martedì 11 gennaio 2011

Clara Moto: "Polyamour" (Infinè, 2010)



















Dopo aver apprezzato una promessa come Ikonika, capace con il suo fervore giovanile di comporre un album vivace come “Contact, Love, Want, Have”, ecco dalla Germania un’altra fanciulla che entra di prepotenza nel settore dell’elettronica d’ascolto. Come Sara Habdel-Amid, Clara Moto (all’anagrafe Clara Prettenhofer) è una ragazza precoce, molto precoce. Selezionata nel 2006 dalla Red Bull Accademy per uno stage di perfezionamento delle sue doti musicali, conosce al Montreux Jazz Festival il boss della Infinè – benemerita etichetta ricercatrice di nuovi talenti –, Agoria, il quale le propone una collaborazione atta ad approfondire e far fruttare il suo talento. In seguito alla pubblicazione di due singoli (“Glove Affair” e “Silently”), giunge il momento del lancio sulla lunga distanza con “Polyamour”.

Come già anticipato dal bel titolo, il disco è una deliziosa miscela di tech-house, tinte electro e vocalizzi ben calibrati. Gusto per la melodia, giusta sperimentazione timbrica, pezzi vocali contagiosi. C’è tutto per far affezionare gli appassionati a un’opera che non si adagia su standard ormai consolidati ma sa andare oltre, giocando con gli stili, disorientando l’ascoltatore con continui cambi di marcia. Dotata di corde vocali cristalline, riesce a condire le tracce cantate con levità e pathos, grazie anche all’aiuto di Mimu (Miriam Mone), che la supporta in sede di scrittura ed esecuzione in tre tracce (“Deer & Fox”, “Joy Of My Heart”, “Silently”).

Proprio questi episodi, a metà fra un noir-pop da club malfamato (“Joy Of My Heart”) e morbosità electro (“Silently”, “Deer & Fox”), sono fra i più esplosivi e centrati e decorano il disco con un candore femminile di grande caratura. Gli strumentali sono minimali e asciutti, i suoni particolareggiati e di effetto, la produzione curata da Helmut Erler efficace e bilanciata. La semplicità e la sobrietà con cui Clara Moto riesce a svincolarsi dagli stereotipi minimal è meritevole e sorprendente; infatti, molti prodotti del settore usciti negli ultimi anni sono ammantati da una sensazione da “pilota automatico” davvero fastidiosa. Forse la giovane età o la fervida ispirazione hanno portato a comporre qualcosa che si distingue.

Le tastiere e i synth scintillano di una luce vivida e purissima (splendide rifrazioni stellari nell’accoppiata iniziale “Emory Bortz”-“Alma” oltre alla coloratissima “The Opposite Is Also Wrong”), mentre i toni tetri e profondamente malinconici (il singolo “Glove Affair”, “Goodnight Twilight”) vengono contrappuntati da una desolazione glaciale (la ritmo disteso di “Song Of Exhaustion And Ivory”) e una morbosità quasi asfissiante (gli stomp ciclici di “Three Seconds”, l’approccio massiccio in “Take A Second” e “Hall”).

Un album da adottare per gli amanti dell’elettronica da ballo non troppo becera, mistico frullato di tendenze, “Polyamour” prende la palla al balzo e colpisce nel segno con un fare deciso e poliedrico. Plauso alla bravura di Clara Moto e soprattutto all’etichetta Infinè, capace di dare fiducia a un nugolo di giovani con idee fresche e rigeneranti.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Christian Prommer: "Drumlesson Zwei" (Studio !K7, 2010)



Strumentista di valore inestimabile e sapiente autore di remix, Chrstian Prommer con il progetto Drumlesson pone le basi per una delle serie più emozionanti in ambito elettronico. La sua idea, già concretizzata con il primo volume pubblicato nel 2008 su Sonar Kollektiv, è quella di reinterpretare dei brani elettronici di forte impronta ritmica con piglio jazzistico disumanizzato, trasformando la fisicità calcolatrice delle macchine con un passionale alternarsi di strumenti acustici e piccole intrusioni elettroniche.

Sotto la sapiente supervisione e collaborazione di Peter Kruder, Prommer scarnifica i brani scelti fino a renderli scheletrici, essenziali. I tempi spesso dilatati, matematici e cadenzati, donano un delizioso profumo prog-jazz  speziato da pattern ritmici quasi house, confezionando il tutto con un innato gusto per il beat travolgente. Non c’è manierismo né eccesso di ossequioso rispetto, anzi, le tracce conducono spesso in un travolgente intreccio di moog, percussioni e battiti, componendo mantra allucinogeni. La scelta dei pezzi denota gusto e passione: si parte con i miti techno Carl Craig e Laurent Garnier, passando per il mago delle tastiere Jean-Michel Jarre, fino all’asso della deep-house Dennis Ferrer.

Mistiche collusioni fra ritmi e melodie formano ballate lisergiche dall’infinita grazia strumentale (fascino e malia in “Sandstorms” di Carl Craig, splendori cinematici nella conclusiva “Sandcastles” di Dennis Ferrer), mentre miasmi balearic-house offuscano il campo con lunghe digressioni (fluorescenze tropicali in “Groove La Chord” di Aril Brikha, calma serafica per “High Noon” di Kruder & Dorfmeister). Quando il beat viene lasciato andare senza freni i risultati sono esaltanti (le ombre noir dell’orrorifica “Isolated Syncopation” dello stesso Prommer, le bordate di bassi in “Acid Eiffel” firmata da Laurent Garnier) e riesce a mostrare la purezza del tono timbrico con carnalità quasi atavica. C’è spazio per episodi più propriamente future-jazz o prog-jazz, comunque ben assemblati e godibili, fra cavalcate sulfuree (“Sleepy Hollow” di Stefan Goldmann), strambi tintinnii (il quasi post-rock a suon di piano e xilofono in “Oxygène IV” di Jean-Michel Jarre), per concludere con la frenesia luciferina nell’accoppiata “Jaguar Part One” e “Jaguar Part Two“ - firmate originariamente dal trio Mike Banks, Gerald Mitchell e Roland Rocha - vero manifesto del disco e abisso di svisate al limite dell’immaginabile, fra arabeschi di moog e sequenze e sub-sequenze di piani ritmici indiavolati.

Consigliato agli amanti del ritmo primordiale, “Drumlesson Zwei” è una panoramica ampia di ciò che l’elettronica ha saputo offrire in questi anni, regalando una nuova prospettiva ad alcuni episodi che hanno segnato un’era. Alieno dalla compilazione di raccolte anonime e senza nerbo, Prommer ha realizzato con perizia e inventiva non comuni un album vibrante, carico di vigore e spinta innovativa.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

Oval: "O" (Thrill Jokey, 2010)



A poca distanza dalla fine di un decennio musicale influenzato da correnti più o meno passeggere, Markus Popp riprende in mano la sua creazione più ambiziosa. Dieci anni in cui il termine glitch è stato utilizzato un po’ ovunque; abbiamo sentito parlare di glitch-pop, glitch-hop, ambient-glitch. Ma cos’è il glitch, da dove è nato? Popp, con il progetto Oval, pubblicò nel 1995 ”94 Diskont”, uno spartiacque di importanza inestimabile, dal quale si sono poi diramate imitazioni più o meno riuscite, filoni paralleli o collaterali che hanno attinto a piene mani dalle intuizioni presenti in quel disco. Ascoltando la forma di quei suoni si può capire cosa sia materialmente l’estetica glitch.

Dopo anni passati fra collaborazioni, progetti differenti e concerti in tutto il mondo, il ritorno di Oval è un’opera tutt’altro che banale. Due cd, quasi due ore di musica, settanta tracce, moltissima carne al fuoco e un intero mondo da esplorare. Da un ascolto attento delle prime tracce si percepisce subito limpidezza, intimo raccoglimento e distensione. Nessuna sovrastruttura noise a complicare il tutto, ma un semplice campionario di perline “acustiche”. Ciò che evoca ogni traccia è un misto di sensazioni materne, solitarie, infantili. Si capisce quanto questo disco sia affar di Popp e solo di lui, il raccoglimento quasi mistico qui presente dona un’aura angelica. Una nuvola cibernetica, soffice, da cui scaturiscono piogge di bit eterei, privi di asperità, perfettamente levigati e addolciti.

La batteria, unico intruso in un turbinio di soli soffi digitali, torna spesso con esiti senza precedenti (l’inquieta “Ah!”, “Glossy”, “Brahms Mania”, “I Heart Musik”), ad arricchire il racconto di una favola che prosegue deciso, disteso, immacolato. Suoni metallici, precisi, architettati con attenzione maniacale, quasi morbosa, operato di un artista che raggiunge la cura di un ingegnere con la sua invenzione. Non c’è improvvisazione né casualità nella perfezione dell’intreccio di timbri e disfunzioni circuitali di “O”, ma tutto è calcolato e generato da un animo la cui necessità espressiva conduce verso una forma disgregata, composta da singoli, piccoli, minuscoli haiku (meno di un minuto per le varie “Oslo”, “Pomp” e “Parallax”).

“O” non necessita una voglia famelica, ma una scoperta graduale e attenta dei suoni in esso contenuti; la capacità dell’ascoltatore di smembrare l’opera e analizzarla con pazienza aiuterà moltissimo la fruizione finale, che peraltro non è per niente impegnativa, sopratutto se paragonata ad altri album dello stesso ambito. La stessa calma serafica infusa in ogni singolo tono di “O” deve essere applicata per sfogliarlo e penetrarlo.

Senza mezze misure, Markus Popp ha messo nero su bianco tutto il suo talento con un'impetuosità logorroica, presuntuosa, quasi scellerata. Eppure, “O” non smarrisce spessore nel corso della sua considerevole durata, avvincendo l’ascoltatore e rendendolo curioso di scoprire l'esito di un tale dispendio di idee. Capolavoro di artigianato elettronico, mosaico variegato e ipnotizzante, compendio di un filone di cui si erano dispersi i veri valori fondanti.

(8,5)

recensione di Alessandro Biancalana