lunedì 16 maggio 2011

Mercury Rev @ Estragon, Bologna / 11/05/2011




Tredici anni e non sentirli. Tale è il tempo che ci separa dalla data di pubblicazione di “Deserter's Songs”, il capolavoro dei Mercury Rev e il loro disco più conosciuto. Annunciata un'operazione di rivisitazione con un doppio cd rimasterizzato inclusivo di demo, outtakes e vari scarti di produzione, viene inoltre pianificato un tour celebrativo in tutta Europa con particolare attenzione per Inghilterra ed Irlanda. Dopo un doppio disco di grande fascino come “Snowflake Midnight” - “Strange Attractor” pubblicato nel 2008, il gruppo torna a far parlare di sè con un'operazione ad ampio raggio, a cui i fan hanno reagito con grande clamore fin dai primi attimi in cui la notizia è trapelata sul web.

Epici e deliziosi cantastorie di una psichedelia tutt'altro che banale, i Mercury Rev sono stati e sono una band prorompente nel proporre le loro idee rivoluzionarie. Autori delicati e portatori di un'ispirazione mai urlata, la loro fama si è formata a suon di album ineccepibili sotto ogni punto di vista.

La sera dell'11 maggio è un tiepido contesto tardo primaverile per un evento che definire unico è un eufemismo. Dopo l'introduzione dei post-rockers italiani Julie's Haircut (interessanti le loro cavalcate soniche) arrivano sul palco i cinque di Buffalo e il tripudio del pubblico non troppo numeroso è assicurato. La struttuta della performance sarà decisamente lineare: dopo l'esecuzione pedissequa di “Deserter's Songs” sarà il momento di un ritorno sul palco con qualche chicca proveniente dalla loro nutrita discografia. La prima sensazione riguardante il concerto non è positiva, il contesto da grande platea costringe la formazione a un approccio sonoro decisamente rock, andando a discapito delle dolci effusioni elegiache presenti su disco. Il marasma chitarristico, unito a un batterista decisamente troppo esagitato per un suono così particolare, portano a un quasi completo oscuramento della splendida voce di Jonathan Donahue. Purtroppo questo errato bilanciamento dei toni condiziona un po' tutte le canzoni, attenuato solo in parte nei pezzi più movimentati dove giustamente la verve ritmica deve essere maggiore.

Tuttavia la forma smagliante del cantante (un autentico performer istrionico), unita alle prodigiose melodie provenienti dalle tastiere, riesce a creare un'atmosfera ugualmente evocativa. Oltre a qualche coda strumentale di forte impatto, l'interpretazione dei brani risulta solida e poco personalizzata; nonostante ciò non si sente granché bisogno di novità nella perfezione formale ed emotiva di brani come “Holes”, “Tonite It Shows” o “Opus 40”. Gli squarci vocali angelici di Donahue accostati alle linee di tastiera sono il più grande regalo che la musica degli anni '90 ci ha donato, ascoltare dal vivo questi suoni è un autentico sogno ad occhi aperti. La sorpresa che fa quasi sorridere è il rigido rispetto della scaletta dell'album, infatti verranno eseguiti perfino i tre piccoli strumentali posti nei punti strategici dell'opera.

Tornati sul palco dopo qualche secondo di pausa, viene raggiunto l'apice del concerto in termini di splendore con le esplosioni pop dell'epica “The Dark Is Rising” e il caos ritmico di “Senses On Fire”, in un fragore di suoni e sensazioni, degna conclusione di un'esibizione a tratti davvero toccante. Con le dovute riserve per gli errori già segnalati, lo show si attesta su livelli di eccellenza in diversi frangenti, regalando attimi di pura emozione nostalgica.

recensione di Alessandro Biancalana

lunedì 9 maggio 2011

Gold Panda: "Lucky Shiner" (Ghostly International, 2010)




Artista nato nell'hinterland londinese (Chelmsford) ventott'anni fa, Derwin Panda aka Gold Panda è uno dei molti talenti emersi prepotentemente dal grigiore della periferia. Capace di mascherare delle precise intenzioni stilistiche con assalti ritmici frizzanti, il ragazzo mischia sapientemente tante influenze ottenendo un risultato esaltante. Idm, techno, electro e certi suoni mutuati dall'indie-tronica sono le sue principali fonti d'ispirazione, mai perfettamente distinguibili ma solo percettibili in lontananza. Dopo il debutto con il vibrante singolo “Quitter's Raga” su Make Mine, è stato un susseguirsi di pubblicazioni minuscole (fra cui l'ennesimo singolo “You” su Notown) oltre all'incessante attività da remixer per nomi come Telepathe, Bloc Party, Simian Mobile Disco e The Field.

Il passo dagli esordi al primo disco è breve. Pubblicato in collaborazione fra Notown e Ghostly International, “Lucky Shiner” è un compendio di elettronica moderna, perfettamente calato in un'era di sfrenato post-modernismo. Scardinando ogni schema, il disco viaggia spedito disorientando l'ascoltatore con un approccio alla composizione decisamente schizofrenico e movimentato. Si ha la sensazione che Gold Panda abbia espresso solo in minima parte il suo potenziale tale è la deliziosa confusione che regna all'interno della sua prima prova lunga. La mancanza di riferimenti dona brio e rende “Lucky Shiner” uno spumeggiante teatrino cibernetico.

Riproposta in apertura la già citata “You” - esuberante giostrina da videogioco impazzito - si alternano senza apparente continuità stravaganze impossibili da classificare (chitarra bucolica per “Parents”, il caos irrefrenabile in “I'm With You But I'm Lonely” e la saturazione di “After We Talked”), solidi ancoraggi alla tradizione techno (stomp granitici in “Vanilla Minus”, “Snow Taxis” e “Before We Talked”) ed episodi di idm contaminata (la splendida intro eterea di “Same Dream China”, l'astrusa commistione etnica di “India Lately”). Con le restanti “Marriage” (un soffocante groviglio di synth) e la finale “You.” (geniale il loop di rullante e charleston) l'album chiude il cerchio con sfrontatezza e coraggio.

Raccolta di tracce intrise di tradizione mista a innovazione, l'album di Gold Panda promuove l'artista come punta di diamante della scena elettronica internazionale. Non uno sparuto comprimario ma talento audace e geniale, Derwin Panda ha le carte in regola per scardinare ogni certezza e mettere in crisi anche il più esigente degli ascoltatori.

P.S.: Al momento della pubblicazione di questa recensione Gold Panda ha rilasciato una compilation intitolata “Companion”, nella quale vengono raccolti quasi tutti i singoli pubblicati a inizio carriera, oltre a qualche inedito. Da non perdere per completare il percorso dell'artista.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

martedì 3 maggio 2011

Susanne Sundfor: "The Brothel" (Groenland, 2011)




Norvegia, terra fredda e ostile, la cui vita è scandita da pause interminabili e inverni severi. Oltre a questi stereotipi, pensando a certi luoghi è più interessante citare i talenti emersi dalle sue lande sperdute: dai miti dream-pop Bel Canto, ai Royskopp, fino alle sensazioni di nicchia quali Flunk, White Birch e Alog. Non è ben chiaro quale sia il fattore che spinge tantissimi giovani nordici a intraprendere la carriera da musicisti, tuttavia è palese che l'ispirazione da quelle parti è decisamente sopra la media.

In questo calderone entra di diritto anche Susanne Sundfør. Nata e cresciuta a Haugesund, in un'idillio di mare e natura, la ragazza conduce un'infanzia e un'adolescenza ordinaria. Fra lezioni di piano e i dischi del padre (le leggende synth-pop a-ha e Cat Stevens), la sensibilità si forma in un inconsapevole processo di maturazione sia umana che artistica.

Dopo due prove relativamente normali come l'esordio omonimo del 2007 e “Take One” del 2008, la nascita di “Brothel” segna nella carriera di Susanne un punto di svolta cruciale. Presa la decisione di fare della musica un mestiere di vita, arriva la possibilità di registrare il disco con il supporto di uno stuolo di professionisti, un profondo cambiamento rispetto al lavoro domestico delle due precedenti opere. Assoldato Lars Horntveth (storico componente dei Jaga Jazzist) in sede di produzione e composizione, l'album fiorisce dalle mani e dalla mente della Sundfør con un'intensità espressiva raggelante. Paragonabile in questo senso all'esordio di Soap&Skin di due anni fa, “The Brothel” è un contenitore di emozioni esplosivo, non un'opera cantautorale in senso stretto, quanto piuttosto una raccolta di canzoni diverse l'una dall'altra, contraddistinte da una forte impronta caratteriale. La voce, un'ugola capace di coprire cromature fra le più inusuali, ricorda il lirismo incantato della sua conterranea Anja Øyen Vister, cantante dei già citati Flunk.

Variando lo stile dallo schema della ballata pianistica ombrosa, fino all'electro-pop martellante, le dieci tracce toccano vette di assoluta passionalità. Dove docili note di tastiera sono l'unico decoro alle linee vocali (gli splendori dream-pop della title-track, oltre che la finale “Father Father” e “O Master”) un'atmosfera rarefatta si impossessa della scena, miscelando perizia e trasporto istintivo con naturalità. L'alternanza di tonalità permette all'opera di non cedere mai il passo alla distrazione, proponendo staffilate metalliche industrial-pop (“Lilith”), orge electro (il beat prepotente di “It's All Gone Tomorrow”, l'ariosità malsana di melodie traviate in “Lullaby” e “Turkish Delight”), e nenie dark dalla deliziosa ambiguità (lo strumentale “As I Walked Out One Evening”, i timpani tuonanti in “Knight Of Noir”).

Affascinante e seducente musa nordica, Susanne Sundfør rompe ogni cliché compositivo e mette insieme un album sorprendente, del tutto estraneo a schemic e categorie. Ennesimo talento sbocciato dalle parti del Mar Nordico, la norvegese lascia da parte la misura, riversando tutta se stessa, anima compresa, in un terzo album che sarà difficile dimenticare.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana