giovedì 29 marzo 2007

Rafael Anton Irisarri:" Daydreaming" (Miasmah, 2007)



L’accostamento tra pianoforte ed elettronica non rappresenta certo una novità in molte recenti produzioni ad opera di compositori più o meno riconducibili alla definizione di “classica contemporanea”. Mirabili esempi della declinazione in chiave moderna di un approccio musicale in prevalenza classico sono stati, infatti, forniti nel corso degli ultimi anni, dalle opere di artisti come William Basinski, Sylvain Chauveau, Eluvium, The Library Tapes, nonché da molte produzioni della celebrata Type Records (tra le quali ricordiamo da ultimo Helios), che della commistione tra elettronica e classicismo ha fatto la sua quasi esclusiva vocazione. Del resto, vi è un sottile filo che lega il compositore di Seattle Rafel Anton Irisarri all’esperienza dell’etichetta inglese, poiché il suo album di debutto esce non a caso per la Miasmah, giovane etichetta di Erik Skovdin, già partecipe di due importanti progetti di casa Type, quali Deaf Center e Svarte Greiner.

In virtù di tali premesse, è già piuttosto chiaro cosa ci si possa attendere da un album come “Daydreaming”, il cui titolo rispecchia peraltro in pieno le atmosfere e lo spirito delle sue sette tracce, dalla durata complessiva di soli trentaquattro minuti. A conferma di tutte le aspettative, “Daydreaming” è infatti un album di delicatezze elettroacustiche incentrate sull’emozionalità del pianoforte, intorno alla quale affiorano qua e là tenui riverberi chitarristici e suoni liquidi derivanti dall’impiego della tecnologia dei synth quasi esclusivamente in fase di produzione, per creare piccole ambientazioni sonore dai contorni al tempo stesso sognanti e venati di oscura malinconia.

Scatole sonore tenere e dilatate, adagiate su un registro compositivo estremamente minimale. Perle disciolte in un liquido che scroscia, fluisce liberamente, lascia andare ogni colore, sprizzando nell’aria. Inizia “Waking Expectations” centellinando note al ritmo della morte, solcate da piccoli toni elettronici di rara grazia melodica. Si prosegue con la calma, con la pace intrisa nell’animo. La rarefazione è ancor più accentuata nella successiva “A Thousand-Yard Stare”, brillante e gentile, capace di cesellare, con sapienza, atmosfere appena abbozzate, eppure così definite nella loro impalpabilità. Piccoli sibili, quasi sotto forma di anelito. danno un tocco che lascia impronte indelebili nell’ascoltatore.

Un approccio leggermente più scontroso e disordinato in “Wither” dove il piano, casualmente, posiziona note e pungenti, forti, decise. Piccole meteore, o stelle, se ne vanno per lo spazio, nelle vesti  dei timbri regalati dal synth, coadiuvando lo spazio a rendersi più oscuro e luminoso al tempo stesso. Appare vagamente svogliata una chitarra, sempre giacente distesa nei suoi interventi sporadici, attorniata da limpidi fiori, alle volte nascosti, in altre occasioni capace di rivelarsi in tutta la loro bellezza con prorompente bellezza.

Un episodio completamente ambientale (“Voigt-Kampf”), peraltro molto riuscito, si affaccia con attenzione ai particolari, raggiungendo frangenti di pura emozione estatica, il proseguimento, “Fractal” si attesta su una linea similare, leggermente screziata da sporcizie elettroniche più disgregate, vicine a certe sperimentazioni ambient-glitch già sentite in passato in artisti quali Oval, Loess e Pimmon. La conclusione è affidata a una briciola di beat amatoriale, spezzata, irraggiungibile e impercettibile, impalpabile per natura. Scorre, la finale “A Glimpse”, si lascia andare in rarefazioni di tatto comune a chi ha sensibilità artistica di qualità raffinata.

Questi quadretti impressionistici dimostrano come, con l’aiuto di una discreta capacità riassuntiva, si possa dar sfogo alle proprie emozioni senza annoiare o disturbare ma anzi, incantare, sperando che i propri sogni siano condivisi.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

venerdì 16 marzo 2007

Tujiko Noriko: "Solo" (Mego, 2007)

















Ascoltando la fresca ristampa di “Shojo Toshi” (per l’occasione intitolato “Shojo Toshi+”), la tentazione di sentire qualcosa di nuovo proveniente dalla formula magica di Tujiko, era irrefrenabile.

Anni molto prolifici per la nostra folletta, soprattutto per quanto riguarda il biennio 2005/2006, in cui è stata capace di rilasciare un lavoro più bello dell’altro. Dalle soffici perline glitch-pop di 28, gli astrattismi del suo precedente disco solista (“Blurred In My Mirror”), le preziose collaborazioni con Riow Arai in RATN, con l’album “J”, e l’ancor più valido ammasso di suoni dal nome “Stéréotypie”, con alle spalle il lavoro di Peter Rehberg (aka Pita), nella sigla DACM.

“Solo” è un album molto particolare, forse il più complesso dell’artista. Le canzoni si fanno ancor più strascicate, lente, spossate, rispetto al passato. Il ritmo è (quasi) sempre calmo, nonostante l’onnipresenza della drum-machine. La struttura si complica ulteriormente, visto che non c’è mai un melodia o un pattern ricorrente, vari rumori o suoni si alternano senza un’apparente logica. Il tutto, apparentemente disordinato, si riconcilia e si amalgama all’arrivo della sua voce. Oh, sì, quella è sempre la stessa. Il suo canto rimane fra il disincantato e il fatato, sempre in bilico fra una distrazione digitale e lampi di melodia. Le canzoni, sì, arriviamo anche alle canzoni. Sono nove, una più bella delle altre, tutte per un motivo diverso.

Appena prende il via “Magic”, sembra proprio di ascoltare “Niagara Hospital” (la prima traccia di “Blurred In My Mirror”), stessa atmosfera claustrofobica, stessi suoni. C’è però l’inserzione di scomposizioni ritmiche (il rimbalzo in sottofondo), beat gommosi, timbri ciclici che si rincorrono senza mai raggiungersi a vicenda. Questa è bella, perché ci ricorda il suo passato, e non è certo spiacevole farcelo tornare alla mente.

“Sun!” si compone di una geniale miriade di campionamenti “faunistici”, rumori, clangori, guizzi di una onnipresente macchina digitale, che detta un ritmo spolpato e distrutto. Pare un’ipotetica sonorizzazione per “la” foresta presente nella sua (di Tujiko, ovviamente) testolina, con alberi colorati, erba rigogliosa e un cielo azzurrissimo. In ordine, questa seconda, ci piace perché fa sognare senza riserve.

“Ending Kiss” scappa dal nostro controllo per due motivi. Pochi accordi di chitarra (peraltro molto poveri), qualche rimasuglio digitale, nient’altro ci rimane per afferrare un qualcosa di ricorrente. Il secondo motivo, si sofferma sulla bellezza della voce. Il ritornello, carico di emozioni, è sospeso, danzano le parole fra le nuvole, e perciò, chi ascolta, non riesce proprio ad acchiappare nemmeno una frase. Questa, perciò, fa impazzire perché il cuore piange sopraffatto dal turbamento.

“Let Me See Your Face” è essenzialmente una canzone d’amore, o una canzone sul desiderio. Tujiko ripete con insistenza la frase :”Let Me See Your Face Again, again, again..”, mentre, inconsapevoli di tutto, spiccioli di suono brillano e si oscurano nel secondo più lungo, vocalizzi in secondo piano sognano e parlano della loro storia notturna, il giapponese prende il posto dell’inglese, ed è un finale in cui tutto scompare e riappare. La quarta, ammalia semplicemente perché parla di un rimpianto, di una “fantasia” che ormai non c’è più, o forse tornerà quando tutto è cambiato.

“Saigo No Chikyu” è una fiaba che parte sommessa, scivola su linee rette e decise, inciampa in un ritmo che pare un flusso infinito, si scuote quando dei battiti rimbombano, si riprende nell’attimo in cui la calma torna silenziosa. Un’alternarsi incredibile di tonalità cromatiche, dai colori oscuri e sfregianti, fino ad arrivare ad un azzurro pallido. Se i conti tornano, il quinto passo, incanta per il saliscendi timbrico, capace di distogliere l’attenzione, circuire i sensi e lasciar segni indelebili.

“Gift” è forse l’unico episodio in cui gli animi lasciano da parte la malinconia e si riprendono dall’oblio con un piglio pur sempre incessante. Il progressivo scrosciare della tempesta di beats, arriva al suo culmine al termine, quando la voce viene quasi completamente immersa, per poi lasciarla sfogare in un finale di rara dolcezza. La presente, si fa apprezzare per la grazia con cui sedimenta nei nostri sensi.

“No Error In My Memory” non è una canzone, al massimo la si può definire una sorta di poesia con il contorno della musica. Tujiko racconta la sua storia in giapponese, esponendo con grande velocità progressiva, mentre gli strappi sonori si fanno notare per estrosità e cupidigia. Il grande merito di questo pezzo (e perciò, il motivo per cui è apprezzabile), risiede nella capacità di tirar fuori le nostre paure e sbatterle davanti all’ascoltatore, davanti a noi. “Spot” è il culmine dell’essenza intangibile di questo mucchietto di canzoni, il ritmo si fa sbriciolato e inesistente, mentre il cantato, come in tutto il disco, è sempre più personale e, soprattutto, adattato e adatto ad ogni frangente. Piccole sembianze di canzone si vedono sporadicamente, ma è un senso di disorientamento quello che ci avvolge. D’altronde, è anche il motivo per cui questo penultimo episodio è per l’ennesima volta promosso.

Tutto ci si aspetterebbe da Tujiko, qualsiasi trovata, ma un finale movimentato, quasi dance, proprio no. “In A Chinese Restaurant” è un geniale groviglio di scampoli elettronici che perdura per quasi 9 minuti, fra alti e bassi, impennate intrecciate, stimoli inarrestabili. Forse tutta la sua fantasia si riversa qua, magari eventuali sviluppi futuri risiedono in questa indicazione misteriosa. Fatto sta che niente è fuori posto, perciò, la stellina positiva è assegnata anche alla canzone numero 9, per una semplice motivazione, la “sorpresa” è impagabile.

Distratti da quest’ultima perla, veniamo condotti al termine, senza certezze, smarriti e lasciati alla deriva. L’unico punto fermo si può ritrovare in un’opera complessivamente coesa, diversa rispetto al passato, innovativa per quanto riguarda la carriera di Tujiko. Il lato più devoto alle emozioni è pienamente soddisfatto, come dimostra ogni singolo frangente, risiede nel più piccolo particolare apprezzabile.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 4 marzo 2007

Takako Minekawa



















 lei è stata uno dei primi amori jappo visto che la seguo fin dalle performance con la storica band j-pop L↔R. gli album, in ordine, sono Lack Of Reason (1994), Singles & More (1994), Knockin' On Your Door (1995).

poi l'abbandono e l'uscita del primo singolo da soslita. l'adorabile Fantastic Cat, datata 1997. una canzoncina proprio perfetta..

di seguito è arrivato il suo primo album solista, Roomic Cube, che si distingue per un piglio pop fantastico, sempre in bilico fra melodie infantili e motivetti delicatissimi. la sopracitata Fantastic Cat è il manifesto del disco, ma episodi come la delicata Never / More, e, sopratutto, la dissonante Destron (un capolavoro pop), rendono questo disco una bella perla solitaria.

il successivo Cloudy Cloud Calculator è leggermente più "azzardato" e tenta vie più estrose, riusciendoci con grande validità, sopratutto nella seconda parte del disco.

poi due uscite di remix, sfiziosissime e piene di chicche, a nome, rispettivamente, Reecubed EP e Ximer …C.C.C. Remix.

e qui è davvero c'è l'imbarazzo della scelta, fra il remix di Pulsars di Fantastic Cat, Klaxon! rimestata da Buffalo Daughter e una versione fantastica di Phonoballoon Song, remixata dal sultano dell'elettronica giapponese, Nobukazu Takemura.

Nel frattempo (fra il 1999 e il 2000) Takako conosce Tujiko Noriko e si sente.

Fun 9 è più astratto, a partire da Gently Waves, fino ad arrivare a Shh Song. L'unico pezzo a pronta presa è Splash!. a questo disco collaborano Cornelius e Aki Onda (quest'ultimo ha già lavorato con Tujiko Noriko in From Tokyo To Niagara).

Ancora remix in Ximer, fra cui il più positivo (oltre al già citato Phonoballoon Song di Takemura) è International Velvet di Oval.

Nel 2000 la sua ultima prova, un mini cd fatto di 7 canzoni. e si chiama Maxi On.

Già la copertina e la confezione in cartone me lo fanno wubbare, non parliamo delle canzoni. Belle, belle, belle. Brioche, Sleeping Bag, la stessa title-track, sono semplicemente perfette.

poi il niente, apparte un dubbio remix per i Moreno + 2 nel 2005..

non so che cosa sia successo, a me manca tanto..