascoltatori a un taglio obliquo delle sue produzioni, un'attitudine che va aldilà del servilismo ritmico ma che punta deciso alla fascinazione e alla costruzione di geometrie alternative. Ci si aggira tra Chain Reaction e Warp con il fare intellettuale e anarchico targato UR, le bassline storte senza mai un vero epilogo dance, i synth modulati in continuazione e la perenne sensazione di essere immersi, letteralmente, dentro ad un liquido sonoro che avvolge sulle basse frequenze e che taglia netto sulla spettralità del suono.

Redshape è un produttore angosciante per come cura il proprio operato, ogni suono è gigantesco anche quando è un semplice bleep. Il punto massimo di intelligenza, non solo compositiva ma anche tecnica, è il dub di "Rorschach's Game" che naviga nelle profondità marine dei Drexciya, una marea si capovolge e risuona nel cervello in un half-step trapanato da una melodia che è risacca di altre melodie schiacciate e compresse finendo con l'abbandono dell'elettronica, per lasciare spazio all'umanità nervosa e scomposta di una vera batteria che drammatizza e chiude a riccio la composizione.

Convulsioni cinematiche si stagliano con algida sfrontatezza (lo stomp irrefrenabile di "Garage GT", colonna sonora cyber-punk in "Man Out Of Time"), mentre gli episodi più sviluppati si dilungano in digressioni dance con i fiocchi (il ritmo plastico di "Bound (Part 1 & 2)", lento intreccio di synth alienati per "Globe"). Il caldo sapore jazzato di alcune percussioni si trasforma in ossessione meccanica ("Dead Space Mix (Edit)"), la testa e la coda dell'album lasciano basiti per la perfezione con cui gli incastri ritmici riescono a rendersi funzionali in un contesto elettronico sostenuto. Sia "Seduce Me" che "Dark & Sticky" sono un'interpretazione elegiaca della struttura techno classica, non rivoltano né rivoluzionano, congiungono uno spirito di composizione scevro da pregiudizi o sterili gabbie stilistiche.

Membro di una scuola di nuovi pionieri intraprendenti, Redshape seziona il corpo techno-logico di questa musica e gli addiziona una componente passionale, carnale, perfino violenta. Un approccio così diretto e viscerale non può che produrre un prodotto solido, mutante, estremamente valido. "The Dance Paradox" travalica le divisioni di genere e si fa opera di musica totale, totalizzante, senza limiti.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Guidetti

lunedì 26 ottobre 2009

Obsil: "Distances" (Disasters By Choice, 2009)



Dopo circa tre anni di assenza, ricompare Giulio Aldinucci e il suo progetto Obsil. Lo splendido “Points” dava all’artista pochi margini di miglioramento; in quel caso il risultato si distingueva per rara sintesi stilistica e gusto compositivo. Sempre sotto l’ala protettrice della valida Disasters By Choice, etichetta romana diretta da Salvo Pinzone, “Distances” sviluppa le intuizioni del predecessore e le fa evolvere verso una forma ancor più sinuosa.

Rimasta intatta la forte componente pianistica e classica, il compositore toscano amalgama ancora di più la sua fantasia, riuscendo a mettere insieme bozzetti elettronici scribacchiati con una penna arcaica e misteriosa. Non è facile definire un calderone in cui vengono abilmente mescolate tentazioni improv, suoni sintetici di vecchia data, moderne tecniche di modellazione sonora digitale. Non ci si limita soltanto ad un’esposizione fredda e compiaciuta di un suono così ben impastato, anzi, la resa finale risulta profondamente personale. Le radici di questa autenticità si possono ricercare nella natura di tutti i field recordings utilizzati per decorare ogni traccia, infatti, il forte attaccamento con la propria terra d’origine (Val di Merse, Siena), hanno indotto Obsil a registrare ogni suono intorno alla propria abitazione.

Placidi ricami pianistici si stagliano con grazia (l’iniziale “Brucia; Reciso Luccicante”, l’incanto di “V.Santo”), mentre l’intreccio di contrappunti meccanici risplende un po’ ovunque (la glaciale “Gomitoli”, la presenza operistica falcidiata dai ricami glitch in “Sub Ficinulae”). La dolcezza, quando espressa con empatia, regala forti emozioni; la coda finale, formata dagli ultimi tre episodi, mette in sequenza un encomiabile colonna sonora coerente, mistica, incantata.

Senza eccedere in contorsioni cavillose o minutaggio logorroico, l’opera di Giulio Aldinucci si distingue per incisività, garbo e sviluppo originale. Una punta di diamante per la scena sperimentale italiana, un esempio da ricalcare per ogni mestierante musicale che ha intenzione di fare arte “colta” per ogni palato.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 13 ottobre 2009

Midaircondo: "Curtain Call" (Twin Seed Recordings, 2009)



Persa per strada una delle componenti (Malin Dahlström) della formazione originaria, le Midaircondo riprendono in mano il loro corso artistico dopo ben quattro anni di silenzio. Lo splendido "Shopping For Images", datato 2005, aveva colto gli appassionati impreparati. La sapiente mistura fra seduzione visiva e suono innovativo si rivelò una scelta azzeccata, tanto che la band si incamminò in un tour mondiale ben accolto. La presenza scenica delle tre ragazze contribuì alla proposizione di performance dal grande interesse artistico.

Il presente si poggia sulla creatività delle due ragazze rimaste e non registra cambiamenti rispetto al passato; la band, infatti, riallaccia un filo conduttore che collega questo “Curtain Call” con il precedente. Siamo sempre in presenza di un pop astratto, contorto, spesso avvolto su sé stesso. Una formula musicale desueta, trasognata e naif. Il ritmo, quando presente, viene risucchiato da un flusso melodico anomalo che trasforma un semplice beat elettronico in ossessioni timbriche inquietanti. Lo scorrere delle tracce alterna frangenti strumentali dal carattere sperimentale ed episodi cantati più accessibili. Questa caratteristica, già presente nel precedente disco, aiuta a rendere il tutto più sopportabile anche da chi non è abituato a toni rarefatti e distaccati.

Flessuosi corto-circuiti ambient scorrono complessi e avviluppati (la title track e la breve “Below”), mentre gli ingranaggi pop producono fluorescenze accecanti (la contorsione strutturale di “Come With Me”, il loop a tratti ipnotico sovrasta la voce in “Bringing Me Home”). Le interazioni fra il sottofondo elettro-acustico e la voce sono un punto di forza che viene sfruttato con risultati eccezionali (la languida solitudine di “Reports On The Horizon” e “The Very Eye Of Night”, i samples e il ritmo caracollante in “Silk, Silver And Stone”), mentre il carattere sfrontato di questa musica viene fuori quando la coppia lascia andare la fantasia (l’incedere percussivo di “Glowing Red”, il vortice di voci in “Revolve And Repeat”, memore della lezione di AGF).

Conclusosi con i colori sfavillanti di “Venetian Veil” ed intervallato dalla compostezza di “Stay”, il ritorno delle Midaircondo risveglia dal torpore un suono che pareva perso per strada. Lo splendore di certa musica d’avanguardia celestiale (vedi la grazia di Colleen), mai appannato anche se lasciato da parte, si riappropia della sua meritata attenzione con un’opera sapiente, colma di inventiva e decisamente godibile.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 22 settembre 2009

Dokkemand: "Hons!" (Other Electricites, 2009)



L’uso di strumentazione elettronica all’interno di canzoni pop è ormai una pratica consueta. La capacità di tramutare questo elemento da mezzo a parte integrante è un passo in più che l’artista decide di mettere in atto. Usare i ritmi meccanici o le melodie dei synth non come ornamento, bensì come meccanismi fondamentali, permette di far risaltare peculiarità altrimenti solo accennate. Queste sono le linee-guida del lavoro di Dokkemand, esordiente proveniente dalla Norvegia. Nonostante la maggior parte dei brani contenuti in “Høns!” sia strumentale, la sensazione è quella di assistere alla messa in opera di un vero lavoro “elettronico” applicato a melodie pop, siano esse cantate o meno.

La disinvoltura con cui l’artista mette insieme strutture idm, pop elettronico e break-beat rende una minima idea della statura di “Høns!”. Il suo punto di forza risiede nella pluralità di riferimenti, nella cura dei dettagli della resa sonora e, soprattutto, in un gusto dell’arrangiamento nordico, comune a fantasie pop, come nel caso dei Royksopp. Delicate intarsiature pop si rivelano veri gioielli (“Lupe” annovera alla voce Kate Havnevik, “Laap” e “Knapp” incantano per i toni giocosi), strumentali a metà fra break-beat e ambient-pop mostrano solidità compositiva (i colori sfavillanti di “Kanaria”, atmosfere rarefatte in “Eike” e “Slapp”). I richiami all’indie-tronica classica vengono fuori con gli episodi più composti (le timide contrazioni di “Klokka Er 76”, il piglio agitato di “Stempel”), mentre un lato inedito e più corrosivo mette in discussione l’identità stessa del progetto (l’intreccio quasi electro di “Hest”).

Dokkemand si guadagna un attestato di fiducia per il lodevole sforzo nello sperimentare soluzioni nuove o quantomeno interessanti. “Høns!” è un album compatto, divertente e frizzante, qualità sufficienti per renderlo una prova superiore alla media.


(7)

recensione di Alessandro Biancalana

sabato 29 agosto 2009

Takeo Toyama: "Etudes" (Karaoke Kalk, 2009)



Discepolo di una stirpe folta e ben attrezzata, Takeo Toyama esordisce con un’opera che profuma di tradizione e incanto. Affascinato dal jazz pianistico e da ritmi minimalisti, il giapponese mette insieme un disco delicato, composto con acume e curato nei minimi particolari. Per certi versi simile al connazionale Lullatone, “Etudes” sprigiona una libertà stilistica contagiosa, capace di transitare con sensatezza da un genere all’altro senza perdere in coesione. Non c’è una definizione precisa da forgiare per questa musica, si tratta per sua natura di un’entità sonora sospesa in aria, candita da melodie che sono a metà fra pop ambientale elettronico e marcette classiche post-moderne.

La sensazione di ascoltare la colonna sonora di un teatrino sconclusionato è più che plausibile (i singulti delle varie “Troll”, “Leo”, “Tuner” e “Bobbin”), mentre si rimane perfino disorientati dalla bellezza dei quadretti magniloquenti (la solitudine del piano in “Stitch”, i field-recordings infantili di “Tremolo”, gli intrecci di violoncello in “Gauche” e “Drops” ). Mentre una gemma di j-pop flemmatico conclude il disco (i batti e ribatti fra cori e colpi di drum-machine in “Ugly Girl”), il resto del disco si divide fra ritmi incessanti (il caos di “Odd”), suoni pop solari e frizzanti (“Bobbin”), rimasugli di malinconia da espellere (una fisarmonica per “Hectopascal”).

“Etudes” si dimostra opera dalle tinte variegate, un sottile filo conduttore aiuta a collegare le dodici tracce e la loro versatilità. L’autore Takeo Toyama ha il garbo e l’esperienza di un compositore navigato, riesce ad affastellare umori antitetici e affascina con un tocco quasi naif. Un autentico fulmine a ciel sereno per chi ama i suoni provenienti dall’anima.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 28 agosto 2009

Flica: "Nocturnal" (Schole, 2008)



Le musiche dedicate alla notte hanno sempre una forte attrattiva. Già dal titolo, “Nocturnal”, evoca un viaggio attraverso confini di oscuri paesaggi con poca luce e molte tenebre. Il giapponese Euseng Seto (con alle spalle lo splendido “Windvane And Window”) riesce, attraverso la sua trasposizione musicale, a materializzare solo i sogni dolci, escludendo incubi o turbamenti notturni.

La mistura di musica classica da camera e delicatezze digitali è una formula abusata, a cui si concedono possibilità d’uscire dall’ovvietà solo nei casi più ispirati. Flica riesce nell’intento di esplorare un ambito nel quale è esperto esecutore da anni. “Nocturnal” è un album a cui non si possono muovere critiche. I flebili graticoli si poggiano su strutture classiche (perlopiù piano, ma anche chitarra e qualche percussione metallica), il decoro elettronico spazia con disinvoltura fra l’ambient, nei fragenti più distesi, e l’idm classica, quando il ritmo si fa più sostenuto.

Melodie fiabesche incantano per la grazia emanata (le delicate intarsiature di “All”, ricami quasi impalpabili per “Well”), negli intervalli più propriamente ambientali la batteria elettronica prende il sopravvento (il beat sognante di “Mid”, drum-machine puntuale per “Walk”). La completa riuscita delle composizioni è affidata all’ispirazione con cui le note del piano vengono impostate. La capacità dell’autore di creare le melodie portanti è davvero positiva.

Mentre arrangiamenti orchestrali di pregio incantano con grazia (l’incedere sommesso di “Light”, miniature gentili per “Find”), si viene avvolti dalla perfezione della seconda parte del disco (l’ipnotica “Fucir”, le policromie toniche di “Back”), conclusa con maestria da “Yi”. Al suo interno tutti gli elementi di “Nocturnal” collassano su sé stessi. Un flusso di cori in sottofondo, coadiuvato da uno strato di batteria, viene abilmente fuso con bollicine elettroniche e imperfezioni di contorno.

Flica, giunto a un punto cruciale della sua carriera, mette nero su bianco le sue doti con grande umiltà. Opera di forte empatia, “Nocturnal” rivela sensibilità e una visione incantata della realtà.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Kashiwa Daisuke: "5 dec." (Noble, 2009)



La scuola elettronica dei giovani giapponesi amanti della composizione annovera talenti dall’ispirazione illimitata. Proveniente da un ambiente culturale stimolante e vitale, questa schiera di giovani artisti conta la presenza di componenti dalla preparazione differente. Kashiwa Daisuke possiede un background infrasettoriale, capace di far convivere anima elettronica marcata e uno spirito d’inventiva fra i più vividi. Una frazione classica è il comune denominatore di questa formula frastagliata di digital-art, il tocco di una nota di piano o lo sbaffo di un violino fuori fase sono un decoro a tratti decisivo.

“5 dec.” è un frullatore in cortocircuito, misture di breakbeat impazzito prendono corpo per poi deformarsi in una strana formula di musica da camera destabilizzata e straniante. Intelaiature digitali cristalline gocciolano malinconia e desolazione (le screziature di “About Moonlight”, miscele di melodie pianistiche per “Silver Moon”), i frangenti più sostenuti non cadono nel tranello della monotonia ritmica ma variano schema compositivo più e più volte (l’animo incontenibile di “Aqua Regia”, un gelido flusso di toni per “Bogus Music”).

Le ombre di un impalpabile drone sono solcate da infrastrutture gentili e morbide (l’apparente inconsistenza di “Broken Device” e “Red Moon”), una cascata di note intrecciate con mano sapiente mostra un’artista con precisi obiettivi finali (salde strutture idm in “Silver Moon”, il geniale approccio hardcore all’arte del cut’n’paste di “Requiem”). Fra sprazzi taglienti di musica industriale acidula (l’assalto di toni screziati di “Taurus Prelude”, il finale cacofonico in “Beatiful Sunday”) si frappone un episodio dai profumi quasi pop (le sfumature techno-pop di “Black Lie, White Lie”).

Senza smarrire la direzione di un teatrino sull’orlo della disfatta, Kashiwa riesce nell’impresa di portare a termine un disco a tratti esaltante. “5 dec.” si mette in una posizione di rilievo grazie alla proposta varia, fruibile e congegnata con freschezza. A questo punto, il prossimo passo da percorrere è una decisiva riunione delle idee per comporre il decisivo assalto al panorama occidentale degli appassionati di musica elettronica.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 26 agosto 2009

Pumajaw: "Favourites" (Fire Records, 2009)



Il mistico incontro fra musiche spesso divise da tradizioni e radici differenti è oggetto di interesse a prescindere dal risultato finale. In qualsiasi contesto musicale (musica popolare, avanguardia, elettronica), le intenzioni dell’artista debbono essere soppesate in contrapposizione con la fattibilità del progetto iniziale. I Pumajaw, misconosciuta band proveniente dalla Scozia, si misurano con una sfida ambiziosa. I due componenti Pinkie Maclure e John Wills mettono alla prova la loro identità artistica, coinvolti in un’esperienza profondamente personale.

“Favourites” è un album dalle duplici interpretazioni. Ammantato da un cupo contenitore di folk oppresso e malinconico, le interiora sono composte da una mistura complessa di trip-hop, elettronica e dream-pop. Nonostante l’atmosfera perennemente plumbea ed emaciata, il continuo cambio di registro compositivo aiuta le quattordici tracce a scorrere stimolando l’interesse del fruitore.

Contorte colonne sonore si intrecciano in reticoli dub seducenti (il downtempo malato di “Sorcery”, la  ballata oppiacea “Sweet Kind Of Suffering”), il minimalismo scheletrico si inserisce a metà fra blues notturno e dream-pop (l’andamento caracollante di “The Weird Light”, profonda desolazione melodica per "Memorial Crossing"). Spore di matrice folk mettono in fila nenie ipnotiche (il ritornello ossessivo di “The Bending Wood”, il gelo fra le maglie di una chitarra ed una fisarmonica per “Buttons” e “I Take The Long Way Around”), gracili infrastrutture elettroniche si intromettono con garbo (la commovente malinconia di “Harbour Song”, beat muscolari in perfetta armonia con la voce sinuosa della Maclure per “Stranded”).

La recitazione passionale dai tratti funerei ricama episodi ai confini con la tradizione dark (il lento di incedere di “Frozen In Sleep”, isterie mistiche per “Outside It Blows” ), mentre la corposità della sezione ritmica mostra cura nei dettagli (colloquio forsennato fra batteria e tromba in “We Spin”, delicati ricami di xilofono e percussioni per “Downstream”).

Per accedere nel cuore pulsante di “Favourites” sono necessari passione e amore per la musica. Una musica che trascende dalle trincee del genere e sovrasta ogni pregiudizio di stile. L’opera dei Pumajaw è un puro omaggio all’arte senza limiti, contaminata, plasmata e concepita solo con l’ausilio di un’urgenza espressiva immacolata.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Ebony Bones: "Bones Of My Bones" (Sunday Best, 2009)



Il trend inaugurato da M.I.A. e proseguito con Santogold, giusto per citare i nomi più conosciuti, ha generato proseliti e appassionati un po’ ovunque. La londinese Ebony Bones riprende in mano la sconclusionata mistura di reggae, funk ed elettronica mischiando le carte per variare un canovaccio ormai consolidato. Capace di evoluzioni al limite del crossover, la ragazza merita attenzione per il coraggio con cui riversa le sue idee.

“Bone Of My Bones” è un album zeppo di trovate interessanti, trasuda trasporto per la musica e si rivela prodotto di forte impatto commerciale. Complice un periodo di affollamento nelle uscite discografiche, gli è stata dedicata poca attenzione. Nonostante l’approccio decisamente passionale alla composizione, il disco non perde in coesione, anzi, il suo stile improntato alla fusione di varie tendenze produce un risultato frizzante e appetibile. Il lavoro di fino sul ritmo produce pop-song incontenibili (la sfrenata “W.A.R.R.I.O.R”, le poliritmie di “We Know All About U”), mentre l’uso dell’elettronica è misurato e ben congegnato (i synth taglienti di “Story Of St. Ockwell”, vortici meccanici senza freni per “In G.O.D. We Trust”).

Oltre la parte strumentale, in certi casi sorprende anche la facilità con cui i ritornelli rimangono impressi; in questi casi l'artista dimostra capacità vocali notevoli (i repentini cambi di tonalità in “The Musik”, effluvio di emozioni per “Guess We’ll Always Have New York”).

L’approccio da party-music colpisce nel segno senza strafare (la fanfara sconclusionata di “When It Rains”, groove trascinante per “Were Ready When You Are”), mentre la mistura fra rock da strada e strutture dance non mostra cedimenti (tribalismi variegati in “Dont Fart On My Heart”, i perfetti incastri timbrici di “Im Yr Future X Wife”). Completa il disco un interessante intreccio fra hip-hop e techno-pop (“Smiles & Cyanide”).

Album adatto per le giornate assolate di un’estate rovente, “Bone Of My Bones” sviluppa nuove vie d’uscita per un filone che a tratti sembrava aver esaurito le proprie potenzialità.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Chairlift: "Does You Inspire You" (Kanine, 2009)



Masticare generi consolidati più di venti anni fa è una tentazione con cui molti gruppi si sono confrontati. In particolare, la rivisitazione di quel wave-pop screziato da intrusioni elettroniche è stata pratica spesso sperimentata. I Chairlift esplorano territori molto noti e proprio per questo mettono in gioco la loro carriera discografia già dall’esordio. Capaci di fondere insieme synth-pop, tradizione wave e sprizzi di indie-pop, il gruppo di Brooklyn raggiunge in certi frangenti un’originalità colorata.

“Does You Inspire You” è un disco scorrevole, composto con acume e controllo dei mezzi. L’intreccio delle due voci maschili e femminili, oltre a un uso spiccato di elettronica e chitarra effettata, sono elementi ulteriori che arricchiscono undici tracce mai uguali a sé stesse. La continua varietà umorale delle canzoni è la ciliegina sulla torta; veniamo condotti durante tutto il disco da una giostra forsennata, incapace di sostare anche solo per un attimo.

Spirali di pop al vetriolo trasudano tensione e fascino (l’incipit pulsante, quasi funk, di “Garbage”, la tormentata “Earwig Town”), fragili litanie recitate con flemma donano ai minuti un tocco etnico (“Planet Health”, che pare venir fuori da “Gentlemen Take Polaroids”, l’ambient-pop vibrante di “Somewhere Around Here”). La grazia di gemme pop immacolate raggiunge vette di pura eccellenza (la sorprendente bellezza di “Bruises”, i saliscendi irresistibili di “Make Your Mind Up”), nei frangenti in cui l’uso dell’elettronica diventa portante, la tenuta della struttura è invidiabile (Soft Cell ansiolitici in “Evident Utensil”, i gorghi sintetici di “Territory”).

Giocata la carta della ballata scheletrica con voce riverberata (“Don’t Give A Damn”), con la coda finale composta da uno strumentale poggiato su un ectoplasma di tromba (“Chameloen Closet”), giunge il commiato perfetto. “Ceiling Wax” si ricongiunge con tradizioni ormai perdute, collega idealmente l’afflato sottomesso delle recitazioni di Hope Sandoval con le tentazioni dei già lodati Antenne. L’unico suo difetto è la durata ridotta; se l’idea di base fosse più sviluppata, saremmo di fronte a una signora canzone.

I Chairlift hanno messo sul piatto un misto succolento: coraggio, ispirazione, sfrontatezza e talento. Il risultato che ne viene fuori è una pietanza dai sapori variegati, a suo modo golosa e seducente, la cui mutevole attrattiva richiamerà avventori fra i più disparati. In questo momento “Does You Inspire You” non attende altro che essere assaggiato, consumato e valutato.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

mercoledì 22 luglio 2009

DJ Hell: "Teufelswerk" (Gigolo Records, 2009)



Magnate discografico, simbolo dell’estetica del clubbing internazionale, freddo imprenditore e scrupoloso responsabile di un mostro come la Gigolo Records. Dj Hell è tutto questo e molto altro ancora. Negli ultimi anni il tedesco ha fatto parlare di sé soprattutto per la gestione scriteriata degli artisti legati contrattualmente alla sua etichetta. In sostanza, si parla di ricavi di pubblicazione miseri e trattenute sul compenso finale da capogiro, a testimonianza di ciò non è raro incappare in un’intervista in cui si critica Dj Hell come imprenditore.

Lasciati da parte i rumors extra-musicali veniamo a “Teufelswerk”. L’artista tedesco non pubblica un album di composizioni originali dal 2003, anno di rilascio dell’ottimo “N.Y. Muscle”. In quel periodo il suono dell’album venne a galla per la sua ruvidezza scabrosa e metallica, capace di mescolare sembianze electro-clash e un sapiente uso delle partecipazioni vocali, in particolare quella di Alan Vega. Trascorsi ben sei anni, il presente si incentra su un suono compatto, progressivo e decisamente curato. Il disco - con tracce (quasi) sempre oltre i sei minuti, - mostra un compositore maturo, furbo e attento alle tendenze, con le capacità giuste per cogliere un’ampia fetta di mercato.

L’opera si suddivide in due cd speculari ed eterogenei. Il primo si concerta su una formula sovraccaricata di techno muscolare ma contenuta, congegnata con l’aggiunta di profumi house soffusi e seducenti. La tradizione del suono “tedesco” viene preservata a partire dagli incastri ritmici secchi taglienti, passando per le tastiere programmate con un retrogusto decisamente kraut. Le canzoni si tramutano in narrazioni notturne ossessive dal nascere (le convulsioni di Bryan Ferry nei colori pop di “U Can Dance”, il testamento prolisso e minimale di Puff Daddy in “The DJ” ), gli strumentali mostrano audacia e strutture melodiche di forte impronta technoide (i richiami kraftwerkiani di “Electronic Germany”, i sorprendenti dieci minuti di oblio nella meccanica “The Disaster”).

Nonostante un’ortodossia di fondo, le restanti tracce si districano con efficacia in trame di non facile realizzazione, mescolando classe con trovate inedite (il raffinato quadretto progressive-house “Wonderland”, la vivace trance-techno di “Hellracer”), cesellando raffinati tappeti sintetici  (“Bodyfarm²”) ma anche episodi da pista molto oscuri (“Friday, Saturday, Sunday”).

La seconda parte di “Teufelswerk”, nonostante il diretto collegamento con la prima, si scioglie con un andamento più disteso. Laddove prima c’erano beat precisi e sostenuti, qui si inserisce un comparto ritmico meno invadente, coadiuvato da contorni inediti come la chitarra (la lunga e sexy “The Angst & The Angst Pt 2”) o campioni presi in prestito (una partitura di Slava Tsukerman dal film “Liquid Sky“ in “Nightclubbing”). Purtroppo, se da un lato questo approccio può portare a risultati di tutto rispetto (la suite movimentata di “Germania”), in altri casi si attesta a metà fra sperimentazione e dubbia destrutturazione (l’incomprensibile ambient-music slacciata in “Carte Blanche”).

Dopo un fugace ritorno alla pista da ballo (le due mine vaganti “I Prefer Women To Men Anyway” e “Hell's Kitchen”), Dj Hell conclude l’opera con l’inclassificabile pop di “Silver Machine”, cantato da Marsmobil aka Roberto Di Gioia.

Tirando le somme, siamo di fronte a un ritorno di grande classe. Dj Hell, da asso della club-music quale è, scomoda la sua penna raramente, ma quando inizia non c’è scampo per nessuno. “Teufelswerk” si mostra opera complessa, articolata, minuziosa, mai opulenta o eccessiva. Un’autentica raccolta di frangenti da trasporre ai posteri, utile per esemplificare la composizione della disco-music con una concezione ad ampio respiro.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

giovedì 25 giugno 2009

Boxcutter: "Arecibo Message" (Planet Mu, 2009)



Fra i numerosi antesignani del dubstep, Boxcutter è stato quello meno invasivo e ricoperto di elogi. Costruita una solida base di rispettabilità con due album poco meno che ottimi ("Oneiric", "Glyphic"), il ragazzo irlandese rilascia la terza prova in quattro anni di carriera. Barry Lynn (questo il suo nome di battesimo), nonostante rimanga saldamente ancorato alla propria indole dubstep, ingloba corpose influenze prima d’ora soltanto sfiorate. I ritmi, spesso sconnessi e accelerati, danno sfogo a tendenze break-beat di grande levatura; le scheletriche trame melodiche, incorniciate in uno schema ben stabilito, strizzano l’occhio alla classica battuta precisa dell’IDM, senza contare i vaghi sentori della acid più classica presenti un po’ ovunque a macchie fra le tredici tracce.

“Arecibo Message” è un calderone variegato e mai dispersivo, una caduta repentina in un tunnel oscuro e marcio, la definitiva deflagrazione di un’elettronica post-moderna che ha perso il controllo di sé stessa a tal punto da sfigurarsi fino a diventare irriconoscibile. Un sapiente lavoro di riciclaggio condotto con maestria e furbizia, contaminato con trovate miracolose.

Narrazioni spaziali mostrano un uso discreto della voce (gli incastri scintillanti della title-track, il funk robotico di “A Familiar Sound”), flussi timbrici oscuri prendono il sopravvento (il break-beat plastico di “Sidetrack”, movenze sinuose per “Mya Rave”). Bassi gommosi ed elastici sono l’elemento d’unione della parte centrale del disco (“S P A C E B A S S”, “Arcadia 202”, “Old School Astronomy”), mentre vortici digitali impazziscono indomiti (“Free House Acid” è vero anthem apocalittico, “Sidereal Day” si mostra più solare ma non meno intricata).

I profumi house di “Lamb Post Funk” sono una colorata sintesi pop dell’arte di Boxcutter, ulteriore conferma del potenziale appena accennato in quattro anni scarsi di carriera. “Kab 28” è un tributo alla drum’n’bass classica, mentre “A Cosmic Parent” conclude il disco con un tocco di malinconia ossessiva.

Grande appassionato delle tendenze in ambito elettronico, Barry Lynn mette insieme una musica che rispecchia una visione distorta e malata del suo mondo, musicando una realtà vicina solo alla sua immaginazione.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

venerdì 5 giugno 2009

Sin Fang Bous: "Clangour" (Morr Music, 2009)



Il delicato e prezioso “The Ghost That Carried Us Away” della band islandese Seabear aveva rapito gli amanti del folk-pop più curiosi ed esigenti. Il loro creatore, Sindri Már Sigfússon, riversa la grande quantità di materiale ideato in un’opera composta, suonata, prodotta e confezionata completamente da lui.

Ancora sotto l’ala protettrice della benemerita Morr Music, il disco ricopre una fascia di mercato molto ampia. Adatto ai nostalgici dell’indie-tronica classica, le composizioni qui presenti si conciliano con un tono di sperimentazione molto ardito che sarà apprezzato anche dai palati più rigorosi. Come dichiarato dallo stesso artista in una recente intervista, il fulcro di questo disco è la sua fantasia, più precisamente l’esposizione del lato più folle e creativo. Effettivamente ascoltando le undici tracce si ha una sensazione di introdursi un luogo incantato musicato da una colonna sonora frizzante, briosa e colorata. La vera natura dell’artista viene messa in gioco in una sfida ad armi pari con le proprie possibilità, sfruttando fino in fondo estro, coerenza e sregolatezza.

Il contenuto di “Clangour” si distingue dalla pletora di pubblicazioni per la sua sorprendente varietà; la facilità con cui rimane impresso fra ritornelli azzeccati e ritmi inusuali gioca un fattore determinante. C’è un continuo passaggio da toni riverenti e distesi (la nenia fiabesca di “Sunken Ship”, progressioni martellanti e ossessive per “Clangour And Flutes”), strappi melodici fulminanti (la folgorante “Advent In Ives Garden”, il caos ordinato di “The Jubille Choruses”). Il tono asciutto con cui la chiara matrice folk di questa musica viene contaminata con altre influenze è il maggior pregio, peraltro coadiuvato da una discreta scorrevolezza che non fa incagliare il prosieguo anche nei frangenti più ostici.

La sapiente gestione della ritmicità serrata corrisponde al passo decisivo verso un risultato decisamente interessante. Giocando alla gara delle citazioni potremo mettere insieme sprazzi degli Animal Collective più pop, il folk di matrice classica leggermente screziato (Jason Molina) e un'uso discreto della tecnologia, dall’elettronica presente un po’ ovunque fino alla precisa e puntuale produzione finale. Fra le trame di una ballata canonica udiamo clangori elettrici lancinanti (“Melt Down The Knives”), il pacato flusso di un banjo finisce per essere sopraffatto da una drum-machine insistente (“We Belong”), la freschezza di una graziosa canzone pop ci concilia la felicità (“Carry Me Up To Smell Pine”).

Il rullante di una batteria palpita fra le righe di una voce sussurrata e poi urlata (“A Fire To Sleep In"), cori e note di chitarra si mescolano alla rinfusa su un tappeto di battiti e sospiri (“Fafafa”), una coppia di canzoni unita da un legame fatto di passione e incanto sfuma in una conclusione placida e mistica (le due gemme di folk-pop contaminato “Poirot” e “Lies”).

Fra le più fantasiose e succose proposte del mercato indipendente europeo, “Clangour” si dimostra fulgido esempio dalle molteplici interpretazioni. La curiosità e le aspettative per il successore sono elevate, la possibilità che ne venga fuori un qualcosa di inedito sono molto alte.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 18 maggio 2009

Camera Obscura: "My Maudlin Career" (4AD, 2009)



L’arrivo della freschezza primaverile necessita di suoni frizzanti e solari, a tal proposito la nuova prova di Camera Obscura esce nei negozi nel momento più propizio. Il precedente “Let’s Get Out Of This Country” aveva condito la calda estate del 2006 con la sua variopinta collezione di intoccabili canzoncine pop, chiudendo il cerchio di una compiutezza stilistica tracciato dalla band fin dalla prima prova rilasciata nel 2001. I tre anni che separano “My Maudlin Career” con il predecessore sono stati spesi girovagando per il globo, proponendo concerti esplosivi e decisamente divertenti. La performance del luglio 2008 a Bologna ne è un esempio lampante; l’esecuzione in quel caso fu precisa e rispettosa verso gli originali con rimaneggiamenti che coinvolgevano lunghezza e cantato.

Lasciata intatta la formula a base di country-pop scanzonato, il gruppo riversa tutte le sue potenzialità nelle nuove undici canzoni con dedizione encomiabile. Melodie incontenibili centrifugate con una ritmicità innata, arricchite dalla voce profonda di Tracyanne Campbell, leader affermata del gruppo e chitarrista d’eccellente versatilità. Senza accusare apparenti crisi d’identità o d’ispirazione, l’usuale teatrino prende il via senza indugi.

Arrangiamenti classici condiscono con la loro magnificenza una struttura ben collaudata (la bellezza immacolata dell’incipit “French Navy”, i vortici irresistibili di “The Sweetest Thing”), chitarre polverose e un testo da leggere sono gli elementi degli episodi più scarni (l’afflato romantico di “Away With Murder”, un rullante accarezzato scuote gli animi in “James”). L’eterogeneità  permette cambi di tono molto decisi, utile per non appiattire eccessivamente lo scorrere dei brani. Questa scelta aiuta ad apprezzare sia i frangenti propriamente pop, come del resto quelli con un andamento più posato. Cogliendo con casualità troviamo gemme appartate dal sapore malinconico (il piglio strascicato di “You Told A Lie”, la solarità magniloquente in “Careless Love”) e singoli dalla forte impronta radiofonica (i toni sopra le righe di “Swans”, la title-track, flemmatica e carica di tensione).

Dopo un duetto all’insegna dell’essenzialità (chitarra-voce per “Other Towns And Cities”, il racconto per un road movie in riva al mare di “Forests And Sands”) conclude il disco una fanfara fiatistica in perfetto stile big band, attimo che suggella la conclusione con grande pathos (“Honey In The Sun”).

“My Maudlin Career” mette in campo una genuinità pop a cui non si possono muovere critiche, ogni tassello è al posto giusto, inoltre il tocco di varietà dona al disco un appeal irresistibile. L’unica colpa che si può imputare al collettivo riguarda l’apparente staticità del percorso evolutivo, tuttavia scrutando a fondo ogni singola canzone si possono scovare motivi d’interesse non indifferenti. Le stagioni scorrono e i colori tardo primaverili si concilieranno al bacio con le undici canzoni qui presenti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Barbara Morgenstern: "BM" (Monika, 2008)





La carriera solista di Barbara Morgenstern giunge a compiere dieci anni con il rilascio di un album passato in sordina fra gli appassionati. Fin dalla pubblicazione, sul finire del 1997, del primo mini-album intitolato “Plastikreport”, l’artista ha sviscerato una materia trasversale, mescolando inclinazioni di tipica matrice tedesca (techno) con la sopraffina precisione del pop maturo dei grandi autori europei. Capaci di attraversare tendenze assorbendone le qualità, per poi abbandonarle subito dopo, le sue produzioni si sono distinte per una continua ricerca melodica, ritmica e tonale. La sua voce, attorniata da suoni secchi e concisi, riesce nell’impresa di far risultare piacevole il cantato in tedesco, usualmente non molto apprezzato al di fuori degli appassionati della lingua teutonica. Un’ugola dolce, minuziosa, a tratti perfino presuntuosa nella sua ricercatezza.

“BM” riassume e concentra tutti gli elementi della musica della Morgenstern compiendo un ulteriore passo verso la definitiva consacrazione. Se un disco come “Tesri”, in coppia con Robert Lippok, si faceva apprezzare senza esagerare, ancorato com'era ai canoni del pop elettronico tedesco, le nuove canzoni si slegano da un contesto risaputo per sbocciare in un campionario rigenerato da una revisione completa dei dettagli compositivi. L’uso dell’elettronica viene dosato con perizia, senza sovrabbondare, per decorare gli acquerelli della chitarra o del piano, evidenziando impegno e cura dei particolari. Le progressioni, spesso usate per sviluppare la trama melodica con delicatezza e tatto, sono un metodo sempre efficace, soprattutto negli episodi pop con una durata superiore ai cinque minuti. Da premiare su tutta la durata le splendide partiture di piano, mai troppo magniloquenti né invasive, raffinate e perfettamente calate nella fine atmosfera delle tracce (esemplare lo strumentale “Für Luise”, come del resto il piano-pop “Camouflage”).

Tutti questi componenti vanno a formare un puzzle difficilmente ripetibile, un vero mosaico realizzato a regola d’arte.

Policromie d’alta scuola si intersecano con risultati a tratti superbi (l’intreccio fra tastiere e piano di “Driving My Car”, duetto fra chitarra e vibrafono in “Come To Berlin”), il ritmo spesso nasce dal niente per poi tramutarsi in un’esplosione timbrica quasi orchestrale (da manuale “Reich & Berühmt” e “Deine Geschichte”). Il perfetto connubio fra classicità e moderno approccio al songwriting splende in tutto il suo fervore, giungendo a una quadratura del cerchio senza sbavature.

Gocce di melodia oppressa si distendono con risvolti ombrosi (la rarefatta “Jakarta”, le gracili strutture di “Hochhau”), l’acidità electro funge da diversivo per la parte centrale dell’opera (il techno-pop indomabile di “Morbus Basedow”, la corta “My Velocity”). Da incorniciare le tenere scuciture minimaliste della composizione senza voce che chiude il disco, un vago miscuglio di improvvisazione cameristica e sinistre influenze dark-ambient.

Rimasti altri colpi di coda dal sapore amarognolo (fendenti di violoncello in “Monokultur”, svisate avant-pop su “Meine Aufgabe”), non resta altro se non plaudire l’essenza di “BM”. Nonostante siano passati diversi mesi dall’uscita dell’opera, risulta doveroso riconoscere i meriti della Morgenstern, arrivata a un punto cruciale del suo percorso artistico, con un album che getta le basi per sviluppi ancor più sorprendenti.

(7,5)

recensione di alessandro biancalana

lunedì 11 maggio 2009

Harmonic313: "When Machines Exceed Human Intelligence" (Warp, 2009)



Quando le macchine superarono l'intelligenza umana: un titolo programmatico. Un manifesto, quasi. Gli strumenti che prendono il sopravvento, la tecnologia che vince sul tecnico, la creatura che fagocita il creatore. Sarebbe lo scenario perfetto per un film sci-fi anni 80, oppure per un fumetto di Miguel Angel Martin. Invece, il futuro cupo e senza speranza lo racconta un disco, il primo sulla lunga distanza di Harmonic 313, moniker dietro al quale si cela Mark Pritchard (compagno storico di Tom Middleton nei Global Communication, aka la storia dell'elettronica anni 90). E lo racconta coniugandolo in una lingua nuova, la lingua della cultura underground londinese, la lingua dell'emergente wonky beats, o qualsiasi altro nomignolo si voglia puntare su questa realtà figlia del dubstep e dell'hip-hop, nipote della jungle e della drum'n'bass. Praticamente, un bombardamento a grappolo di bassi grassi, profondi, quasi senza soluzione di continuità, su cui l'artigiano Pritchard costruisce il proprio castello di beat e melodie al synth, con un mood tra breakbeat e house.

Ascoltando il disco, la prima immagine che viene in mente è la copertina: quel ghigno robotico che non è nient'altro che un artefatto della nostra mente, mentre ci fissa algido e impassibile nella sua incontestabile logica. Ce lo immaginiamo mentre pronuncia l'intro di "Word Problems", a metà tra reale e virtuale; oppure mentre supera definitivamente l'intelligenza umana scoprendo le emozioni, così diverse però dalle nostre, quasi delle fredde sequenze di dati da analizzare secondo una prassi precisa ("Falling Away"). Perché per la durata dell'intero disco, Pritchard racconta la propria storia futuribile con una capacità cinematografica impressionante, come se al posto delle parole ci fossero i synth storti, al posto della punteggiatura i beat e le bassline.

L’assetto privo di aperture prettamente melodiche, relegate al sottofondo o martoriate con veemenza, riduce il contatto con l’ascoltatore che si limita ad assistere ammutolito. La perizia della resa glaciale dei suoni è a tratti superba (la progressione matematica di “No Way Out”, i contraccolpi sonici presenti in “Cyclotron”), il complesso intreccio di partiture compositive raggiunge risultati disorientanti (stratificazioni multiple per “Köln”, le colorazioni variegate della pimpante “Galag-A”).

Il ritmo incalzante e adrenalinico prende piede forgiando cortocircuiti digitali ossessionanti, sotto forma di hip-hop (“Battlestar”) o di piccoli divertissment da un minuto (“Cyclotron C64 Sid”).

L’anima di questa musica, avulsa da un contesto empatico, mostra tutta la sua impassibilità con sfrontatezza e distacco, silurando il fruitore con ritmiche scheletriche e suoni aridi (esemplare “Call To Arms” e soprattutto “Flaash”). Risulta sterile o quantomeno cavilloso ricercare una definizione per un agglomerato di bit così perfettamente impastato (i sei minuti di “Quadrant 3” sono quanto di più indefinibile), lasciando da parte il lato analitico per un momento, va privilegiato un ascolto disincantato e attento.

Viene da chiedersi se le macchine riusciranno mai a sostituire l'uomo, se sia proprio la tecnologia che creiamo la prossima tappa dell'evoluzione. A questi quesiti Pritchard non dà risposte, cerca solamente di narrare un racconto futurista (e futuribile) musicale; e come i grandi autori, lo fa utilizzando i mezzi espressivi e comunicativi del proprio periodo.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Mattia Braida

AGF/DELAY: "Symptoms" (Bpitch Control, 2009)




Lo scrosciare di un tuono irrompe un attimo prima dell’incessante beat in apertura di album, in un’atmosfera lugubre e ottenebrante, che occlude ogni spiraglio di solarità pop. Ad accogliere il nuovo sodalizio del duo, coppia ormai anche nella vita reale, è la BPitch Control di Ellen Allien, etichetta che nel nuovo anno ha già licenziato l’ottimo “Immolate Yourself” degli sfortunati Telefon Tel Aviv. Dalla pubblicazione di “Explode” sono passati quasi quattro anni, lasso di tempo in cui Agf ha proseguito un personale tragitto di sperimentazione, incentrato sull’uso estremo della “voce” e degli ambienti (sonorizzazione di chiese, effettuata anche a Milano per audiovisiva), scarnificando l’elettronica ed elevandola a pura ed essenziale entità algebrica. Vladislav Delay, dal canto suo, ha fatto del minimalismo sonico il suo marchio di fabbrica, decorando le proprie creazioni a colpi di beat soffusi in salsa dub-ambientale.

Nella sua essenza multiforme, "Symptoms" gioca a stupire l’ascoltatore, mutando continuamente la sua natura, transitando con disinvoltura fra lidi mai troppo distanti fra loro: synth-pop, trip-hop, dub-techno. La quantità di riferimenti stupisce fino a un certo punto, ciò che davvero salta all’occhio è la padronanza con cui questi elementi vengono fusi fino a raggiungere un livello di coesione complessiva mirabile. Laddove in “Explode” emergeva sostanzialmente un suono scarno e gelido, la situazione in “Symptoms“, almeno parzialmente, evolve. Non più, o non solo, secche sezioni ritmiche, impasti krauti aggiornati al nuovo millennio, magie elettroniche ghiacciate provenienti dal Polo Nord. Il nuovo corso si orienta verso lande decisamente più tiepide, tra minimalismo, reiterazioni sonore ed elettronica avvolgente, rumorosa, talvolta sedotta dal dancefloor.

L'iniziale “Get Lost”, che pare uscita da un disco qualsiasi dei Massive Attack, si sgancia dalle produzioni dei due per proiettarci in un immaginario timbrico molto vicino al trip-hop dei tempi migliori, in bilico col dub. I fendenti astrali che adornano il motivo di “Connection” sembrano giungere direttamente dal Sol Levante. E’ impossibile mantenere il controllo all’ascolto di un algido rimbombo ritmico (“Downtown Snow”), i fantasmi del down-beat più acido emergono tra sinistri presagi futuristi e immaginifiche scuciture melodiche (“Outbreak”). “Generic” ripropone sincopi minimal-techno, anticipando “Most Beautiful”, capace di rimandare a quel pop elettronico brumoso di cui gli Air sono maestri.

Reiterazioni oppiacee ammorbano un’atmosfera già tutt’altro che rassicurante (la splendida voce granulosa di “Bulletproof”, momenti di stasi glaciale in “Second Life”), ispirando derive digitali in forma di racconto errante (la lunga e ipnotica “Congo Hearts”).

Se acidi momenti sintetici non deluderanno gli amanti del synth-pop (la title track e “Smileway”), la conclusiva “In Cycles” riesce a sposare Fennesz a un gusto tutto nordico nel cesellare groove regolari ma quantomai trascinanti.

Artisti acuti e sapienti manipolatori della materia sonora, i coniugi Ripatti consegnano nelle mani del pubblico un’opera di pop futurista difficile da accogliere e soprattutto da comprendere, implosione definitiva dell’inquietudine urbana e rappresentazione pessimistica di un mondo non troppo lontano.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

Asobi Seksu: "Hush" (One Little Indian, 2009)



Nel momento in cui una formazione musicale ottiene consensi quasi unanimi, si possono ingenerare aspettative smisurate. Quando “Citrus” iniziò a circolare per i negozi, gli Asobi Seksu erano ancora una band per lo più sconosciuta, con alla spalle un discreto esordio omonimo passato inosservato. L’estetica azzeccata (dimessa e non troppo cool) e i concerti incontenibili hanno contribuito a farla uscire da questo torpore mediatico, trasportandola sul piedistallo della fama, più o meno di nicchia. Passati tre anni da questo bagno di notorietà, è maturata una spasmodica attesa per il terzo disco. “Hush” è quanto ci aspettavamo, ma fino a un certo punto.

Le dodici tracce contenute in questa nuova prova presentano un collettivo diverso, forse maturato, progredito verso nuovi orizzonti.

In primo luogo, balza all'attenzione la mutazione della voce di Yuki Chikudate. In passato i suoi vocalizzi angelici fondevano purezza lirica tipica delle cantanti giapponesi e un uso massiccio dell’amplificazione per produrre un eco spropositato e ottenebrante. “Hush” cancella quasi totalmente questi punti di forza, normalizzando il tutto con una registrazione purificata, senza trattamenti successivi. A seconda dei gusti, questa scelta potrà essere condivisa o meno, in ogni caso siamo di fronte a un livellamento rischioso. Il contorno strumentale riceve lo stesso trattamento. Le chitarre si fanno cristalline e precise, i muri di rumore onnipresenti di “Citrus” scompaiono quasi in toto, la sezione ritmica evolve verso un andamento meno incessante.

Siamo dunque di fronte a un disco monotono, scialbo e banalmente normalizzato? La risposta è no, perché i quattro ragazzi hanno ancora dalla loro una grande capacità: saper scrivere belle canzoni. Se da un lato la trasformazione risulta un po’ indigesta, la materia prima rimane solida e presente.

Fiabe pop dolci danno il via all’opera con un piglio malinconico (“Layers” spezza l’attesa vigorosamente, “Familiar Light” splende di un fascino infinito), un sapore naif ricopre e colma lacune d’atmosfera (“Mehnomae” è bella solo a metà, “Gliss” recupera sul finale), le esplosioni sul finire sanno regalare emozioni pulsanti (“Sing Tomorrow’s Praise” tambureggia implodendo,  “Sunshower” si compiace con il solito tocco). Dopo una coppia di episodi puntigliosi al punto giusto (“Glacially”, "I Can’t See"), arriva il singolo “Me & Mary”, pronto per una radio alternativa dal buon gusto. Segue la conclusiva “Blind Little Rain”, una silente magia pop irripetibile.

Commistione incantata di evoluzioni e punti di forza ormai saldi, “Hush” mette in tavola un lavoro di sottrazione audace ma apprezzabile, percorrendo una strada di mezzo che metterà d’accordo fan esigenti e ascoltatori estemporanei.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Last Days: "The Safety Of The North" (n5MD, 2009)




A due anni di distanza dall’estatico “These Places Are Now Ruins”, Graham Richardson aggiunge un terzo tassello alle sue mutevoli esplorazioni ambientali, indirizzate stavolta verso un nord immaginario, richiamato nel titolo ma anche nelle composizioni, mai così suggestive e dischiuse a suggestioni tanto impalpabili quanto di pronta e immediata fruizione.

“The Safety Of The North” si presenta come l’album più lungo e complesso di Richardson, con le sue quindici tracce e oltre un’ora di musica; si tratta al contempo di un lavoro molto articolato, che insiste sul medesimo percorso di addizione e apertura a nuove sonorità che già caratterizzava il disco precedente, in relazione alla spessa imperscrutabilità dell’esordio “Sea”.

La maggiore apertura si sostanzia qui in una più decisa impostazione elettroacustica nella quale, accanto a flutti ambientali mai così eterei e incantati, affiorano in superficie melodie acustiche non più filtrate dall’elettronica, modulazioni da colonna sonora placide e sognanti e persino una vera e propria canzone, “May Your Days Be Gold”, impreziosita di ulteriore dolcezza dalla voce di Fabiola Sanchez dei Familiar Trees, che qualcuno ricorderà già dall’ottimo album di RF & Lili De La Mora.

Se appunto la presenza di un brano cantato rappresenta una novità assoluta nei lavori di Last Days, è almeno tutta la parte iniziale di “The Safety Of The North” a mostrare un incedere tiepido e sognante, nel quale le stratificazioni tra distinte note acustiche e fondali da raffinatissima ambient orchestrale disegnano brani dall’aspetto solenne e dai toni decisamente smussati.

Accanto alle immersioni in liquide profondità ambientali dai tratti notturni, ancora solcate da note pianistiche e – nella sola “This Is Not An Ending” – da residue distorsioni elettriche, sono invece numerosi i passaggi in cui il nord evocato dal titolo si congiunge con quello emozionante e onirico dei Sigur Rós, sovente evocati nei loro momenti più rarefatti lungo molti brani dell’album e in particolare nell’esile romanticismo della conclusiva “Onwards”.

La struggente malinconia che contraddistingue i titoli delle canzoni indica mestizia e raccoglimento interiore. Esempi come “Your Silence Is The Loudest Sound” o “Fracture” sottolineano con chiarezza questo concetto, concretizzando le impressioni attraverso un impegno contenutistico mirabile. In entrambe le composizioni il docile svolgimento della melodia rende impalpabile il tempo e il suo scorrere, spargendo scintille di emozione con la solita classe. Non si può certo parlare di “stile Last Days”, tuttavia non v’è dubbio che nel corso delle sue tre opere Graham Richardson abbia messo a punto una formula mutevole dal sicuro successo fra gli appassionati.

Non schematizzazioni imbolsite e furbescamente riproposte, ma uno spirito applicato alla fantasia, un profondo rispetto per la serietà artistica. Abnegazione e incanto sovente colgono l’ascoltatore senza preavviso (i contrappunti invisibili di “The Fields Remember My Father”, la grazia lirica dell’imponente suite “Missing Photos”), una docile ma acidula sensazione di solitudine traspare con prepotenza nel finale (l’elegiaca “You Are The Stars”, ma soprattutto la silente “Blue And White Flowers”).

Nonostante l’eterogeneità dei quindici frammenti, la sensazione dopo svariati ascolti è quella di confrontarsi con un unicum sorprendente, una opera compatta e uniforme, un monolite da vivisezionare in ogni sua sembianza con cura e perizia. Non sappiamo se ciò corrisponda all’intenzione dell’autore, in ogni caso il piacere sublime che promana da “The Safety Of The North” è in grado di trasportare in uno stato di immedesimazione empatica rara e accogliente. Proposito quanto mai ambizioso, ma appropriato per i cuori più adusi a questo tipo di percorsi e pure per quelli meno preparati, condotti per mano con sapienza attraverso territori immaginari di grazia avvincente.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

The Bird And The Bee: s/t (Blue Note, 2009)



Poco meno di due anni fa, durante una torrida primavera, giunse all’orizzonte il duo The Bird And The Bee e fu impossibile non tributargli il dovuto plauso. Quelle marcette retrò dal raffinatissimo gusto cosmopolita diedero una ventata di freschezza al panorama pop indipendente, proponendo una formula non nuova ma confezionata da mani esperte. Come già ampiamente spiegato nella recensione dell’omonima prova, il duo affida le proprie basi musicali al sapiente produttore Greg Kurstin, attivo da diversi anni e rinomato per la sua scrupolosità. Al reparto vocale troviamo sempre la dandy-girl Inara George, impegnata a tinteggiare fraseggi vocali divisa fra croonerismo femminile, profondità cristallina e dolcezza cullante.

Rispetto all’esordio, la cifra stilistica è rimasta pressoché invariata, gli elementi che caratterizzavano la loro musica rimangono intatti nel corso delle quattordici tracce. Canzoni varie, incentrate sull’interpretazione poliedrica della George, sorrette da un campionario compositivo inesauribile. Partendo dalle semplici melodie portanti, fino a giungere al comparto ritmico, non è facile trovare frangenti ripetuti o ridondanti. La ricerca di questa estrema forma di eclettismo non sfocia nella disomogeneità, in virtù di una capacità di controllo solida e sicura.

Pare impossibile scegliere un episodio che si erga al di sopra delle altre tracce, la magia scanzonata prende un ampio spazio già dal principio (la deliziosa “My Love”, il synth-pop irresistibile di “Diamond Dave”), sfociando spesso in una forma di racconto più ragionato (le romantiche ballate “Ray Gun” e “Baby”, nervose tensioni sotterranee in “Whats In The Middle”). Quando la vena danzereccia prende il sopravvento, il divertimento è assicurato (il tributo giapponese “Love Letter To Japan”, la commovente “Polite Dance Song”), con derive a metà fra trasfigurazioni robotiche e indole sentimentale (schizofrenia chitarristica in sottofondo per “Meteor”, la contagiosa “Birthday”). Fra buffe cantilene mistiche (l’altalenante “You’re A Cold”, le avvisaglie sperimentali in “Witch”) e un finale appena sussurrato (“Lifespan Of A Fly”), si giunge alla conclusione con la voglia di ripartire dal principio senza attendere un attimo.

Approdata al secondo passo conscia della propria bravura, la coppia propone quattordici perfette canzoni da ricordare, condite dalla classe di un musicista e dalla sbarazzina spigliatezza di una donna d’altri tempi.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Mokira: "Persona" (Type Records, 2009)



I suoni dello svedese Andreas Tilliander sono manifesto di un’intera generazione di produttori elettronici. Dopo le prime opere glitch all'inizio degli anni Duemila, sono arrivate le trasformazioni legate alle produzioni su Type Records, con risultati a tratti decisamente positivi. Sempre ispirati a una forma adagiata e distesa di ambient, i pattern stratificati del musicista svedese colpiscono per la loro semplice bellezza, che nasce da un'operazione di sottrazione a cui si aggiunge un’attenta ricerca tonale ereditata dai maestri del minimalismo.

La musica di Mokira è fatta di distese glaciali finemente perturbate da punteggiature impercettibili (“Lord, Am I Going Down?”), si concretizza nelle trame di colonne sonore per sogni malinconici e profondi (la lunga e fascinosa “Valla Torg Kraut”), raggiunge l’apice del suo potenziale evocativo quando gioca la carta delle tinte oscure (i contrappunti riverberati di “Contour”), si districa con fatica quando mette in campo melodie puramente digitali (i loop poco consoni al contesto in “Oscillations And Tremolo”).

Il silenzio sferzante che solca tutta la durata di “Invitation To Love” sfocia nella struttura ciclica che riprende il via dall’iniziale “About Last Step And Scale”, lunga e progressiva materializzazione di un limbo immaginario. Un espediente già ampiamente usato in passato e di grande impatto nel caso in cui il tutto funzioni in modo scorrevole. La coesione di queste composizioni favorisce una sensazione di esperienza totale, stimolando il fruitore a ripetere l’ascolto.

Nonostante si inserisca in un filone che fatica a rinnovarsi, “Persona” dimostra e conferma la statura di un artista rimasto nel sottobosco per molti anni (da ricordare la sua attività di produttore per molti album della stessa Type). Un’ora scarsa di placide melodie assonnate, solcate da sussulti mai troppo invadenti.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

Bola: "Fyuti" (2002, Skam)



Darrell Fitton nel giro di dieci anni ha infilato uno dopo l'altro album irreprensibili e sopra ogni critica. tuttavia, a detta di tutti la sua punta di diamante è questo Fyuti datato 2002.

la statura delle composizioni all'interno di questo album vanno al di fuori del semplice artigianato elettronico in voga in quegli anni, qua dentro si può trovare una perfetta sintesi delle tendenze di un'intera decade. rimbalzi ritmici provenienti dalla IDM vengono dilatati da distese down-tempo immacolate, pulviscoli glitch sporcano una struttura finemente architettata da mani che sanno cosa fare e dove farlo. ascolti album come questo e capisci che l'elettronica a questi livelli esula da una realtà meccanica, si fa musica suonata e composta, studiata e autentica *.

tappeti ambientali dal sapore sognante mettono a tacere i toni più sostenuti (l'acquerello multicolore di Vertiphon), la frequenza dei battiti aumenta progressivamente come il battito adrenalinico di un cuore in apprensione (i timbri sinistri di Shoob,e prima, l'incontenibile agitazione ritmica di Tibular Vader poi). la narrazione artificiale si tramuta in racconto robotico (le voci vocoderate di Pae Paoe), la deriva definitiva verso un apocalisse melodica raggiunge la sua vetta con gli ossessivi sette minuti della magnifica Magnasushi. i continui caledeoscopi sfavillanti vanno avanti con le restanti tracce, fra isterismi digitali e una fantasia che non è mera esposizione di estrosità ma ispirazione strabordante (fra tutte spicca Horizophon).

poco conosciuto, per appassionati, o più semplicemente di nicchia, "Fyuti" è un vero capolavoro in cui sono compresi tutti gli elementi per cui un appassionato di elettronica può innamorarsi. da sentire assolutamente.

* giusto ieri sera riascoltavo dopo molto tempo lo splendido Asect:Dsect di Richard Devine, opera collocabile sullo stesso filone di Bola, anche se leggermente più scomposto. da recuperare pure lui e assimilabile ai commenti di cui sopra.