lunedì 6 gennaio 2014

Black Hearted Brother: "Star Are Our Home" (Sonic Cathedral Recordings, 2013)















 Reduci di un'era passata e più volte rievocata, Neil Halstead e Mark Van Hoen presentano nel 2013 un nuovo progetto dal sapore solo in parte nostalgico. Coadiuvati dal terzo componente Nicholas Holton (Holton's Opulent Oog, Coley Park), il debutto “Stars Are Our Home” lascia da parte le più ovvie tendenze delle due teste pensanti – l'elettronica per Van Hoen, lo shoegaze e il folk per Halstead – per proporre un disco di forgiato da una psichedelia dolce, screziata solo superficialmente da feedback di chitarra e increspature elettroniche. L'ispirazione bucolica, oltre a scrittura e registrazione improntate all'immediatezza piuttosto che al cesello, sono gli ulteriori elementi che contraddistinguono questo strano oggetto.

Muri di chitarra prendono il sopravvento con sapori variopinti (l'accoppiata, tagliente e sulfurea, composta dalla title-track e da “(I Don't Mean To) Wonder”), piccole praline psych-pop scintillano in una notte infinita (i bei ricami electro di “If I Was Here To Change Your Mind”, la solarità di “This Is How It Feels” e “Got Your Love”) mentre le esplosioni di matrice post-rock irradiano le folate di “Time In The Machine”. Quando saremmo sul punto di dire che questo è un disco più di Halstead che non di Mark Van Hoen, troviamo un'adorabile filotto in cui c'è tutta la sensibilità elettronica dell'inglese. Abbiamo l'imbarazzo della scelta fra l'adorabile beat metallico di “Oh Crust”, le movenze electro-pop di “My Baby Just Sailed Away” e gli incastri ambient-pop di “I'm Back”. Suoni sicuramente già sentiti in passato con gruppi quali Locust e Scala, mai usciti di moda e calati con sapienza in un contesto differente dall'uscita solista. Quando è invece l'animo rurale e intimista di Halstead a prevalere siamo di fronte a fragili intarsiature pop come da sua maniera, ascoltare a tal proposito “UFO” e sopratutto la toccante “Take Heart”, parente della levità dei Mojave 3. La conclusione, un perfetto mix delle varie estrazioni degli artisti, pone la parola fine nel modo migliore, con un sorriso e una spensieratezza benaugurante (“Look Out Here They Come”).

Si ha l'impressione che questa sia un'uscita quasi liberatoria per gli artisti in ballo, una divagazione dai lavori in proprio, un qualcosa fuori dal comune difficilmente ripetibile. Tuttavia il risultato è veramente di altissima caratura, calibrato, emotivo, straripante, un tuffo in un passato non troppo lontano, una manciata di canzoni dal sicuro interesse per molte generazioni di ascoltatori.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana