giovedì 28 dicembre 2006

Antenne: "#1" (Korm Plastics, 2000)















i primi suoni di "Here To Go", la traccia iniziale, sono l'ingresso ad un mondo a sè stante.

i componenti di questo duo danese sono Kim G. Hansen e Marie-Louise Munch.

il primo, già 42enne, ha militato nel duo industrial Institute For The Criminally Insane, per poi migrare (come chitarrista) nella band noise Grind, tramutatisi in Amstrong.

L'incontro con Marie, e la scoperta del computer come "strumento" di composizione, hanno stravolto il modo di concepire la musica per Kim. Una voce femminile così fatata non poteva che meritare un contorno musicale delicato, oscuro, crepuscolare, tutto ciò che non presagiva il suo background dai lineamenti estremi.

e perciò, nel 2000, esce #1.

Nove tracce colorate da un grigiore autunnale, disturbate solo minimamente da una componente elettronica offuscata, dove gli strumenti classici si intrecciano per creare un'atmosfere complessiva fuori dal comune.

Here To Go parte sommessa, con un rullante contorniato da stelle digitali, dove, dopo pochi secondi, appare, come il sole all'alba, la voce di Marie. Molto simile a una certa Beth Gibbons, forse ancora più caratteristica, le parole incantano, si perdono nel vuoto, mentre le particelle elettroniche sprizzano colori.

Suonano, insieme agli altri apparati sonori, in un canto dolce, triste e leggero, come sfoglie di legno sotto una luce grigiastra. Il tutto, svanisce, si disgrega, fino al finale, e nemmeno ci siamo accorti che sono già passati sette minuti.

Like Rain azzarda l'episodio trip-hop, in cui la componente ritmica prende il sopravvento, incastrando un groove minimale insieme al cantato quasi sussurrato. I lamenti del sintetizzatore, accoppiati con il beat, si arricchiscono poi, in un secondo momento, con un drone pieno di angolature, una chitarra appena udibile, piccoli strofinii acustici. In sottofondo, quasi come se fosse un gemito nascosto, la voce di Marie viene costrinta a ripetersi, in un ciclico loop ipnotizzante. Il pezzo si chiude con un rumore bianco minimale, per fare da introduzione al pezzo successivo, Let Me Ride It.

Episodio completamente strumentale, basato su uno sfrigolio glitch, un tappeto di tastiere ambientali, vari campionamenti sonori, e un tono pacato fino alla metà, quando, all'improvviso, compare un rimbombo percussionistico, poi amplificato progressivamente, fino al finale magico e fatato, incentrato su un timbro ovattato.

Poi, Whispering. un pezzo sensazionale. Sciocchi glitch sotto un contorno di sporcizia sonora, una chitarra suonata con il cuore in gola, ancora una volta, la voce di Marie in primissimo piano. Si parla di sussurri, speranze, paure.

: "There's no worries, I am just waiting.. There's no hopes, I am just floating.."..

Una tromba, nei frangenti in cui non c'è il cantato, borbotta scomposta, insieme alla chitarra che scappa via, veloce e imprendibile..

Altro strumentale dal fascino notturno in PPG Hold PRG.1, basato su un ritmo a battuta bassa, gocce di suono centellinate con precisione, quasi a scovare un punto di collisione fra le musiche dark-ambient e il trip-hop strumentale.

Si insinua, nella traccia successiva, Moving Slow, una melodia indecisa, solo da anticamera alla solita favolta trasognata.

:"Moving slow, across the sky.. Big black pink sky.. Hold on.. to laughing.. Falling away.. in the deep red blue sky.."

sei minuti di completa immersione in un mondo sospeso e immaginifico.

l'asso nella manica, però, deve ancora venire. come penultima traccia, c'è Something Not To Do.

La sovrapposizione iniziale fra un sintetizzatore moog d'altri tempi, con un loop digitale, è già un colpo al cuore. Quando, dopo pochi secondi, Marie inizia a cantare, il tempo si ferma.

:"Cool braines, is falling down.. Down and down, through the night..Blank night, last forever.. down and down in my eyes.. Something Not To Do but only knows, Something Not To Do but only knows"..

la musica, a questo punto, è soltanto un contorno, di ottima qualità, compagno di pari importanza per la voce, un abbellimento, come un vestito splendido, fra le carni di una principessa incantata.

La conclusiva Memo, ennesimo strumentale dal fare tenue, chiude il disco senza rancori, con alcuni frangenti molto evocativi, melodie circolari, bollicine elettroniche galleggianti.

Subito dopo l'uscita del disco, viene pubblicato il maxi singolo di Here To Go, con remix molto interessanti da parte di Full Swing, Zammuto, Accelera Deck e Metamatics.

Dopo questo capolavoro dimenticato, venne #2, maggiormente incentrato su suoni elettronici, in cui una certa vena sperimentale sale in cattedra, stravolgendo le emozioni presenti in #1, non compromettendo, però, il valore dell'opera, in cui svetta la bellissima Not Sad, sempre con l'aiuto delle corde vocali di Marie.

ora, alla fine del 2006, Kim Hansen annuncia il completamento di #3, e l'impazienza d'ascoltare sale per la schiena come un brivido d'emozione.

sabato 23 dicembre 2006

PLAYLIST 2006

















Anoice: "Remmings"

Quest'anno vince il disco che più mi ha fatto emozionare, il complesso di composizioni che più hanno segnato questo mio 2006. L'album che caratterizza tutt'oggi la mia storia d'amore, con quel pezzo che ti si attorciglia al cuore e non lo lascia più,
The Three-Days Blow.

Per una maggiore trattazione, c'è pure la mia recensione.



 










Caroline: "Murmurs"

Per diversi mesi in cima alle mie preferenze, Caroline, si è vista lasciar scappare il primo posto per un niente. Non che l'abbia rivalutato in negativo, anzi. Tutt'ora, mentre ascolto canzoni come Bycicle o Where's My Love, le emozioni sono intatte e le lacrime vicine vicine.

Se volete saperne di più.




















Helios: "Eingya"

Terza piazza per un disco elettronico pieno di colori. In un certo periodo non ho ascoltato altro. Le trame malinconiche che caratterizzano questo album, ne fanno un'opera fuori dal comune, in cui si possono scorgere attimi di dolcezza in cui il cuore non vuole smettere di battere.

Tutto il coinvolgimento che c'è, nella recensione con Raffaello.



 













Boduf Songs: "Lion Devours The Sun"

Viene poi, in ordine di apparenza, quel capolavoro di folk apocalittico moderno che ci ha sfornato Boduf Songs. Già autore di un affresco a là Current 93 l'anno scorso, un album omonimo, l'autore, nascosto nelle sue foreste sperdute, riesce a convogliare in questo album tutta la sua ispirazione. Tra frangenti di pura desolazione, attimi di gelo, paesaggi scurissimi.

Ancora Raffaello mi ha aiutato a parlarne, qui.



 

 













Roommate: "Songs The Animals Taught Us"

La folk-tronica mi piace tantissimo, è un genere che a primo impatto mi impressiona senza ripensamenti. Però, fino all'ascolto di questo disco, non ero ancora riuscito a trovare qualcosa di recente che eguagliasse emozioni nascoste nel passato, vedi Khonnor o il primo dei Tunng.

Ecco allora questo gioiello, infarcito di testi intelligenti, suoni inusuali, grande capacità cantaurotoriale. Un affresco di contemporaneità con l'aiuto di un gameboy e qualche tastierina.

Ne parlo qua con qualche dettaglio in più.


 

















Josephine Foster: "A Wolf In Sheep's Clothing"

 Una fra le più promettenti autrici di folk psichedelico di questi anni, Josephine Foster, mi aveva sempre sorpreso anche con i suoi album precedenti, così racchiusa nei suoi suoni antichi, con una voce decadente e un sacco di ideali astrusi. Con l'ultima prova, però, la sua capacità di cesellare "canzoni" si è tramutata in puro miracolo, riuscendo a far sognare anche l'essere più disilluso.

Con grande trasporto, ne scrissi qua.

 

















Emilie Simon: "Vegetal"


Probabilmente fra gli album più ascoltati di questo 2006, Emilie Simon, per tutta la mia estate, ha decorato le giornate con le sue canzoni flebili e delicate, sospese a mezz'aria, impreziosite dalla sua voce cristallina. "Alicia", "Fleur De Saisons", "Opium", in queste semplici parole, ci sono tante cose da dire, tante cose da ricordare.

L'amore per questo disco, espresso con più chiarezza, qua.


 


















Psapp: "The Only Thing I Ever Wanted"

Arriva soltanto ottavo e nemmeno me ne rendo conto. L'artigianato pop come piace a me, composto con strumenti piccoli piccoli, cantato con una voce sommessa, sprizzante colori vivaci e splendenti.

Pura fantasia al servizio del pop, in due parole. Episodi come "Hi", "This Way" o la splendida "Upstairs", lasciano sedimenti di una certa importanza in fondo ai cuori.

Quando non sapevo cosa fare, ne scrissi più apertamente qui.

 


















Melodium: "There Is Something In The Universe"
 
Uno dei dischi di glitch più estrosi e fantasiosi del 2006. Mai una soluzione che si somiglia dall'altra, suoni e passaggi sempre più ricercati e sorprendenti. Se con questo disco Melodium ha esplorato la composizione più sperimentale, la sua vita "pop" si approfondisce con il suo vecchio "La Tete Qui Flotte" e, sopratutto, con il recentissimo "Music For Invisibile People", ennesima dimostrazione delle qualità di questo "artista". Ecco la recensione.


10° 


















Sodastream: "Reservations" 
 
Bene o male, il disco di folk-pop dell'anno. Semplicemente canzoni perfette per il proprio amore, imperscrutabili e apertissime allo stesso tempo, delicate e sensibili, sì, sensibili come l'emozione che si sprigiona ascoltando "Twin Lakes", "Firelines" o la toccante "Tickets To The Fight".

Il mio amico Raffaello sa parlare meglio di me, e perciò vi rimando alla sua splendida recensione.




11) Trespassers William: "Having"

12) Asobi Seksu: "Citrus"

13) Camera Obscura: "Let's Get Out Of This Country"

14) Tomiko Van: "Farewell"

15) Tunng: "Comments Of The Inner Chorus"

16) Last Days: "Sea"

17) Hot Chip: "The Warning"

18) Vacabou: s/t

19) Library Tapes: "Feelings For Something Lost"

20) Aki Tsuyuko: "Hokane"

21) Uphill Racer: "No Need To Laugh"

22) Junior Boys: "So This Is Goodbye"

23) Micah P. Hinson: "Hinson & The Opera Circuit"

24) Benoit Pioulard: "Precis"

25) Kazumasa Hashimoto: "Gllia"

26) Part timer: s/t

27) Matt Elliott: "Failing Songs"

28) Tv On The Radio: "Return To Cookie Mountain"

29) Pillow: "Flowing Seasons"

30) Thom Yorke: "The Eraser"



 
Ristampe:

1) Takagi Masakatsu: "Journal For People"

2) Sawako: "Nin+Nana" (tron:)

3) Sawako: "Yours Gray" (and/OAR)

4) Pimmon: "Secret Sleeping Birds" (SIRR)

5) Ryoji Ikeda: "+/-" (Touch)

6) Cacoy: "Human Is Music" (Rumraket)

7) Tujiko Noriko: "Shojo Toshi+" (Mego)

8) Global Communication: "76:14" (Discotheque/Sanctuary)

9) Windows For The Derby: "Calm Hades Float" (Secretly Canadian)

10) Yellow6: "The Beatiful Seasons Has Past" (RROOPP)

mercoledì 20 dicembre 2006

Kate Havnevik & Imogen Heap

musica simile, attitudini che si incrociano ed entrano in contatto spesso e volentieri, ascoltando attentamente le loro due prove soliste.

due voci incantevoli, melodiche, profonde, molto "soul". Le parole sbarazzine e pungenti di Imogen si accostano con quelle ombrose e scurissime di Kate.

oltre alle caratteristiche stilistiche, ciò che le accomuna, è la collaborazione con Guy Sigsworth, compagno nei Frou Frou per Imogen, semplice supporto per Kate.

un minimo di storia per entrambe.













Kate Havnevik inizia la sua carriera da musicista con l'intenzione di diventare una chitarrista jazz, fin dai primi anni dell'adolescenza. poi, il cambio di look, intorno ai 14 anni, e una parentesi in una band punk.

Scoperte le potenzialità della sua voce, inizia ad esplorare ogni singolo lato di questa sua dote naturale.

Con un tocco tecnologico, l'uso di strumenti tradizionali, testi struggenti, il risultato complessivo risulta raffinato e adorabile.

Kate suona la chitarra e il piano, come la diamonica e l'arpa, strumenti usati principalmente per comporre e registrare, anche se non vengono disdegnate performance live con il supporto della strumentazione classica.

Prime capatine in radio, con registrazioni annesse, collaborazioni eccellenti con gente come Moby, Röyksopp, Noel Hogan (Cranberries) e Tom Middleton.

Lo stretto contatto con Guy Sigsworth la porta al suo recente album, Melankton.




















Kate Havnevik: "Melankton" (Continentica Records , 2006)

rilasciato nel mese d'aprile di quest'anno, l'album è rimasto in sordina. nessuno l'ha ascoltato, nessuno lo cita. eppure le canzoni ci sono, le capacità pure.

pattern digitali di rara delicatezza, archi angelici, la voce, una sottile patina di "freddo" ricopre queste canzoni. I dischi di Bjork nello stereo, una strizzantina d'occhio alla down-tempo di qualità, tanta fantasia.

Una raccolta di canzoni flebili e docili, raffinate fino ai più minimi particolari, senza un suono fuori posto.

Il minimalismo pop splende in tutti i suoi colori sgargianti (Unlike Me, Don't Know You), complessi d'archi impreziosiscono strutture elettroniche brillanti (Not Fair, Kaleidoscope), New Day), perle avant-pop come solo la fatina islandese può (Se Meg).

Eppoi c'è la canzoncina del cuore, You Again. Coretti leggeri come piume, beat soffici e gentili, il ritornello più appiccicoso che ci sia : "ParararaPa, Ta, Dan, Dan". In questo episodio particolare si notano reminescenze all'ultimo album dei Telefon Tel Aviv, solo che in questo caso la canzone è stata costruita senza sovrastrutture che nei Telefon stonavano un attimino.

Unica nota dolente: l'album non è stato pubblicato che dalla sua etichetta e si trova a soli 23 euro sul suo sito... 



















compagna d'avventuta di Guy Sigsworth nei Frou Frou, band che nel 2002 sbaragliò ogni concorrenza con il singolo Breathe In (contenuto nell'album Details), Imogen Heap ha pubblicato l'anno scorso un album rimasto nel completo anonimato, nonostante la sua precedente avventura in duo. da non dimenticare il suo primo album (I Megaphone), peraltro leggermente acerbo, con qualche buona canzone (Getting Scared, Candlelight), ma nel complesso poco convincente.














Imogen Heap: "Speak For Yourself" (Megaphonic Records, 2005)

Rispetto al disco della Havnevik la componente elettronica viene accentuata, nonostante non si superi un certo limite di "pienezza" dei suoni, contenendo sempre l'estrosità del risultato finale.

si nota una grossa maturazione nella pura esecuzione vocale, rispetto ai Frou Frou, oltre alla grande dimostrazione di capacità compositive, visto che il disco è firmato completamente da lei.

l'album è (senza successo) lanciato dallo spot della Volkswagen, dal nome Heed & Seek, quattro minuti e mezzo di voce vocoderate, che paiono il canto di un cigno cibernetico.

Convulsioni gommose supportare da un loop di archi gelidi in Headlock, ritmi soavi e adagiati in Goodnight And Go, in cui il beat scorre veloce, i piccoli suoni vaganti si incastrano perfettamente nel contesto melodico.

Possibili singoli disincantati (la minimale Have You Got It In You?, splendida Loose Ends), flussi elettronici sognanti applicati al pop come se fosse uno scherzo (Clear The Area), l'episodio dalle tendenze minimal-house, mette d'accordo anche chi è abituato a cose più sostenute (I Am In Love With You).

L'album non si limita soltanto a riprendere certi suoni down-tempo/trip-hop ma personalizza il suono, inglobando un'indole unica e per niente calligrafica. Infatti, un pezzo come The Walk, se all'apparenza pare un frullato fra gli Sneaker Pimps e gli Olive, in un secondo momento si mostra in tutta la sua limpidezza, con quelle note di piano a stagliarsi solitarie fra il ritmo scomposto e la voce lontanissima.

In coda, un piccolo riguardo speciale per Closing In, un trionfo di bleeps, voci spezzettate, sovrapposte, tendenze pianistiche ancora presenti, un grande lavoro di cesellatura sonora, indice di un lavoro in fase di produzione fuori dal comune.

in definitiva, due artiste sostanzialmente diverse, compositrici dai tratti differenti, ma, nel profondo delle loro anima, della loro voce, c'è un solito intento che le anima nel creare canzoni preziose come poche.

sabato 9 dicembre 2006

playlist 01/12/2006 <-> 08/12/2006

dopo svariate settimane (mesi?) che non compilo la playlist vedo di farne una..

Il cantautorato glitch

negli ultimi mesi sono usciti diversi album che applicano alla forma canzone una veste glitch, sottile, docile.

quando si canta, quando si lascia spazio solo agli strumenti classici, episodi in cui si mettono insieme versi delicati, attimi in cui solo il suono prende il sopravvento.

niente di nuovo, sì. però gli album sono molto belli, è questo quello che conta, almeno per me.

Last Days: "Sea" (7,5)

Part Timer: "Part Timer" (7+)

Benoit Pioulard: "Precis" (7,5)

Dave Fischoff: "The Crawl" (7)

Uphill Racer: "No Need To Laugh" (7+)


Last Days è un personaggio che all'anagrafe fa Graham Richardson.

il suo album è molto crepuscolare, deliziosamente autunnale, molto evocativo.

si spazia fra episodi ambient-pianistici di sicuro impatto emozionale (The Safest Place, I Remember When You Were Good), acquarelli dilatati e minimali (Fear, The Norwegian Sea), piccoli episodi più incisivi e immediati (Two Steps Back, Arriving At Jan Mayen).

Part Timer è una metà dei clickits e il disco esce per l'adorabile Moteer.

lui si chiama John McCaffrey.

come esposto all'inizio, la patina che ricopre queste canzoni si somiglia, ma il risultato finale è diverso.

dove last days si lascia andare a tentazioni atmosferiche, part timer si sposta più verso la canzone.

ed infatti, We Made A Big Mistake è un gioiello cantautorale, al livello dei migliori Piano Magic (vedi l'EP Incurable), in cui la voce femminile si accosta con dolcezza alla chitarra spezzettata, ad un ritmo claudicante. Se Daytona sembra essere troppo bella per essere vera, Sad Little Dennis ti fa capire che davvero questo album è un mezzo miracolo, fra gli accordi di chitarra supportati da una fisarmonica disturbata.

Benoit Pioulard, invece, esce su Kranky, e la cosa si sente. Sempre germi elettronici, sempre cellule disturbanti, ma molto, molto, folk. Voce vera, non trattata, ritmi digitali, canzoni favolose.

come già accennavo prima, Triggering Back staglia fra il complesso, dove Alan & Dawn incanta, Palimendfa gioire. Come diceva giuliano (vuvu), sentirete parlare di questo ragazzo, sì sì, sicuramente.

Dave Fischoff ha tentato il cambio dirotta. partito da basi esclusivamente cantatutoriali (vedi il precedente The Ox And The Rainbow), approda a questo nuovo The Crawl, ammorbando la sua cifra stilistica attraverso l'elettronica.

esperimento mai così ben riuscito, almeno dalle mie parti. canzoni come Landscape Skin, Ghost Of An Afternoon e, sopratutto, In This Air, sono rare d'ascoltare, e proprio per questo inestimabili.

Per Uphill Racer, come già accennava bebo, qualche settimana fa, c'è da mettere in ballo i Notwist, che non verranno mai nominati abbastanza per l'influenza che hanno esercitato su questi artisti.

certo, non per questo l'album in questione lo si può etichettare come brutto, anzi..

I Am Sorry, con il suo handclapping finale è carinissima, Coming Out mette insieme note di piano con battiti sordidi, risultando funzionale, la title-track è una gemma di pop deviato.

2006 Rewind

Caroline: "Murmurs" ( 8 )

Tv On The Radio: "Return To Cookie Mountain" (7)

Trespassers William: "Having" (7,5)

Tomiko Van: "Farewell" (7+)

Roommate: "Songs The Animals Taught Us" ( 8 )

Micah P. Hinson: "Hinson & The Opera Circuit" (7+)

Aki Tsuyuko: "Hokane" (6,5)

Junior Boys: "So This Is Goodbye" (7)

Sodastream: "Reservations" (7+)

album che hanno segnato questo mio 2006 musicale, fra il cuore che non può sbagliare (Caroline, Sodastream, Roommate, Trespassers William), conferme saldissime ed esaltanti (Tv On The Radio, Micah P. Hinson, Junior Boys), sorprese giapponesi che non possono mai mancare (Aki Tsuyuko, Tomiko Van).

giovedì 30 novembre 2006

Eisley: "Room Noises" (Reprise, 2005)


















cinque ragazzi, veri e propri adolescenti con gli strumenti in mano.

una questione di famiglia: tre sorelle, il fratellino, un amico acquisito per strada.

la band si forma nel 1997 quando l'età media è intorno ai dieci anni.

passano 5-6 anni in cui il gruppo scrive canzoni, girovaga per l'America a suonare, e, infine, nel 2003 si aggiudicano il "Best New Act Award" dal Dallas Observer.

Poco dopo, i primi EP, e infine, l'anno scorso, il loro primo album.

Room Noises è uno di quei album pop di cui si può rimanere seriamente "scottati". L'ispirazione congiunge le chitarre liquide e la caratteristica voce femminile dei mitici The Sundays, attinge dall'attitudine radiofonica dei Sixpence None the Richer, riprende certi passaggi dei mai dimenticati Bon Voyage.

si parte con Memories. la voce di Sherri DuPree è deliziosamente infantile, lo scheletro ritmico mette insieme quel giro di basso-batteria-chitarra da mozzafiato. Piccoli tocchi di piano, sapiente l'uso della distorsione chitarristica, strappa-lacrime il finale in cui le sole parole lasciano poi il posto al silenzio.

Un singolo pop dopo l'altro, senza una pausa. Ogni canzone è perfetta, calibrata, limata fino al più piccolo particolare. Se Telescope Eyes chiede :"Please, make me cry", lasciando sorpresi per come vengono gestite con personalità le varie influenze, l'essenziale I Wasn't Prepared mostra un'anima docile e pacata della formazione. ancora conferme per l'esecuzione di sherri.

Golly Sandra innesta elementi country nella formula, risultando funzionale e molto ben fatta, sopratutto nell'alternarsi delle voci, accompagnate da un impianto strumentale fantasioso, mai ripetitivo.

Marvelous Things è fantastica con i suoi flussi vocali fuori dal tempo, il rimbombare dei tamburi distrae, l'incedere incessante della chitarra contorna e impreziosisce. altro centro preciso preciso.

Brightly Wounds sembra voler mette a fuoco la direzione stilistica, incastrando insieme, ancora, rigoli di voce, Lost At Sea accentua la componente pianistica, lasciando un'ottima impressione su di sé.

My Lovely è decisamente più rock, sopratutto nei frangenti strumentali, dove le capacità prettamente esecutive dei ragazzi vengono tutte fuori. Just Like We Do è una ballata chitarra/voce in cui le intromissioni del synth sono pungenti e affascinanti.

il terzetto finale propone al principio Plenty Of Paper, un gioiellino indie-pop semplicemente bello, mette al centro One Day I Slowly Floated Away con le sue trovate melodiche inusuali, conclude il disco con la bucolica Trolley Wood, fra battiti di mani, canti spensierati e un ritmo amichevole.

giovedì 16 novembre 2006

Anoice: "Remmings" (Important, 2006)
















ci sono quei dischi di cui ti innamori subito al primo ascolto, che ti capitano nella vita e te la cambiano improvvisamente. ti costringono a farsi ascoltare e tu non puoi farne a meno. poi magari c'è anche legata un'emozione particolare, una promessa, un frangente, delle parole. ed allora è proprio il caso di dire che diventano parte di te, si uniscono indissolubilmente all'animo. questo è per me remmings.

formazione tutta giapponese gli anoice, un'opera venuta fuori quasi per caso, scoperta grazie al consiglio di un amico, mai così amata. le coordinate artistiche si collocano intorno al post-rock dei Rachel's, la genialità di certe composizioni di Arvo part, la magia che possono regalarci i migliori sigur ros.

le canzoni sono 9 e alternativamente c'è un non-titolo, il famoso Untitled.

Untitled 1 è piccolo ricamo melodioso, vaghi tocchi di piano si stagliano sul sottofondo, un'atmosfera sognante, screziata, deliziosamente elegiaca si crea e si dipana progressivamente. Suoni ondulati, delicati. Piccoli tocchi di tastiera sul finale ricamano un acquerello che pare mal definito, appena accennato. Mai così compiuto nella sua incompletezza.

Aspirin Music soppianta il silenzio attraverso una struttura composta da basso, violino, piccoli ricami elettronici. La batteria, sovente, sostiene un minimo di ritmo, si scatena in attimi di panico, si calma con lentezza e tatto. Ed allora le chitarre scappano veloci e impazzite, il piano mette insieme quelle due-tre note che scrosciano violente, gli archi avvolgono con il loro manto sensuale, brandelli di melodia qua e la si presentano con un'apparizione fugace e sfuggente. Ancora, la batteria, concorre e partecipa in un finale pieno di rumore melodico.

Untitled 2 spezzetta e taglia un motivo possibilmente regolare, raccoglie i brandelli rimanenti, li giustappone secondo un ordine non ben definito, li presenta così come sono. Glitch-erie assortite, timbri ovattati, silenziosi. Un ambiente nero e oscuro si figura davanti agli occhi, un piccolo puntino bianco nel cielo rappresenta una stella, l'unico suono che rimane costante fino all'ultimo, stremato, ma sopravvissuto.

Kyoto riprende il discorso strumentale, iniziando il suo corso con un sibilo pungente, si fa accompagnare da una coppia di suoni discordanti, quasi rivali. Se da una parte il piano è scostante e umorale, fra picchi di emozionalità e toni sordi, la tastiera è graziosa, soave. Il sopraggiungere degli altri strumenti assalta l'ascoltatore, visto che i rimbombi della batteria sono aggressivi, il violino lacera con le sue note casuali. ma quella tastiera, la sua tendenza al timbro suadente, aggiunta ora a un altro strumento non ben definito, ora al baccano d'alta quota del suono complessivo, si candida come il componente che fa più tremare il cuore.

Untitled 3 accoppia alla solita partitura di piano dagli angoli ben definiti, un drone ciclico e ripetitivo, ossessionante, le solite due anime messe in contrapposizione, bellissime proprio per questo, bellissimo a sua volta il risultato finale, l'effetto complessivo, attraente e meschino.

Liange è una ballata minimale e crepuscolare, sostenuta da languidi attimi di suono amatoriale e caldo, rassicurante. Il rifugio per ogni cuore disperso.

Untitled 4 incrocia, come due serpenti si attorcigliano con forza, il regolare andamento di una chitarra decadente, e un proliferare di suoni che paiono sibili, scrosci, delizie, punteggiature, virgole, infinitesimali, appena percettibili, importanti proprio perchè minuscoli.

Eppoi arriva il pezzo simbolo del disco, dove la componente emozionale, gentilmente repressa nelle tracce precedenti, si fa viva e straripa con forza impressionante. The Three-Days Blow è un sogno. un sogno che parte piano e si carica addosso sensazioni nascoste, gongola tra un un piano suonato con delizia, note di chitarra ancora lontane e "piene", suoni "ambientali". Il violino, strumento cardine della composizione, inizia adagio, senza fretta. Poi, senza preavviso, inizia la melodia più bella che c'è. Un flusso continuo, che colpisce, non può far rimanere indifferenti, lascia senza parole, quelle che mancano a me per descrivere questi attimi. basta soltanto mettersi in silenzio in una stanza tutta nostra, ascoltare, lasciare andare le note, senza sforzarsi di capire e goderne. Fra attimi di (e)stasi e un finale concitato, in cui tutto il gruppo mette insieme un elemento, ognuno importante in egual maniera, i sei minuti scorrono veloce veloci, depositano sul fondo di ogni mente un sedimento indelebile. Una composizione magistrale, perfetta, amabile.

Conclude Untitled 5, il pezzo più posato e gentile di tutti e 9, dove la solita componente di piano viene affiancata a un'impalcatura elettronica, mai invadente, perfettamente coesa con tutti i suoni che si creano eppoi sfuggono, che appaiono eppoi si dissolvono.

il disco che può seriamente scalzare ogni altra opera presente nel 2006, addirittura anche la mia Caroline, almeno per ora, almeno in questi attimi. spero davvero che tutte queste mie parole possano servire a far innamorare tanti fra di voi.

sabato 4 novembre 2006

Asobi Seksu: "Citrus" (Friendly Fire Recordings, 2006)


















gli asobi seksu sono usciti con il loro nuovo album, ed è una notizia niente male già di per sè.

poi, lo si ascolta anche il disco, e ci si accorge che è bellissimo.

le loro intenzioni stilistiche sono le seguenti: unire coordinate tipicamente legate al rock giapponese (vedi lo Shibuya-kei) con la sensibilità shoegaze, in primis, ma guarda po', i My Bloody Valentine, se non, addirittura, influenze che vanno dalle parti dei Sonic Youth e gli Yo La Tengo.

con una cantante come Yuki Chikudate, deliziosissima bimba piccola piccola, una delizia di ugola, sia quando canta in lingua madre, sia quando si cimenta con l'inglese.

il 2004 era l'anno del loro splendido album d'esordio (omonimo) e da allora son passati due anni in cui i ragazzi son rimasti impegnati nel girare il mondo con i loro concerti, mancando l'Italia, a meno di mie clamorose sviste.

Strawberries è una canzoncina delicata e soffice, le linee chirarristiche sono ovattate e gentili, i vocalizzi di Yuki sono l'elemento caratterizzante di questa musica, sempre sospesa fra la terra e il paradiso. L'esplosione rumoristica, con l'aggiunta di ghirighori elettronici, nel finale, regala ben più di un'emozione.

New Years si getta in un oblio di melodia screziata, Thursday alza il tiro e un manto di rumore assopito ricopre tutta la canzone, con un canto dondolante e bambinesco il quadro è completo.

Strings lascia sfogare un'innata vena sognante, in Pink Cloud Tracing Paper Yuki si dedica alle tastiere, il cantato è affidato a un componente della band, risultando meno incisivo rispetto all'interpretazione della ragazza, anche se il contorno strumentale è pur sempre d'ottimo livello.

Le tracce si susseguono con naturalità soave, dove si fa presente un frangente che sa di cielo e stelle (Red Sea), episodi movimentati e più pop si alternano deliziosamente (Goodbye, Nefi+Girls).

E se all'orizzonte pare esserci luce e movimento, con Lions and Tiger si sprofonda in un'atmosfera di suoni corposi e avvolgenti, la voce di Yuki raggiunge qui la sua massima espressione, in modo particolare negli attimi in cui il volume si alza e le sue parole prendono il volo verso le nuvole.

Concludono, con un garbo raffinato, Exotical Animal Paradise e Mizu Asobi. due perle lucenti e raffinatissime.

un disco che, se ascoltato senza fare caso all'anno di pubblicazione e alle influenze da cui attinge la sua linfa vitale, può lasciar nel cuore attimi di puro piacere, amore, caldo tepore, utile per scacciare il freddo che verrà.

Obsil: "Point" (Disasters By Choice, 2006)














L’etichetta romana Disasters By Choice, già in evidenza per il lavoro di ricerca svolto in passato, messo in risalto in queste sedi attraverso la recensione di Melodium, ritorna a proporre un’opera dalle soluzioni melodiche inusuali e inedite. Questa volta, però, la produzione è completamente italiana. Sì, perché Obsil, l’artista in questione, è un ragazzo venticinquenne nato a Siena nel 1981. Il suo nome è Guido Aldinucci. Folgorato dalla musica fin dalla tenera età (con annessi studi), inizia ad interessarsi in maniera decisa all’elettronica verso la metà degli anni 90’. Immerso in una sperduta e bellissima campagna senese, il suo studio è un piccolo rifugio compositivo in cui sono presenti fra i più disparati strumenti: sintetizzatori digitali risalenti ai primi anni 80’, complessi marchingegni “ibridi” digitale/analogico, attualissime procedure di programmazione Max/Msp. A fianco di una così corposa e certosina cernita dei ritmi giusti da inserire nelle sue composizioni, Giulio si è inoltre interessato a numerosi metodi di sintesi, attività che l’hanno condotto all’esecuzione di registrazioni realizzate “sul campo”. I famosi field recordings, a conti fatti.

Analizzando lo scorrere coeso e fluido dell’opera, si nota una forte presenza del piano, strumento a quanto pare molto caro all’artista. Le note vengono smembrate, scomposte, posizionate su vari piani di esecuzione, rese irriconoscibili con trattamenti d’ogni genere. Una forte propensione alla sperimentazione timbrica, quando attutita da una dolce coltre di melodia spumosa, quando pungente e delirante, dove il caos ordinato la fa da padrone.

Altro elemento molto presente ed evidente, è l’amore per i suoni digitali di vecchia data, presenti un po’ ovunque sia nello scheletro che nel contorno delle varie tracce. Bollicine galleggianti, loop amatoriali e granulosi, scintillio digitale, suoni svagatamente disciolti in un manto di rumore assopito.

L’iniziale “Curtains” è un groviglio complicatissimo in cui confluiscono schizofrenie glitch, flussi sonori sinuosi e ululati digitali. Ogni singolo componente si amalgama con precisione e una sensazione di smarrimento pare essere vicina, se non nel finale, dove alcune note di piano, con l’aggiunta di un suono che pare uno xilofono, ci conducono al termine con una carezza, al posto di un pugno soffocante.

“003, _ou” è meno scomposta e “agitata” della precedente, un soffice letto di synth spumosi cesellano nuvolette nell’aria con dolcezza e tatto, timbri ciclici e soavi si alternano con naturalezza e sapienza. Questo è forse il pezzo in cui è più evidente il lavoro (di riesumazione) svolto sui sintetizzatori digitali risalenti ai primi anni ’80. In alcuni frangenti, si sentono flebili richiami a uno dei pionieri del genere che fu: Jean-Michelle Jarre.

L’infatuazione per i tasti del piano, e per il loro suono, si risveglia puntuale in “ae”, dove i frangenti più significativi (e belli) si concentrano al momento in cui “quei” suoni vengono sbattuti in un contesto composto da cincaglierie puntigliose, punteggiature silenti, scomposizioni minuscole e minimali.

Se “Di Paese” si lascia trasportare da qualche intraprendenza di troppo, rimanendo peraltro funzionale e positiva, l’episodio seguente, “Proteso”, è uno sviluppo interessante delle idee accennate nella prima traccia, una suadente ballata elettronica, nelle cui membra si agitano con fervore anime sonore impazienti di implodere, sempre con la presenza (ormai immancabile) del piano.

“Galgano’s Tree” si barcamena con grande disinvoltura fra una serie di suoni che paiono percussioni (ma forse non lo sono) ed un cespuglio intricatissimo di bleep che si autogenerano, cesellando un’atmosfera vagamente sognante, amatoriale, adatta per un’ambientazione rurale, silenziosa e glaciale.

“Wachzustand” attinge un po’ ovunque fra i riferimenti stilistici descritti nelle tracce precedenti, amalgamando tentazioni synth-etiche con tremolanti influenze avanguardistiche, risultando, a conti fatti, una traccia bellissima e oscura, forse l’episodio più significativo (o rappresentativo) di tutto il disco, proprio perché comprendente tutti i tratti dello stile marcato Obsil.

Le due composizioni successive sono accomunate dal titolo bellissimo: “L’arsa metà dei pini” e “Tremolanti concentrazioni luminose sparse (sui crinali)”. E questo elemento riesce a indirizzare l’ascoltatore alla chiave d’ascolto giusta, dove la prima traccia architetta e costruisce la colonna sonora per un pomeriggio falcidiato dal sole, in mezzo a una foresta (probabilmente di pini), la seconda, è tremante, si concentra in silenzi luccicanti, rimane luminosa, splendente, sempre in bilico fra la dolcezza e il rumore, costantemente sul crinale.

“Sui Tetti” completa e conferma quanto di buono è stato fatto riguardo l’esplorazione e la ricerca dei suoni “dolci” per definizione, contestualizzati in uno scheletro compositivo pur sempre di stampo avant, ma mai disturbante o aggressivo. Ed allora, lasciarsi andare, venir trasportati da questi lievi timbri appena accennati, è facile quanto chiudere gli occhi davanti a un paesaggio bellissimo ed immaginare di spiccare il volo.

In “(Presages)” c’è la voglia di perdere la ragione e fermarsi in un limbo tra paradiso e terra, con il canto degli uccellini, le folate di vento e un fulmine che picchia dall’altro, “Stasi Sui Tigli”, la conclusione, è un’ossessionante sequenza di suoni regolari, precisi, colorati e mirati. Pare di sentire l’acqua che cade incessante, le gocce che sbattono su superfici differenti ed emanano suoni poliedrici, le foglie si scompongono, un animale corre, e staziona sotto una pianta, sì, magari proprio un tiglio.

L’emozione, negli album elettronici, soprattutto in questo campo meno generoso di calore, è una cosa rara, solo pochi artisti sono capaci di regalarla. Pare strano tessere lodi per un esordiente, per giunta italiano e giovane. A fronte di tutto questo, però, Obsil fa musica emozionale, dona sensazioni, fa sognare, con un tocco tipicamente inesperto, deliziosamente appartato nel suo mondo fatto di sogni, capace di lasciar il segno nella mente del più casuale degli ascoltatori.


(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 23 ottobre 2006

Boduf Songs: "Lion Devours The Sun" (Kranky, 2006)


















Non ancora del tutto dissolta è l’impressione originata dalla luce fioca e dai toni dimessi del suo album di debutto “Boduf Songs”, senza dubbio una tra le novità più sorprendenti del 2005: poco oltre un anno è trascorso perché il cantautore inglese Mat Sweet desse un seguito alla ruvidità casalinga di quell’opera in un nuovo lavoro, solo in parte privato dell’immediatezza lo-fi che aveva contrassegnato la sua prima pubblicazione, ma perfettamente coerente con la scarna estetica di composizioni solo accidentalmente rivestite di una dolentissima forma canzone.

Come l’album che lo ha preceduto, “Lion Devours The Sun” raccoglie nove brani ridotti all’osso, costruiti sull’iterazione di pochi, semplici accordi di chitarra, immersi in paesaggi sonori angoscianti, sospesi tra desolazione metropolitana e ascesi isolazionista, appena solcati da effetti distorsivi e ritmi quasi impercettibili, spesso veicolati dalla stessa tenebrosa voce di Sweet, pervicacemente tesa alla ricerca di esitanti melodie, in grado di bilanciare almeno in parte l’oscura inquietudine che ammanta tutto il lento fluire dell’album. Il risultato è ancora una volta un’immobilità solo apparente, che avvolge composizioni esili, di spietata introspezione, nelle quali un timido raggio di sole si affaccia a volte soltanto per enfatizzare il contrasto con un’invariabile malinconia, quasi mai peraltro sfociante in cupezza opprimente.

La discesa nell’oscura spirale di “Lion Devours The Sun” inizia con i battiti in lontananza e gli arpeggi ossessivi che introducono “Lord Of The Flies”, sinistra ballata circolare nella quale la voce di Sweet, ridotta a poco di un sussurro, materializza da subito fantasmi e inquietanti visioni (“around your heart, dark wings beat”) di una realtà marcia, generata da “seeds of death, lost, disease”, mentre quasi incuranti scorrono limpide le poche note di una chitarra dall’austero sapore folk, che sarà l’unico e costante contraltare alle brumose atmosfere di tutto l’album. Qualora il mood dell’album non fosse già ben esplicato, “Two Across The South” provvede ad allargarne lo spettro musicale, introducendovi un incipit di distorsione ambientale sul quale si innestano sensazioni di sconfortato fatalismo (il primo e l’ultimo verso del brano sono: “I built a house from my mistakes”), pure supportate da una più articolata costruzione armonica, comprensiva di un sobrio arrangiamento d’archi che rimanda quasi all’astratta essenzialità di una Jessica Bailiff, qui però privata di qualsiasi lieve grazia.

“That Angel Was Pretty Lame” sembra in un primo momento presagire un’atmosfera più serena e meno plumbea ma, con lo scorrere dei minuti, i suoni sono inesorabilmente disciolti in una melassa torbida e scurissima. Arrangiamenti elementari e scheletrici, flebili richiami alla scena dark-folk (in primis Current 93), metallici field recording, suoni smembrati che sanno di rumore, un’aura di terrore. Elementi che si inglobano l’un nell’altro e si ibridano progressivamente, esplodono, implodono, si strascicano per sei minuti abbondanti di estasi misteriosa. Similmente all’episodio precedente, “Great Wolf Of No Tracks”, dipinge acquarelli stilizzati, semplici ma complessi in un sol frangente, immediati, immobilizzanti. Il risultato finale, nel suo complesso estetizzante, lascia al cuore ferite appena visibili, ma permanenti, non rimarginabili.

“Green Lion Devours The Sun, Blood Decends To Earth” si immerge ancora di più nel contesto congeniale all’artista, rallentando ulteriormente il ritmo di esecuzione. A supporto della chitarra, in questo episodio, par di sentire una piccola percussione ombrosa e silenziosa. Non un attimo di distensione, non un frangente in cui sembra apparire una parvenza melodica, ma soltanto lentezza, timbri, o per meglio dire, sussurri, aneliti, schizzi di un quadro incompleto o semplicemente incompreso. La voce, elemento portante di queste canzoni, si protrae stancamente (o con forza minimale, fate voi) fino alla conclusione, accompagnando la musica con un fare mistico, magico, fatato. In “27th Raven's Head (Darkness Showing Through The Head Of The Raven)” ritornano, in maniera prepotente, schiocchi elettronici finissimi, come successe nella bellissima “Claimant Reclaimed”, presente nell’esordio omonimo a cui s’era accennato all’inizio. Elemento, questo appena descritto, che sa rendersi importante, fondamentale per cesellare forse il pezzo più rappresentativo del disco. Lande malate popolate da una sorta di fantasmi che tagliano l’aria in tanti microscopici brandelli, emanando una melodia arcana.

La sofferenza che porta alla redenzione, il dolore. È questo ciò che significa il titolo della traccia numero sette (“Please Ache For Redemptive”), introdotta da un corposo drone, raggiunto da un lamento digitale dopo pochi secondi. E se ciò che segue appena dopo è un impulsivo rimestare percussivo, tutto ciò che segue si barcamena splendidamente tra fraseggi puramente improvvisativi e fantasie compositive. Le parole questa volta fanno spazio alla pura essenza del suono, se si eccettua uno sciamanico farfugliare, relegato in sottofondo. “Fall Of Cherry Blossom In Long Shadows Of Twilight” rincara la dose, per quanto riguarda l’essenzialità degli accordi, ridotti a semplici rivoli scomposti, fuori fase, gelidi. Fuochi d’artificio si lanciano nell’aria, scoppiettando colorati, con un borbottio insistente.

La conclusione spetta alla composizione più lunga e coraggiosa, “Bell For Harness”: quasi dieci minuti di note cadenzate con estenuante calma, un’apparente pace compositiva, falcidiata dalla voce, ancora, e soprattutto in questo caso, un anelito incombente e continuo, progressivo, sempre in procinto di esplodere ma mai capace di concedersi. È questa la testimonianza estrema e tangibile di come nella fosca visione di Matt Sweet la speranza non sia contemplata e nemmeno necessaria, dispersa tra il compassato scorrere del brano e l’indolente, rassegnato mantra “is your last lonely drive?”.

Una musica che trasporta ed è in grado di segnare profondamente, subito dopo l’ascolto, e nei momenti in cui la mente ritorna a quegli attimi, a tutto ciò che riguarda l’ora scarsa da dedicare a questa opera. Un’opera destinata a rimanere in sordina, per essere magari riscoperta fra qualche anno con clamore moderato, come in definitiva un qualcosa di importante. E importante lo può essere di certo per chi ha la pazienza di dedicarvisi e la voglia di schiantare la luce, immergendosi in un oblio di tonalità mutanti, paurose, taglienti, eppure dense di un calore umano aspro, a tratti urtante, spogliato com’è di qualsiasi rassicurante edulcorazione, ma proprio per questo vitale e autentico.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo

mercoledì 18 ottobre 2006

Mo'Some Tonebender: "The Stories Of Adventure"

 















tre rocker giapponesi: Momo, Takei e Fujita.

con alle spalle un buon numero di singoli e un paio di album, arrivano alla loro opera più compiuta con questo The Stories Of Adventure.

trasportato da un singolo bello da far male come Green & Gold, il disco è una commistione variegata e funzionale di noise-pop e art-rock, il tutto condito con una grande fantasia, sopratutto percussiva.

così, quando Green & Gold si tuffa in lande noise-pop (più noise che pop), Red Head si fa scheletrica ed essenziale, deliziosamente melodiosa.

Emperor Sun & Sister Moon si basa su un giro di basso ripetitivo e contagioso, l'inserzione di un flauto nell'impianto rock è alquanto straniante ma si accoppia benissimo, stranamente risulta anche piacevole. Le chitarre sono saturissime di feedback, il suono che ne esce si attorciglia allo stomaco e non si distacca più.

follie hardcore in No Way City, ritmi sincopati e scomposti in Unhappy New Age, una canzone rock sinuosa e sensualissima..

Eppoi, atmosfere post-rock compresse in 2 minuti in Heavy Hurted Song, distorsioni chitarristiche nella torbida Around.

Un'alternanza di animi impressionante nel terzetto finale. Purtroppo non riesco a trovare i titoli scritti con il nostro alfabeto.

comunque, la numero 11 è un rock scintillante e pazzoide dalla potenza inaudita, la numero 12 è un folk-pop alla Akeboshi, la numero 13 un autentico gioiello emo-rock.

e il rock si fa sentire anche dal Giappone.

venerdì 6 ottobre 2006

Le Temps qui reste (Francois Ozon)



















ovvero, il tempo che resta.

l'altra sera sono stato a vedere l'ultimo film di Ozon già autore di un'ottima pellicola qual'è Swimming Pool.

la storia di un fotografo parigino gay a cui viene comunicato la sua imminente morte, da lì a 20-30 giorni morirà per un cancro diffuso.

non emozioni a buon mercato, nè melodrammaticià scontata, proprio per niente.

un profondo viaggiare nella vita del protagonista, scandagliando paure, emozioni, meschinità e cattiverie.

rapporti lasciati a metà da una vita tutt'altro che regolare, valori ri-acquistati grazie alla calma che si crea nel suo animo, una grande voglia di far bene e aiutare gli altri. donare tutto se stesso nelle ultime ore, in quelle ultime ore che mai si dimenticherà prima di iniziare il suo sonno infinito.

film sottotitolato (per fortuna, visto le ultime esperienze di doppiaggio), la lingua originale (il francese) riesce a donare un non so che di vero, autentico.

la metamorfosi fisica e mentale del protagonista è affascinante ma al tempo stesso devastante.. quello che oggettivamente è un bel ragazzo, in fondo si tramuta in un viso smunto, bianco, sfasato.

dialoghi importanti come non mai, incentrati in un registro discussivo minimale e mai sopra le righe, sempre accorto nel svelare le particolarità poco a poco.

il finale, in tutti i suoi colori, si lascia andare in un mare di lacrime, mai gratuite, ma soltanto vere, autentiche.

un film che apparentemente parrebbe scontato, un'opera che nasconde così tanta forza emotiva da lasciare straniti.

Playlist 30/09 - 06/10

Japan-Mania 














Mika Nakashima: "Glamorous Sky" (7)

Mika Nakashima: "Love" (7,5)

Mika Nakashima: "Resistance" (7)

Mika Nakashima: "Will" (6+)


di lei c'è il thread sul primo singolo citato.

gli altri sono i suoi primi album e sono leggermente più pop rispetto ai pezzi di glamorous sky.

il tutto rimane ovviamente su livelli discreti, se non ottimi.

come dicono i voti, il mio preferito è Love, poliedrico e vario. fra folk, giapponesismi vari e una grande varietà percussionistica. Mika is my love.


















Tomiko Van: "Farewell" (7+)
c'è la recensione su ondarock.

comunque sia, un grande album. la title-track è emozionantissima, ascoltare per credere.

Complacence è davvero un pezzo incredibile. mi fa venire la pelle d'oca ogni volta che l'ascolto.

ovviamente i do as infinity non si scordano mai, ma ascoltando farewell mi sento meno triste per quando riguarda la loro definitiva dipartita..
 


Anoice: "Remmings" (7)

Cacoy: "Human Is Music" (7,5)


questo invece è l'altro giappone.

sulla scia dell'ultimo disco dei mono con world's end girlfriend, questi due album si posizionano in un ambito molto vago e poco delineato.

elettronica fredda e glaciale, paesaggi ambientali solcati da note di piano sognanti, ritmi stupidi e scemi.

il primo è più rilassato e silente, il secondo risulta più vario e genialoide.

se da una parte (Anoice) si punta su un'atmosfera dilatata e funerea, dall'altra si marcia sulla strada di un'elettronica arricchita da elementi divertentissimi, come i fiati del'iniziale FUneral March In March o l'organo di Piracle Pa.

la musica per l'autunno che viene, la musica per i cuori infreddoliti.

Il trip-hop che non c'era

Bowery Electric: "Beat" (7+)

Crustation: "Bloom" [8]

Olive: "Extra Virgin" (7)

dei bowery electric parlai a suo tempo di quel capolavoro che è lushlife.

questo è fortemente diverso, dove la voce su lushlife dipingeva paesaggi sonori splendidi, qua si incentra il suono su composizioni più lunghe e sopratutto quasi completamente strumentali.

ritmiche tipicamente trip-hop con accordi di chitarra pieni di feed-back molto rumorosi e taglienti.

il risultato in certi casi è un pò pesante da sopportare fino in fondo (alcuni pezzi sono 16 minuti), ma in certi contesti anche questi suoni risultano funzionali. diciamo che l'album è bello, sì, però la proposta è leggermente più ostica rispetto al loro ultimo album. o forse sono solo io che non ero in condizioni per ascoltarlo?

vabbè, se v'è piaciuto lushlife provatelo.

bloom è un altro di quei capolavori trip-hop che nessuno si è considerato.. dico purtroppo.

andrebbe proprio annoverato alla stregua dei suoi più famosi colleghi, questo disco.

battute basse, campionamenti tra i più disparati, linee di contrabasso grosse e gommose.

una voce semplicemente bellissima, un groviglio di bollicine elettroniche, un suono profondamente notturno. un disco da amare in ombra, distesi su un letto.

eppoi ci stanno gli olive, la versione easy-listening del trip-hop.

più vicini al synth-pop per certi versi, sempre debitrici alla scena madre di Bristol, riescono comunque a mettere insieme un album di tutto rispetto. This Time è pur sempre un signor pezzo, Safer Hands cade in qualche ritmo fuori fuoco, You're Not Alone è un fluido elettronico pennellato con rara precisione. diciamo un album fatto di alti e bassi ma pur sempre di un certo valore.

peccato che non fanno un disco dal 2000, peraltro molto buono, intitolato Trickle.

giovedì 5 ottobre 2006

Mika Nakashima: "Glamorous Sky"


















stasera mi andava proprio di ascoltare mika.

uno pezzi rock più belli usciti in giappone da un bel pò di tempo a questa parte.

il singolo è stato rilasciato sotto il nome nana, che è il personaggio che impersona mika nel film omonimo.

glamorous sky è... j-rock.

la voce è come sempre melodiosa e pungente, il contorno strumentale è semplicemente perfetto, senza un attimo di tregua. batteria incalzante, chitarre sferraglianti, un groove proprio irresistibile.

arrivare in fondo senza impazzire è difficile.

è stato trasmesso anche in italia su mtv, questo fine settimana...

oltretutto insieme ad altri video jappo... ^_^

le altre canzoni contenute sono sempre sul solito livello, improntate su un rock teso ma mai banale.

My Medicine si schianta davanti a un muro di chitarre cattivissime, Blood è un altro colpo al cuore, praticamente perfetta con il suo ritornello profondissimo ed emozionante.

ci sta anche Isolation, leggermente più calma e pensierosa, incentrata su un accordo di chitarra girato e ri-girato, intrecci ritmici per niente banali e un effetto complessivo di pura estasi j-rock.

in fondo ci stanno le versione strumentali di glamorous sky e my medicine.

da non perdere assolutamente l'album con le sue migliori canzoni, pubblicato l'anno scorso, semplicemente con il nome Best.

mercoledì 4 ottobre 2006

Clara Hill: "All I Can Provide" (Sonar Kollektiv, 2006)


















Riuscire a far confluire in un’unica tessitura diverse scuole di pensiero, diverse produzioni, e nasconderle nei giusti ricami, è stata l’abilità maggiore di Clara Hill. La bellissima ragazza, cresciuta tra house ed acid-jazz, è riuscita negli anni a livellare una capacità interpretativa fuori dal comune. Comincia giovanissima a cantare, appena adolescente, con il mito di Madonna nella testa e tanti sogni da realizzare. Con il passare del tempo, arrivata all’età di 17 anni, mette insieme un gruppo chiamato Superjuice, con un amico di vecchia data. Da il via a una serie di concerti all’intero dei club di Berlino che contano e la fama della sua ugola si spande fra i giri importanti. Conosciuto, durante una sua esecuzione, tale DJ Alex, componente dei Jazzanova, prende corpo fra loro una forta stima reciproca dal punto di vista artistico e da qui in poi la strada di Clara sarà solo in discesa. Arriva la collaborazione con i signori dell’house, i Masters At Work, arrivano i concerti con la sua nuova band, gli Stereoton, giunge infine il suo album di esordio, il sogno di una vita, chiamato “Restless time”. Un’opera ambiziosa e sinuosa, splendidamente ingenua, da consumare nei suoi piccoli particolari.

Questo “All I Can Provide”, rispetto al precedente, si mostra molto più curato dal punto di vista dei dei dettagli, si notifica un’apertura netta verso simbiosi electro-pop di svariata natura, sempre percorsi da una forte vena jazz, intrisi da una voce che sa di soul bianco fin dalle più piccole parole. Una disarmante delicatezza al canto funge da cornice barocca alle tecniche elettroniche, mai muscolose, che ne tratteggiano i bordi; al centro un involucro di fusioni eleganti e attraenti, sempre distinguibili per la ricercatezza sonora. Le esperienze del passato vengono gestite con classe, prendiamo ad esempio “Hard To Say”: in ogni suo passaggio la Hill adopera espansioni melodiche, gemelle dei sodalizi passati con  Masters At Work; l’incontro con Slope (“Just Let Me Know”), quindi, diventa ancor più avvincente e sensuale. Stessa direzione per “Did I Do Wrong”. Qui c’è ancora più spazio per aprirsi ad un luminismo vocale ed elettrico, maggiormente articolato; il ritmo digitale, imposto da King Britt, non abbandona (quasi) mai gli accenni soul della Hill. Spesso queste formule erano la ricchezza estetico-musicale dei ricevimenti post sfilata, delle celebrazioni altolocate parigine. Le limitazioni di quei suoni oggi vengono messe da parte, si vira verso una maggiore naturalità dell’elemento (sonoro) “fashion”. In “All i can provide” la cura del beat è svincolata dalle cristallizzazioni , maturando una flessibilità pop che sposa pienamente le strutture melodiche della “Canzone” odierna. I cinque minuti di contaminazioni Sylviane di “Endlessly” sono sufficienti per elevare l’intera caratura del disco, grazie anche al nichilismo esotico inferto da Sandboy. Convulsioni acide e irrisorie si fanno largo nel pezzo d’apertuna, “What For”, una cantilena malsana e ossessionante.  D’altronde, quando a metterci le mani c’è un certo Meitz, asso del future-jazz ed eminente figura del remix trasfigurante, il risultato non può che essere eccellente. Rimarcare ulteriormente le capacità di adattamento vocale della Hill risulta a questo punto noioso e ripetitivo. Sempre e comunque di ottima qualità le sue esecuzioni.

Arrivati fin qui, tutto ciò a cui “noi” possiamo provvedere, non è nient’altro che integrare le nostre fragili movenze alle grazie sonore della seducente Clara, ringraziandola, magari, con un semplice “merci tresor”.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli

venerdì 29 settembre 2006

Ascolti delle ultime due settimane (15<->28 settembre 2006)

Donne Techno-logiche











Sophie Rimheden: "Hi-Fi" (7,5)

Sophie Rimheden: s/t [8]

Sophie Rimheden: "Miss" (7+)


forte di un debutto grandioso come hi-fi, la ragazza in questione è un'artista con i fiocchi.

suoni minimali, screziati da una grande nuvola di glitch, minuzioso lavoro sulla voce, forte impronta al ritmo.

un AGF leggermente più pop a cui vengono sottratte le tentazioni avant, mai però scontata nè banale. precisione maniacale nel cesellare i ritmi, ombre di suoni smembrati, voci scomposte e ricucite in un microsecondo infinito.

sempre dall'esordio, Lovin' sbatte una percussione elettronica acidissima in primo piano, mettendo insieme un groove malato, In Your Mind è gommosa ed elastica, You è un capolavoro di pop strapazzato, snaturato, sviscerato. E ci sarebbe anche M, 60 secondi di parole spezzate appena uscite dalla bocca, accompagnata appena dopo da un groviglio malsano qual'è Panic, minimal-techno al sapore di click and cuts.













Sir Alice: "N°1" (7)

Sir Alice: "N° 2" (7,5)

Sir Alice: "?" (7)


la signorina in questione non è mica una di quelle tipe che scherza, eh.

artista a tutto tondo, collaboratrice in campo cinematografico, fashion designers, componente del laboratario dell'IRCAM, al cui interno si dedica agli studi per la fabbricazione di proprie macchine da utilizzare nelle sue performance.

vorrei soffermarmi su N°2, il mio preferito.

non ha genere questa musica.

si passa dall'electro spaziale e acidula di Superhero, scarice elettriche sotterranee di provenienza sconosciuta, rimbombi, ora sì, techno, veramente ingombranti e disorientanti in Technotronic, cantata in francese.

canzoni scomode, cattive, lasciate a sè stesse, senza un minimo di tatto.

E se Ballad si distingue per il suo procedere minimale ed estatico, Buda Is A Material Girl innesta bordate di rumore puramente pazzoidi, fra un'orgia di suoni provenienti da chissà dove, generati dalle sue opere.

L'Homme Qui Vient D'En Bas si invischia in atmosfere elettroniche darkeggianti, flebili, formando la colonna sonora per una palude scurissima, Onanisme conclude il disco con un rito digitale cantato dall'interno di navicella spaziale in movimento.














Leila: "Like Weather" (7,5)

Leila: "Courtesy Of Choice" (7)


altro tipino che che merita sul serio è questa leila, proveniente da un'esperienza con un'etichetta come la Rephlex. niente male come inizio, no?

Attiva con altri due moniker, essenzialmente utilizzate per lavori di remixing e supporto.

con Grammatix remixa la bellissima Desert della mia amata Emilie Simon, figurando nel singolo del primo album della francese.

con Little Miss Spectra, il suo apporto è profuso solo e soltanto nei confronti di Bjork, aiutandola nella produzione di un pezzo di Medulla, Where Is The Line.

venendo alla sua produzione principale, gli album all'attivo sono due.

elettronica fredda e silente, diretta verso il cuore del groove, mai sopre le righe nè eccessiva.

pescando a caso fra i due album, impressionano i patterns di archi nella splendida From Before...What?, flauti si scompongono con la tastiere di contorno nella simpatica Be Clowns, Luca Santucci canta in quel trip-hop spaziale che è So Low.. Amen.

magari il secondo è più ritmico e sostenuto, il primo si distingue per i residui del trip-hop che ci ricordiamo.

entrambi però hanno quel tocco di una produttrice elettronica più interessanti degli ultimi anni, peccato che ultimamente, che io sappia, non s'è più fatta sentire.

per quel che ricordi, in queste ultime settimane, il resto è questo:

Trespassers William: "Having" (7,5)

The Sundays: "Blind" (7)

The Sundays: "Static & Silence" (7-)

The Sundays: "Reading, Writing and Arithmetic" [8]

Velocity Girl: s/t (6,5)

Velocity Girl: "Simpatico" (7+)

Velocity Girl: "Gilded Stars and Zealous Hearts" (5)

Velocity GIrl: "Copacetic" (7,5)

Nanang Tatang: "Muki" [8]

lunedì 25 settembre 2006

Trespassers William: "Having" (Nettwerk, 2006)


















Che la musica, nelle sue diverse espressioni, riesca a trascendere lo spazio ed il tempo è premessa certamente scontata, ma per nulla superflua quando si tratta di accostarsi alla musica dei Trespassers William, band californiana giunta con “Having” al suo terzo album, che propone una formula musicale davvero fuori dallo spazio e dal tempo, non solo per suggestioni ma anche per palesi riferimenti artistici.

Non cessa di sorprendere, infatti, potersi immergere, nel pieno degli anni 2000, in atmosfere delicatamente dilatate, farsi accarezzare da un’eterea voce femminile, mentre moderati impeti chitarristici attraversano, rendendole concrete, raffinate sospensioni temporali create ad arte ed evocate dal fascino avvolgente di brani che raggiungono spesso un risultato quasi ipnotico. Insomma, non capita spesso di imbattersi oggi in una band americana, al cui ascolto il pensiero vada alla sognante wave britannica coagulatasi, almeno tre lustri addietro, in particolare intorno alle etichette 4AD e Creation. Ma i Trespassers William sono tutto fuorché nostalgici epigoni di quei suoni, poiché alla soavità femminea dei Cocteau Twins e al romanticismo incantato degli Slowdive – peraltro non meramente riprodotti, ma rielaborati secondo una sensibilità moderna e personale – uniscono una pienezza artistica derivante da esperienze e fascinazioni musicali molteplici, comprensive di richiami a strutture folk dilatate, al cantautorato fragile e intimista di Red House Painters e, soprattutto, al movimento rallentato delle composizioni dei Low, reso quasi impercettibile e ancor più dilatato dai Coastal, altra band statunitense che con i Trespassers William condivide coordinate artistiche e propensione per toni fiochi e ritmi sfumati.

Il sogno inizia a prender corpo con la fiaba intitolata “Safe, Sound”: la ciondolante voce della cantante trasporta le menti al di fuori della realtà, le flebili note di chitarra emanano melodia satura di rumore, l’atmosfera carica di tensione sembra implodere da un momento all’altro, mantenendo fino alla fine un’inquietudine repressa, donando attimi di delicatezza unici.

“What Of Me” ha un piglio più sommesso, sempre incentrato sulla voce estatica di Anna-Lynne Williams, il canto di un cigno bianchissimo e splendente. Pochissimi sono i suoi elementi: qualche accordo di chitarra, piccole linee di tastiera, una batteria dai tratti slow-core, finissimi rivoli di armonia stracciata e povera. Un brano per i pomeriggi uggiosi, da occupare con una canzone e lo sguardo rivolto verso l’orizzonte.

La netta formula espressiva della band viene poi arricchita con l’aggiunta di trattamenti elettronici appena udibili e di una drum-machine sottile e tenue in “Weakening”, ballata straniante e rarefatta, introdotta da loop circolari la cui essenzialità si trasforma ben presto in grazia melodica avvolgente e pensosa, sospesa tra i dubbi e le testarde certezze richiamate dal suo testo.

“Eyes Like Bottles” si scioglie in un deserto di melodia polverosa, mentre “I Don’t Mind” inizia soffice e dilatata, con una voce sempre più emozionale, sprofondando in un oblio di feedback chittaristico di piacevole ma discreta rumorosità.

E se avete bisogno di sognare, non resta che chiudere gli occhi ed ascoltare “Ledge”, abbandonando lo spirito a quel groviglio di note fioche, sospese a mezz’aria, colorate come non mai. Le parole decantate con tatto fanciullesco completeranno un paesaggio sonoro mai così rigoglioso, leggermente screziato da toni oscuri, solcato da un arcobaleno luminoso.

“And We Lean In” gira intorno a un accordo di chitarra estatico, l’atmosfera si fa pregna di pathos, le varie note si presentano con pacata dolcezza. L’incontro fra linee melodiche differenti, i piccoli rumori puntigliosi, quel modo di cantare splendidamente oscuro, ogni singolo particolare contribuisce a spedire i sensi verso il cielo.

Nelle ultime tracce è poi la sottile malinconia, latente per tutto l’album, a prendere il sopravvento: la voce di Anna-Lynne Williams si fa ancora più suadente, avvolta da un’impalpabile coltre armonica, appena solcata da un andamento ritmico soffuso e accurato: così, in “My Hands Up”, e soprattutto nel suo finale in crescendo romantico, emergono ancora più evidenti le stimmate dell’eredità dreampop/shoegaze, mentre in “Low Point” è una melodia cullante a segnare uno dei passaggi più rilassati del lavoro, nel quale tuttavia l’apparente serenità resta sempre venata da un’introspezione profonda e delicata al tempo stesso. E in tema di introspezione, è la successiva “No One” a toccare una delle vette d’intensità dell’intero album, in una ballata quasi immobile il cui fulcro è ancora la voce di Anna-Lynne che, contornata dagli archi e da pochi altri effetti in lontananza, declina con grazia infinita il topos della canzone d’amore secondo la sensibilità della band, a metà tra il sogno richiamato dalla prima parte del testo e la desolata consapevolezza di un verso come “no one can punish me like I do”.

A coronare un album così ricco emotivamente, nonché articolato per contenuto musicale, provvede infine perfettamente “Matching Weight”, i cui oltre dieci minuti di durata sembrano riassumere le caratteristiche fondamentali alla base dell’intero lavoro: la dolcezza mai stucchevole della forma canzone, le avvolgenti dilatazioni ambientali e le asperità chitarristiche affioranti qua e là. Sono in fondo questi tutti elementi ben noti e sviluppati, in un passato più o meno recente, in molteplici esperienze artistiche; ma non per questo “Having” è un album nostalgico o emulativo. Anzi, la sua maggior qualità risiede proprio nella sapiente e personalissima fusione dei suoi elementi, grazie alla quale i Trespassers William conseguono un risultato esteticamente incantevole, dando luogo a un’opera profondamente calata in un microcosmo fatato e impalpabile, racchiusa in un attimo che sembra infinito, capace di sfuggire dal nostro controllo come un mucchietto di sabbia svanisce su una mano, eppure tenero e reale come un caldo abbraccio.

(7,5)

recensione di Biancalana Alessandro e Raffaello Russo