giovedì 31 agosto 2006

Camera Obscura: "Let's Get Out of This Country" (Merge, 2006)

















il nuovo album degli scozzeri camera obscura è bellissimo.

loro sono una delle "mie" band.

sognavo nel 2003 con l'uscita di Biggest Bluest Hi-Fi, uno degli album pop più belli degli ultimi anni. al banco di produzione stava Stuart Murdoch dei Belle & Sebastian e si sentiva. oh sì, quel pop così poteva uscire solo da quelle mani.

poi venne il secondo Underachievers Please Try Harder. la voce di Tracyanne Campbell prendeva ancora più campo, le influenze (Belle & Sebastian, Of Montreal, Field Mice) che potevano parere ingombranti ora sono soltanto ispirazione cristallina. Pezzi come Your Picture, Lunar Sea e Keep It Clean sono gioielli pop di rara raffinatezza.

eppoi viene questo, arrivato a noi dopo un periodo abbastanza bruttino per la band. prima la morte di John Peel, loro grande estimatore e sostenitore, poi la perdita di John Henderson come componente della band.

pareva quasi la fine ed invece l'anno scorso viene pubblicato l'EP in onore di Peel dal nome I Love Jean.

L'album che ne esce fuori, ispirato dalla vena compositiva delle tracce provenienti dall'EP citato poco fa, da mesi è uscito anche in Italia.

Armonie vocali deliziose, partiture classiche, pure canzoni pop composte con amore e dolcezza.

l'iniziale Lloyd, I'm Ready to Be Heartbroken ti si stampa in testa e puoi arrivare ad ascoltarla anche 30 volte di seguito. non c'è scampo, la melodia è maledettamente sinuosa e sbarazzina al punto giusto. aperture ariose ed emozionanti, voce raffinata, leggermente infantile, refrain regolare e balzellante. forse il mio pezzo pop dell'anno.

Si passa dalla ballata dal sapore melanconico di Tears For Affairs, si attraversa con il sorriso i quattro minuti scarsi della spensierata Come Back Margaret, fino ad arrivare al country rustico e percussivo di Let's Get out of This Country.

Dory Previn dondola tra un accordo di chitarra disteso, un fraseggio di tastiera disciolta in un raggio di sole, una voce femminile che racconta storielle di un paese lontano.

Eppoi, ancora, la claudicante The False Contender, sorretta da una batteria poverissima, l'essenziale e necessaria canzone tutta voce e chitarra da far emozionare anche un pezzo di ghiaccio la si può trovare in Country Mile.

Rock sporco e lasciato a sè stesso in If Looks Could Kill, lascito finale di toccante leggiadria nella conclusiva Razzle Dazzle Rose, un pezzo che ti lascia il sorriso sulla bocca qualsiasi cosa ti sia successa.

un amore di disco, c'è poco da farci..

giovedì 24 agosto 2006

Utada Hikaru: "Ultra Blue" (Toshiba EMI, 2006)

 








La più grande stella del pop giapponese ritorna dopo l’ottimo album dell’anno scorso, “Exodus”.

Due dischi nel giro di due anni, due opere profondamente diverse ed ugualmente attraenti.

Se “Exodus” era rimasto invischiato in ritmi quasi techno-idi, “Ultra Blue” riprende il discorso lasciato in sospeso da album come “First Love” e “Deep River”. Un discorso che entra nel profondo del genere, il j-pop, sfruttandone tutte le possibilità artistiche ed espressive.

“Exodus” si lasciava spesso sedurre da sonorità oscure e ossessionanti, “Ultra Blue” è un album felice e adorabile, contenente canzoni che riescono ad allietare e rendere gioiosi, costruite con perizia tecnica ed attenzione ai particolari realizzativi.

Il disco è stato preceduto da un singolo a dir poco perfetto: “Keep Tryin’”. I tratteggi vagamente trasognanti, sorretti da note di tastiera spaziale, si scontrano con un’interpretazione tutta cuore e passione, portando a compimento una canzone splendida per caratura artistica ed emozionalità musicale.

La voce di Utada merita un discorso a parte. In questo album è al massimo delle sue possibilità, poliedrica, emozionante, mai scialba né scontata. La melodia vocale di “This Is Love” è pura dolcezza sonora, gli spasmi di “Blue” sono deliziosi, il pacato incedere di “Kairo” è  un piacevole tuffo in un frangente di essenza romantica. Dopo ripetuti ascolti salta subito all’attenzione il grande sforzo fatto sia da parte dei produttori che dietro le quinte compongono la musica, sia da parte della cantante, che, cosciente delle sue capacità, si tuffa in qualcosa di ambizioso, cogliendo in pieno il centro.

Come si può notare ascoltando il predecessore di questo disco, in quel caso, la voce era leggermente ottenebrata dai ritmi molto ingombranti e, qualche volta, limitanti per l’esecuzione di Utada. Non un difetto, visto che in quell’occasione la musica era praticamente perfetta e la voce relegata leggermente in secondo piano non comprometteva la qualità delle dei singoli episodi. Oltre a questo fatto, veniva spersonalizzata la natura del prodotto, eliminando il cantato giapponese, sostituito dalla lingua inglese.

La già citata “This Is Love” è un altro episodio felicissimo, forse fra le canzoni più belle del genere negli ultimi anni, al pari di “Honey Comes” di Maaya Sakamoto e “Complacence” di Tomiko Van. Nonostante siano pezzi molto differenti, lo spirito con cui sono stati creati è lo stesso, sentito e profondo.

“Blue”, come indicato prima, vive su sali e scendi vocali, attimi melodiosi ed altri scomposti, “Making Love” prende il via con un drumming di batteria incalzante, poi attorniato da bleeps elettronici spumeggianti e colorati, in tutto questo le parole cesellano una storia sconosciuta.

Gli animi si fanno più pacati e “silenziosi” con la malinconia di “Dareka No Negai Ga Kanau Koro”, essenziale e pura, semplice quanto il sorriso di un bambino, incantevole come il tramonto in un giorno di sole.

Armonia vagamente orientale nella successiva “Colors”, la strumentazione classica del pop esegue a perfezione il compito, lo scontro fra questo suono che dondola sensuale e alcune screziature classiche è inusuale e grazioso.

Deliziosa stupidità nella spensierata “One Magic Night”, con la collaborazione di Yamada Masashi. Il bel gioco vocale, composto nel porre due esecuzioni sullo stesso piano, con l’aggiunta di un ritornello volutamente sgangherato, sa dimostrare quanto, se ce ne fosse di bisogno, i produttori giapponesi sappiano come costruire una bella canzone partendo da elementi essenziali.

“Kairo” è una litania straziante e strappa lacrime, in cui strumenti casualli fanno capolino con tatto e gentilezza, “Wings” è un pezzo più classico, con un piano fortemente presente, suonato sensibilità, gocce di cristallo sonore piovono dall’altro, un refrain irresistibile si innesta con il suono di un flauto scanzonato.

“Be My Last” è forse la composizione più romantica della sua carriera, gli urli strazianti di una fatina disperata dovuti alla fine di un amore, “Eclipse (Interlude)” è un trascurabile intermezzo elettronico.

Il finale affidato a “Passion”, basata ancora su una forte componente percussionistica in cui la batteria è sempre in primo piano, incessante e imprendibile. La voce di un angelo spicca ancora il volo per condurci in luoghi coloratissimi e sognanti.

“Ultra Blue” presenta al mondo intero Utada Hikaru, visto che avrà una distribuzione degna di nota e si vocifera addirittura un tour mondiale. Un biglietto da visita migliore di questo non poteva certo essere proposto.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana

domenica 20 agosto 2006

Playlist of the Week 12/08 – 18/08


 















James Figurine: "Mistake, Mistake, Mistake" (Plug Research, 2006)

dopo figurine e, sopratutto, dntel, jimmy tamburello torna con un altro disco sotto il moniker james figurine.

un disco ritmico e danzerino, in alcuni frangenti pure oscuro e minimale.

l'influenza della techno berlinese è evidente ma, nonostante questo, le tracce sono personali e il suo tragitto stilistico subisce un'ulteriore trasformazione significativa, ma non centrata appieno.

i pezzi cantati alla lunga non resistono poi così tanto, gli episodi strumentali, invece, sono più sostenuti e ritmici, complice anche la collaborazione con John Tejada. a testimoniarlo ci sta lì Ruining The Sundays, una minimal techno al fulmicotone.

carino, molto carino. ma non eccezionale.

(6,5)













Ami Yoshida: "Tiger Thrush" (Improvised Music From Japan, 2003)

una cagata inenarrabile per la maggior parte degli ascoltatori che si approcciano a questo disco.

questo è il giappone dei pazzi sperimentatori che compongono i dischi con chissà cosa in testa.

una colata lavica di rumore (in)sopportabile. un lavoro che sa di rabbia, follia, rassegnazione e scriteriatezza.

la ricerca del frangente noise coeso e mai messo lì per fare figura, la voglia di comporre sì un'opera estrema, ma anche un qualcosa di significativo.

99 schegge di dolore pungente.

[8]














Nami Tamaki: "Make Progess" (SRCL, 2005)

e questo è l'altro Giappone. quello delle j-pop-girls con i vestitini attillati e i capelli perfetti.

uno dei dischi di pop giapponese più belli ascoltati negli ultimi anni, Reason rimane e rimarrà una delle canzoni a cui sono più legato. tutti i pezzi sono intrisi da una forte componente elettronica, la voce di nami è bella come non mai, sopratutto in episodi come Daybreak, Kurayami Monogatari e Distance.

(7,5)
















Aghiatrias: "Epidemia Vanitatis" (CatchArrow Recordings, 2002)

il terrore sottoforma di musica. la colonna sonora degli incubi più reconditi.

un album di dark-industrial-ambient bello e profondo, dilungato e gelido come si confà ai dischi del genere.

l'iniziale Semen è un solco di buio e battiti silenti, un flusso sonoro si sviluppa e si sfascia con potenza impressionante, le voci urlano una serie di frasi sconnesse.

Epidaemia è altrettanto oscura e infinita, forse più rarefatta e silenziosa, meno aggressiva. una grande di varietà di suoni si miscelano con naturalità, riuscendo a creare un'atmosfera naturale, quasi il rumore di giungla sconfinata e sempre uguale, indistinguibile angolo per angolo. attimi di pura paura e terrore sonoro.

le due conclusive Invocatio e Terror sviluppano questi temi variando le componenti e l'approccio compositivo, risultando, a conti fatti, composizioni fuori dal comune e dalla bellezza inusuale.

(7,5)

VV. AA. :"Childish Music" [8]

Riow Arai: "Device People" (7)

Busdriver & Radioinactive with Daedelus: "The Weather" (7)

Voxtrot: "Raised By Wolves EP" (6+)

The Weegs: "Meat The Weegs" (7+)

Clearlake: "Cedars" (7)

Cansei De Ser Sexy: s/t (4,5)

Byla: s/t (7)

Clinic: "Winchester Cathedral" (6,5)

Notwist: "Neon Golden" (8,5)

Letfield: "Leftism" (9)

venerdì 18 agosto 2006

VV. AA. : "Childish Music" (Staubgold, 2005)

 










musica per bimbi, bimibi che sognano con le stelle sopra di loro, rivolti verso l'alto con il sorrisino felice.

ben 25 pezzi di rugiada colorata, piccoli bozzetti musicali che paiono luccicare all'infinito, senza sosta.

compilata da un certo Ekkehard Ehlers, la selezione è squisitamente deliziosa, l'alternanza tra elettronica spumeggiante e suoni puntigliosi è un piacere, secondo per secondo.

La Fun Club Orchestra riproduce i gargarismi di un bimbo davanti allo specchio, magari con il mal di gola, e il colluttorio sotto mano. il complesso jappo Maher Shalal Hash Baz con Good Morning, ci da il buongiorno con la manina levata in segno di saluto.

il giocattolino che si chiama Lucky Bugs Win Prizes è un carillon frizzante messo insieme dalle mani di Hassle Sound.

Lawrence aka Peter M. Kersten spezzetta partiture classiche e ci sovrappone bollicine elettroniche dai colori variegati, come se riflesse da un sole mai così sereno.

Dr. Rockit, che poi non è alto che Matthew Herbert in incognito, pone click and clap sopra una melodia di tastiera dolcissima, Yuichiro Fujimoto cesella, con il suo solito gusto melodico, una piece fatta di campionamento e percussioni delicatissime. xilofono, fisarmonica, rumori microscopici, voci femminili gioiose. musica gracile e candida.

Loop chitarristici attorniati da note piccole così di piano in Let's Pretend di La Grande Illusion, folk strampalato e visionario in Tic Tac di World Standard (aka Sohichiro Suzuki), soave gioiellino chitarristico nella successiva Humidity Of Mountains di Arrow Tour (aka Jiro Yoshizawa).

Lo sconosciuto di turno fa di nome Rdl, e non demerita per niente. anzi, mi incanta proprio.

il suo pezzo è un accordo ripetuto tante-tante volte su cui viene spiaccicato un drone serpeggiante e sinuoso. varie anime sonore si sviluppano con il passare dei secondi, cesellando un microcosmo sonoro di rara raffinatezza.

ancora chitarre piccine picciò in Sweet Raphael di Guido Möbius, questa volta si aggiungono noise e spigolosi fiati borbottanti, F.S. Blumm (higly recommended), ci insegna quanto sia semplice effigare la canzoncina più bella che c'è. la traccia si intitola semplicemente Fa, ed è semplicemente adorabile.

Il complesso tedesco Kammerflimmer Kollektief spruzza un pò di ritmo jazz, un jazz stravolto e stranito da un andamento claudicante, scomposto, indeciso. virtuosismi fiatistici accompagnati per mano da un tappeto di vivaci tinte elettroniche.

l'hippie del 2000 Devendra Banhart batte le mani e canta nel cortissima Make It Easier, Oren Ambarchi seduce nella sua Creepy Crawl. Voci in reverse, scomposizioni chitarristiche, flussi ritmici devastati da un trattamento cattivo e oscuro.

i miei amori Asa-Chang & Junray e Nobukazu Takemura mettono in fila forse i due pezzi più belli della raccolta. dei primi c'è poco da dire: sono il complesso di musica sperimentale giapponese tra i più importanti di questi anni. Takemura è una delle figure più rappresentative di tutta questa scena, insieme a Aoki Takamasa e Takagi (love) Masakatsu.

il primo pezzo, Kobana, si basa su una melodia malinconica di armonica su cui si innestano zampilli elettronici. le percussioni devastate da un processo destabilizzante sono una trovata incredibile, la voce strozzata recita una fiaba antica. stupenda e a suo modo emozionante.

il motivetto pseudo-pop di Nobukazu è molto semplice: tastiera, xilofono, voce femminile. non c'è nient'altro da aggiungere per costruire (tasselo per tasselo) un mosaico musicale affascinante.

In mezzo a queste due perline s'era messa in mezzo anche Ritterball di Harald Sack Ziegler (chi lo conosce?), un pregevole lavoro di campionamento concreto, ben prodotto e coeso.

Lullatone canta la ninna-nanna per i nostri bimbi in Wooden Toy Trumpet, e siamo sicuri che faranno sogni d'oro. stelle sprizzano colore per il cielo notturno, lucciole svolazzano indisturbate, luci in lontananza guidano la vista.

Anne Laplantine s'è messa in testa di farmi innamorare, visto che la sua December è davvero incantevole. il progessivo intrecciarsi di pattern chitarristici è dolcezza sommessa, i fiati strombazzanti sono un ossessivo disturbo che si presenta con frequenza.

ritmi da salutare con la lente di ingrandimento per Asao Kikuchi in Kula Botanical Gardens, pop scanzonato nella sorridente Meets Cybermohalla di Bernadette La Hengst.

ancora giappone, questa volta i componenti sono ben conosciuti. si presentano gli Sketch Show, che annoverano nelle loro fila ben due componenti della Yellow Magic Orchestra di Ryuchi Sakamoto. cioè i restanti due: Haruomi Hosono e Yukihiro Takahashi.

la loro Fly Me To The River (remixata da März) è una composizione soffice e accomodante. un pezzo pop di bellezza così semplice e diretta potevano scriverla solo loro. il sample di violino è semplicemente delizioso.

concludono altri due artisti di cui sono follemente rapito. Kazumasa Hashimoto e Takagi Masakatsu.

del primo ho adorato il suo ultimo album, del secondo mi sono lasciato emozionare dalla ristampa di Journal Of People.

Noaro si contraddistingue per la solita naturalità con cui si innestano suoni digitali e frangenti di musica classica. il piano è uno strumento tanto caro a Kazumasa e questo si sente. in ogni suo album c'è una forte componente pianistica, in questo non si smentisce. le scale vengono contornate di bleeps gentili che, con l'apporto della chitarra, compongono qualcosa di inestimabile, da tenere di conto e non lasciarsi sfuggire.

Takagi ha un qualcosa di prezioso in sè. non so dove lo trovi, pero c'è.

anche qui mi lascia a bocca aperta con il suo gusto nel mettere insieme cose magari inconciliabili, come le urla felici di un gruppo di bambini divertiti da chissà cosa, una partitura di xilofono senza senso, tastiere dilungate, una drum-machine profonda e solenne.

le voci dei fanciulli beati e festosi è proprio il finale giusto: d'altronde è un disco fatto per loro.

mercoledì 16 agosto 2006

DOT ALLISON & ONE DOVE













è davvero lontano il 1993. l'anno in cui venne alla luce l'album della band di origine di Dot Allison.

la band, di cui è fondatrice proprio dorothy, si lancia nel mercato con un paio di pezzi che verranno remixati un pò da tutti. sopratutto da un certo Andrew Weatherall, di cui un pò tutti conoscono il valore e l'influenza del suo lavoro nel panorama elettronico degli ultimi anni.

pensare che la band ha conosciuto andrew proprio in Italia, precisamente nel 1991, a Rimini, durante un loro set. in cui presentavano il singolo Fallen.

il primissimo 12" rilasciato si intitola White Love ed è una raccolta di 4 remix del pezzo che da il titolo all'uscita. si cimentano il già citato Andrew Weatherall ed altri personaggi che dell'arte del remix ne sanno qualcosa: Jon Williams, Stephen Hague e Scott Hardkiss.

la variazione di suoni e l'approccio melodico sono sempre sopraffini e il singolo sfonda. intrecci deep-house e atmosfere down-tempo che rapiscono e non liberano più.

la voce di dorothy è già molto personale e profonda, il suo modo di cantare è interrogativo ed emozionale. la sua vera natura compositiva e artistica si rivelerà più in là, ma non corriamo.

Dopo questo singolo, arrivano un buon numero di 12" e miniCD contenenti sempre remix e pezzi che poi andranno a finire nell'album di esordio. In ordine cronologico: Fallen, Transient Truth e Breakdown.

dopo questo fiume straripante di collaborazioni in fase di mixaggio, arriva finalmente l'album di esordio, ovviamente prodotto da Andrew.

















One Dove: "Morning Dove White" (London Records, 1993)

il disco è davvero in pieno periodo deep-ambient-house.

i ritmi non sono mai estremi ma molto distesi, ritmici nel sottofondo, deliziosamente oscuri e malinconici.

il tocco del produttore si sente. eccome. d'altronde questo uomo ha "creato" Screamadelica. non poteva altro che tirare fuori un qualcosa di eccezionale.

come già accennavo sopra, l'impeto di scrittura della Allison è sempre assopito, nonostante abbia la possibilità di esprimersi come cantante con risultati buoni se non discreti.

l'iniziale Fallen prende il via con un synth sporco e rimbalzante, piccoli sospiri in sottofondo, il battito digitale profondo e infinito. il ritmo non si lascia mai andare ma rimane sempre sospeso e mezz'aria, adagiato su una delle voci femminili più belle degli ultimi anni. un vero e proprio pezzo adatto ad ogni situazione, mai completamente danzerino nè del tutto introspettivo.

la già citata With Love è un flusso chitarristico lacerante e sfacciato, una minimal-bastard-house come solo i Sabres Of Paradise (o i Two Lone Swordsmen qualche anno dopo) ci sapevano regalare. poi, ancora, lo ripeterò fino all'infinito, la voce di dorothy è un qualcosa di... incredibile. riesce a rendere immaginifico anche il silenzio.

Breakdown è un digital-dub a là Screamadelica (nessuno ne dubitava, eh) impreziosito da intrecci percussionistici scomposti e sinuosi, in There Goes The Cure c'è un pò di IDM, un pò di ambient, gocciole di downtempo e tanto ritmo, talmente tanto che straborda da ogni angolo. Il secondo episodio della coppia è contornata da bleeps stellari, scomposizioni ritmiche e rumori vagamente industriali. si aggiunge un crescendo pianistico che mette i brividi da tanto è intenso.

Una coppia di brani che confermano quanto detto nelle prime righe: questa band merita. non un album giustamente lasciato in sordina, ma un'opera che deve essere riesumata.

Sirens è sulla falsariga dei precedenti episodi ma vengono aggiunte una serie di tastiere molto funk, a dimostrazione del fatto come l'accoppiata One Dove/Weatherall possa creare pezzi di validità assoluta.

i riverberi metallici di My Friend lasciano dei brividi indelebili, il pezzo si sviluppa su azzeccati cambi di ritmo, su cui si sovrappongono vari strati sonori, dal rullante loopato ai cori di dorothy, fino al suono di uno strumento a corde sconosciuto. un'episodio mistico e attraente.

: "When I sit and dream

The skies cry with me

Now that I'm alone

Your voice wraps round me"


questo recita la successiva Why Don't You Take Me, una splendida ballata pop screziata dalla bellezza di un synth spaziale e la voce di Dot, sempre più bella e angelica.

concludono il disco la bellissima reprise pianistica di With love e i remix (già editi precentemente) di Breakdown e (ancora lei) With Love.

l'album, nonostante il grande valore, ha uno scarso successo e dopo qualche colpo di coda (una manciata di remix e singoli) la band si scioglie. precisamente nel 1993.

Dorothy sparisce dal panorama musicale. dopo lo scioglimento della band le capita anche un incidente stradale che la tiene ferma un buon periodo di tempo, ferma ma non immobile. sicuramente aveva nel cassetto le canzoni per il suo album d'esordio già da tempo, sicuramente l'aiuto di band amiche come Arab Strap e Death In Vegas l'hanno spronata, fatto sta che nel 1999 torna con il suo album. completamente suo.


















Dot Allison : "Afterglow" (Heavenly, 1999)

quante lacrime ho lasciato su questo album...

forse uno dei miei album preferiti degli anni 90', Afterglow si colloca tra un cantatuorato tutto personale e una forte attitudine al ritmo rilassato e sognante. influenze vagamente dream-pop, presentissime scorie trip-hop, amore per la musica introspettiva e leggermente malinconica..

eppoi, i testi sono un qualcosa di immaginifico. poesia disincantata, racconti di un ragazza mai cresciuta, storie di esperienze misteriose, fiabe quotidiane, dolori indicibili.

L'iniziale Colour Me è bella, magnificamente bella. semplice, sorretta da un linea di basso pulsante, circondata da spurie elettroniche, abbellita da quella voce che finalmente può esprimersi in tutto il suo calore, recitando le seguenti parole:

: "As the tides they draw and close

And the seasons turn again

Will the moon still wax and wane?

Will you always colour the day?"


l'effetto sulla voce nel ritornello è dondolante e appicicoso, costringe l'ascoltatore ad ascoltare, come carpito da un demone sonoro. l'effetto è proprio questo.

Prosegue Tomorrow Never Comes, una delle canzoni d'amore più belle che abbia mai ascoltato. un amore velato, mai completamente dichiarato. un amore doloroso e finito.

: "You're sailing away, to another shore

My heartache today, I can't tell you anymore

And I thought I saw your shadow in the street today

But that was yesterday, oh that was yesterday

[...]

Believe me I know it's been hard for you

There's never an easy way to let it go

And I dreamt that you were telling me you dreamt of me

But now I'm waking up, I think I'm waking up

[...]

And I thought I saw your jacket in my room today

But that was yesterday, oh was that yesterday?"


sul testo non ho parole, non ci riesco proprio. sentirla cantare è....incredibile.

la musica è essenziale. qualche accordo di chitarra, rimbombi elettronici in sottofondo, piccole note di piano che appaiono e scompaiono nell'arco di un attimo.

Prosegue Close Your Eyes e il ritmo si fa assai più sostenuto, dando qualche indicazione per l'album successivo, We Are Only Science. anche qui il testo è bellissimo, non sto a riportarlo altrimenti non si finisce più. li potete trovare comunque qui.

sembra in superficie una semplice ballata pop/rock ma nei suoi vicoli più nascosti nasconde preziose trovate melodiche. ascoltare di notte con le cuffie, questo il mio consiglio.

eppoi c'è Message Personel. sì, forse la mia canzone preferita del disco. anzi, è così.

quasi 7 minuti di desolazione sonora, il niente che si trasforma in pienezza e le parole ripetute con insistenza si fanno significative:

: "I'm inside, I'm outside

I'm with you, without you

Don't love me, don't leave me

Don't trust me, believe me

Embrace me, release me

Deny me, then feed me

I'll own you, then lose you

So distant, so near me"

contraddizioni che sono significative nel contesto di una canzone che solo all'ascolto si può dimostare quanto sia inestimabile. tanto inestimabile che i noti Arab Strap hanno posto in coda all'album un loro remix del pezzo. la musica è un intreccio tra strumenti acustici (chitarra, piano, pianola), nastri in reverse, piccoli trattamenti elettronici, la voce che si fa strumento. forse l'apice interpretativo di tutta la sua carriera.

Prosegue I Wanna Feel The Chill, una canzone strana e interrogativa, quasi evocativa nel suo incedere impercettibile. Si sentono qui come mai influenze dream-pop di stampo inglese, sopratutto nella parte centrale. L'alternanza fra composizioni sature ed essenziali in termini di struttura sarà la costante di tutto il disco ed in questo caso oltre alla chitarra e qualche rumore di sottofondo c'è poc'altro, dal punto di vista strumentale. Se non un piano che sale gradino per gradino, fino ad arrivare al cielo, negli ultimi minuti.

Pezzo (quasi) completamente strumentale in Morning Sun, interessanti le sperimentazioni fra beat elettronici e patterns di piano modificato. altre indicazioni per il futuro album e per lo sviluppo del suo suono. si percepisce, se ancora non ci si fosse arrivati, che il suo armamentario compositivo è composto da varie punte di diamante, capace com'è di scrivere pezzi prettamente cantautoriali ed usare trattamenti elettronici con grande personalità e grazia.

Altro centro assoluto è Did I Imagine You?, forse il pezzo più etero e immaginifico del disco. sostenuto da beat elettronici quasi impercettibili, vari xilofoni, arpe, triangoli, impreziosiscono una gemma che può avere un posto solo in paradiso, perchè la luce che emana è troppo forte.

da queste frasi si può capire tutto:

: "When I close my eyes

I can see you reach out to me

In my deepest dream

I can hear you call out to me

[...]

Now and then it seems

I can hear you climb the stairs

Opening the door

I realise you're not there"


da lasciarci il cuore.

ed ancora, senza soffermarmi, scorrono le altrettanto speciali (ognuna per un motivo diverso) Mo'pop, così sbarazzina e solare, Alpha Female, malinconica e sofferente, In Winter Still, gelida e cattiva.

si pone, come già detto, l'estroso remix di Message Personel.

passano un altro paio di anni e, dopo un singolo (Substance), arriva il suo secondo e, purtroppo, ultimo album.


















Dot Allison: "We Are Science" (Mantra Recordings, 2002)

come anticipavo precedentemente, questo disco è completamente diverso dal suo precedente.

qua le chitarre sono quasi del tutto scomparse per fare posto a un mare di synth e strumenti elettronici, il beat viene sostenuto praticamente sempre da una drum-machine, sostituendo la classica batteria.

un cambiamento con il senno di poi non così eclatante, visto che di elettronica ce n'era in abbondanza nella precedente prova. certo, non così tanta, però c'era.

non lo ritengo certo un male, credo che questo album sia fortemente personale e molto bello, non certamente penalizzato dal cambiamento di rotta.

i testi sono sempre molto introspettivi e strappa-lacrime. sempre la solita malinconia che non ci lascia per un secondo, ancora i momenti di dolore ci accalappiano il cuore e non se ne esce più.

l'iniziale We're Only Science è un anthem techno-pop molto bello, un ritmo sostenuto è ombroso si innesta dall'inizio, attorniato poi da un turbine di synth colorati. la ripetizione fino alla noia della frase :"We're Only Science"[ è ossessiva e in un certo senso significativa.

prosegue con grande piglio melodico la successiva Substance, molto bella e sinuosa. i ricami elettronici non sono mai banali, nè scontati. la gommosità dei synth riporta a certo synth-pop 80ino, sopratutto ai Soft Cell, di cui deve aver ascoltato tutti gli album. il groove si fa via via più movimentato, sempre solcato dalla sua voce che non cambia di una virgola, sempre bellissima ed estetizzante.

You Can Be Replaced è meno sintetica e riprende il discorso lasciato in sospeso dall'album precedente, sempre con l'apporto da una forte componente di non-sense lirico, un testo ammalato e ammorbante, come testimoniano queste piccole frasi:

: "You can be replaced

You've got the power

To give your cluelessness a voice

Saying loads of nothing

With a lot of noise

Walk down the street

Resentment in your arms

There's something free in us

That you despise

We're the survivors

We are your rivals"


Performance è un down-tempo fuori tempo massimo, bello ed evocativo, strutturato su qualche giro azzecato di synth e una voce che sovente regala attimi di disincanto immaginifico. forse il suo pezzo più disteso e silenzioso della sua produzione.

Sembra un pezzo uscito da Afterglow la successiva Wishing Stone. un folk-pop screziato da note di xilofono, rasoiate di synth ed ancora impreziosita da liriche incantate:

: "You tore my skin

But I didn't bleed

Tried to steal my thoughts

From in my sleep"


bellissimo il dark-pop fortemente elettronico che si dipana gradualmente in Make It Happen. la voce di dot è trattata per renderla ancor più solenne e piena, l'effetto finale è strabiliante. anche se il testo è la semplice ripetizione di qualche frase, ogni volta che viene emanata una frase, l'emozione è tanta. tantissima.

Addirittura accenni glitch in Strung Out, rumorini che si relegano in sottofondo al marasma percussionistico questa volta autentico, cesellato da una batterista forsennato. in forte ascesa l'uso dello xilofono, in questo caso tintinnante e puntiglioso. L'accordo di chitarra ripetuto ciclicamente è la base con cui Dot spicca il volo con le sue fiabe.

incredibilmente ballabile la canzone da club del disco (esclusi i remix finali), I Think I Love You. Synth bastardissimi e taglienti affettano in mille briciole la voce che gorgolia la solita frase per tutti i 5 minuti, i battiti digitali sono un rimbombo che scuote tutte le interiora dell'ascoltatore. un pezzo così minimale e ossessionante lascia residui pericolosi.

si ritorna alle origini con la ballata notturna di Hex, si conclude idealmente il disco, con un clone più corto di quel capolavoro che era Message Personel in Lover.

in coda, due remix detonanti. Prima Felix da Housecat lancia in orbita un techo-pop da mille giri in autostrada con il disfacimento di Substance, poi Slam si cimenta in una techno profonda e minimale con la vivisezione di We're Only Science. un epilogo niente male.

e siamo al 2002. dopo questa data, eccetto sporadiche apparizioni, di dot allison non s'è sentito e non s'è visto più niente. a me manca davvero tanto. in cuor mio spero davvero che torni il prima possibile. perchè dele sue canzoni ne ho sempre bisogno..

venerdì 4 agosto 2006

Playlist 28/7 - 04/8/2006











 Natsume: "Marakesi no Hana" (Noble, 2003)

la noble continua con il suo percoso nella "musica per la vita di ogni giorno".

nei dintorni dei validissimi world's end girlfriend, cinq, tenniscoats, questo album si colloca in mezzo alla proposta di questi artisti risultando un disco estroso e inusuale.

un folk spirituale, molto profondo, sferzato da rumori elettronici e intriso da una patina sognante che lo trasforma in un sogno dolcissimo ad occhi aperti.

i componenti del progetto sono Fuminosuke e Shoji Hiromitsu (già in Tsuki No Wa), con l'aggiunta del chitarrista Munehiro Yamada, componente del gruppo di post-rock strumentale F.L.Y.

bellissima la title-track, circondata da campanellini, xilofoni, percussioni ovattate, bollicine di synth dolcissime.

il mantra di Johnny Guitar ammalia con furbizia, la finale Takeda no Komoriuta è essenziale e granitica, un folk fortemente influenzato dalla musica tradizionale giapponese, una musica nata per suscitare pace, amore ed emozioni a profusione.

[7]














Ramona Cordova: "The Boy Who Floated Freely" (Eca, 2006)

sulla scia del folk-pop di stampo femminile, questo album si mette in evidenza per una serie di inserzioni stilistiche molto particolari e azzeccate.

dalla tastiere dilungate e malinconiche di Giver's Reply fino al cantato incalzante della finale Take Flight. il disco non è monocorde e nonostante siano presenti diversi pezzi chitarra-voce e poco altro, le emozioni che sprigionano da queste note sono molteplici.

dalla malinconia sbarazzina della già citata Giver's Reply, angoscia spaurita (Mixing The Potion), calma sorniona (Heavy On My Head), amore sperduto in Hot And Heavy Harmony.

la sua voce è molto profonda e personale, poliedrica e simile a una certa Leslie Feist.

i suoi piccoli gioiellini non raffinati sono dei tesori che debbano essere scoperti...

[7]

















Planningtorock: "Have It All" (Chicks on Speed, 2006)

molto strano questo disco.

pezzi di jazz mutante traslati in un contesto pop. dalla chicks on speed un disco così non me l'aspettavo.

Janine Rostron già la conoscevo per i vari remix che ha rilasciato in giro per il modo, per artisti di un certo calibro come The Knife, the Soft Pink Truth e Kevin Blechdom.

strana questa opera, dicevo. sì, davvero particolare.

si passa dal miscuglio di cori sconclusionati e onirici uniti a percussioni elettroniche di Changes, si fa clap-clap davanti al pop stupido di Local Foreigner, si lascia mente e cuore all'ascolto di quel piccolo capolavoro di artigianato melodico che è Never Going Back.

una fortissima estrosità compositiva, tenuta a freno da una grande precisione nel cesellare melodie mai banali nè ripetitive, in cui l'elettronica non risulta invadente ma soltanto un piccolo particolare che aggiunge colore al suono.

Si ripete la magia con un tripudio di archi campionamenti accompagnati da una voce in preda a un disturbo non ben definito (Think That Thought), c'è da piazzare un pezzo sulla dancefloor di tendenza perchè proprio questa title-track non ne vuole sapere di farci stare fermi.

[7,5]



il resto:

Agalloch: "Ashes Against The Grain" (4,5)
Autour De Lucie: s/t (7)
Dot Allison: "Afterglow" [8]
Dot Allison: "We Are Science" (7,5)
Dusted: "When We Were Young" (7)
Bent: "Programmed To Love" (7)
Andy Vaz: "Repetitive Moments Last Forever " (7)