domenica 30 luglio 2006

Playlist 22/7 - 28/7/2006

in questa settimana ho riscoperto molte formazioni d'inizio anni 90' trip-hop che avevano molto da dire ma che non hanno mai avuto la meritata visibilità.

















One Dove: "Morning Dove White" (Polydor, 1993)

con la voce di Dorothy Allison si riesce a creare questo ed altro.

questo album è nato dalle mani della stessa dorothy e di altri due musicisti: Ian Carmichael e Jim McKinven.

non solo trip-hop ma anche electro, campionamenti classici, qualche ritmo dub, tanta fantasia compositiva.

si passa dalla ossessionante Fallen (bellissimo l'inizio), si attraversa quella perla oscura che è With Love, si rimane cullati dalla ninna-nanna digitale di My Friends, colma di battiti e rimbombi provenienti dal silenzio.

Sirens è una danza impercettibile, una perla satura, un gioiello di lucentezza rara.

i remix posti in coda all'album, composti da altri artisti ma in cui hanno collaborato gli stessi componenti della band, sono il perfetto bilanciamento fra cadenze sommesse e suoni più decisi.

dorothy, poi, dopo lo scioglimento della band, si darà alla carriera solista con il nome dot allison, inciderà degli album di bellezza cristallina, non otterrà successo. come sempre, ovviamente.

[7,5]


















Dubstar: "Stars - The Best Of Dubstar" (EMI, 2005)

ho voluto prendere la raccolta uscita l'anno scorso perchè m'è sembrata la scelta più coerente.

la band è composta da tre componenti: Sarah Blackwood, Steve Hillier e Chris Wilkie.

autori di album quasi perfetti e perfettamente bilanciati fra influenze synth-pop e anima trip-hop come Goodbye e Disgraceful, si son sempre distinti per un gusto grazioso per la melodia.

sì, la melodia. la varietà di suoni e stili presenti in questa raccolta (ed anche nei dischi citati) è innumerevole. Il ricordo del synth-pop si fa sempre più presente (Anywhere, Not So Manic Now), i momenti malinconici e romantici si distinguono per intensità (Jealousy, Swang Song), la ritmicità è sempre presente, soffusa e ombrosa (The Self Same Thing, I (Friday Night)).

[7,5]


















Bowery Electric: "Lushlife" (Beggars Banquet, 1999)

questo forse è il migliore dei tre di cui sto parlando.

più l'ascolto e più mi stupisco di quanto questo album meriti attenzione, al pari del capolavoro del genere, Dummy dei Portishead.

la voce come ovvio è femminile e la lei in questio si chiama Martha Schwendener e il responsabile delle musiche sarebbe Lawrence Chandler.

l'iniziale Floating World è bellezza incantata allo stato puro. i battiti cadenzati ad intervalli regolari mettono i brividi, la voce di martha è un solco di paura sognante, gli archi che circondano l'atmosfera costruiscono pian piano un qualcosa di mistico. ascoltare questa canzone è un'esperienza immaginifica.

soltanto per questo pezzo bisognerebbe ascoltare il disco.

ma poi c'è anche Shook Ones, ruvida e martellante, si affaccia con gentilezza Deep Blue e non lascia scampo con il suo incedere minimale, sfugge nel finale la colonna sonora per una notte tempestosa dal nome Passages.

secondo il mio parere è un album che deve essere riscoperto in tutta la sua bellezza.

[8]

il resto:

Antimatter: "1998-2003" (7)

Antimatter: "Planetary Confinement" (7)

Mazzy Star: "So Tonight That I Might See" (7+)

Feist: "Monarch" (7,5)

My Robot Friend: "Dial 0" (6+)

Keren Ann: "La Disparition" (7)

Omnio Trio: "Skeleton Keys" (7)

venerdì 28 luglio 2006

Psapp: "The Only Thing I Ever Wanted" (Domino, 2006)



















L'incontro fra Galia Durant e Carim Clasmann è stato provvidenziale.

La loro musica è essenziale e preziosa, una forma-canzone che vive i suoi attimi di gloria fra un ritmo scomposto e una voce sbarazzina. L'elettronica che circonda spesso la struttura compositiva delle tracce è solo un elemento in più e non una presenza ingombrante. Sì, perché la loro formula è composta da vari elementi che di volta in volta si ibridano con naturalezza, componendo canzoni raffinate, cesellando bozzetti di rara grazia.

Già autori, l'anno scorso, di un album molto interessante ("Tiger, My Friend"), gli Psapp, arrivano al 2006 consapevoli delle loro capacità compositive, tese a sfruttare fino in fondo una poliedricità innata e maturata negli anni, in grado di comporre un album slegato da ogni contesto musicale, semplicemente bello, semplicemente necessario.

Non è facilissimo riuscire a riassumere in poche righe la cifra stilistica di questo duo, essendo le loro influenze fra le più disparate. Sicuramente sono amanti del pop cantautorale, ma al tempo stesso si percepisce una forte volontà di ammorbare questa base con vari elementi estranei. E perciò si sentono ritmi glitch, strumenti acustici fra i più disparati, campionamenti fantasiosi e improbabili.

Quanto detto poco sopra trova compiuta dimostrazione in "King Of You": la partitura puramente glitch che si dipana nei primi secondi si collega con naturalità al resto della canzone che pian piano si svolge, aggiungendo elementi e arricchendo la sua struttura. La voce di Galia, come in tutto il disco, si dimostra matura e ombrosa, oscura e molto affascinante.

Anche la precedente "Hi" è uno dei pezzi pop più belli del 2006. Percussioni piccole e dolci, campionamenti microscopici, chitarre balzellanti, il cantato profondo e sensuale di Galia; il groove dai ritmi altalenanti che si sviluppa per i quattro minuti della traccia sfiora la perfezione e chiarisce da subito come finalità artistica del duo sia l'equilibrato bilanciamento tra una raffinata forma-canzone e ambientazioni sonore giocosamente post-moderne.

In "This Way" entra poi in campo un forte uso del campionamento, effigiando ancora una canzone a dir poco inattaccabile, che concettualmente sembra rasentare accenni di trip-hop decostruito. Xilofoni dal sapore soave, un beat scomposto ma seducente, archi incisivi e frizzanti: il tutto si mescola con grande genuinità e lo scorrere dei secondi è un puro piacere melodico. "Needle & Thread" prende degli elementi dalla prima e dalla terza traccia, li mescola con sapienza, restituendo per l'ennesima volta una favoletta incantata, mentre è una sommessa essenzialità a prendere il sopravvento in "New Rubbers", costruita soltanto intorno a poche linee di pianola amatoriale, dal forte contenuto emozionale, appena incorniciate da un beat indolente, sulle quali si innesta, inaspettato e romantico, il dolce suono degli archi.

"Trycicle" è leggermente slegata dall'afflato minimale che avvolge le tracce precedenti, si attesta su un andamento più sbarazzino e regala alcuni attimi di preziosità pop.

Ma la raffinatezza cantautorale latente un po' in tutti i brani si manifesta in maniera splendida in "Hill Of Our Home", che affianca a un esile beat sintetico beccheggiante, il suono cristallino del pianoforte, supportato da un azzeccatissimo contrabbasso e da delicate percussioni jazzy ; è questo il brano nel quale si rivela più evidente la vocazione degli Psapp verso avvolgenti ballate dal sapore classico, ma trasformate e rielaborate in un moderno contesto, non poi così distante dal folk malato e obliquo di band quali Tunng o Grizzly Bear, anche se qui ingentilito dalla voce della Durant e, in definitiva, molto più compunto.

Superata questa parentesi sognante, i campionamenti e l' uptempo di "The Words" vivacizzano l'atmosfera in maniera quasi violenta, dando forma a una disinvolta canzoncina dal marcato sapore pop, il cui ritmo caracollante viene dissolto soltanto dal florilegio di archi dei suoi secondi finali. A confermare la continua alternanza di momenti e sensazioni, provvedono poi i due minuti di sola voce e piano di "Make Up", esattamente quello che non ci si attenderebbe in un album del genere: una ballata soffusa e minimale, nella quale l'ovattata sobrietà della voce dolce-amara della Durant carezza l'oscurità, rivelando un'intensità tale da collocarla al livello delle migliori "donne al piano" della musica d'oggi (il pensiero corre, inevitabile per quanto sorprendente, addirittura a Lisa Germano).

Ma come quello dal sogno bucolico "Hill Of Hour Home", anche stavolta il risveglio giunge prontamente, con "Eating Spiders", altra pop-song dondolante e ritmata, che pian piano digrada per lasciare il campo ai toni fiochi della sghemba ninnananna finale "Upstairs", tutta imperniata sulle morbide chincaglierie elettroniche che hanno caratterizzato l'intero lavoro, qui decisamente virate alla pacatezza e alla nostalgia. Una sorta di malumore incantato fuoriesce da queste note essenziali e semplici, una canzone triste e gentile, timida e pensieriosa. Un soffio di dolore rassicurante.

Nel complesso, gli Psapp hanno creato un album di leggerezza controllata, gradevole e traboccante di un accuratissimo gusto pop, che scioglie le elucubrazioni sonore in divertimenti elettronici mai pedanti né fini a se stessi, ma anzi calati in una cornice affascinante e raffinata, che sviluppa da vicino le intuizioni avanzate dai Pram un decennio fa. Sia che lo si voglia considerare la declinazione in chiave fruibile di casalinghi esperimenti glitch, sia che lo si annoveri tra le moderne trasformazioni del pop contemporaneo, "The Only Thing I Ever Wanted" risulta un'opera fresca e godibile dall'inizio alla fine, elegante ma non per questo pretenziosa, malinconica e sbarazzina, amabile e insostituibile.

(7)


recensione di Raffaello Russo e Alessandro Biancalana

Cortney Tidwell: s/t (Ever Records, 2006)














lei credo sia un'esordiente. dalle belle speranze.

questo (mini)album è formati da 6 canzoni in bilico fra cantautorato folk e tentazione dream-pop.

ogni composizione è intrisa da una forte componente evocativa e sognante, il suono è molto delicato e ovattato, tanto che in diversi frangenti sembra di sentire l'urlo di un angelo sperduto per il cielo.

la sua voce è molto profonda, tanto che vengono fatti paragoni con liz fraser, hope sandoval e leslie feist.

paragoni molto importanti ed impegnativi ma tuttosommato azzeccati, visto che il suo cantato è molto simile a queste artiste.

Hard 2 Tell è un pezzo immediato ma al tempo stesso profondo ef emozionante. i cori che circondano l'atmosfera, la batteria impazzisce, la sua vera voce continuare a cantare, il sogno pare avverarsi improvvisamente.

The Light è una ballata folk al rallentatore, So I'll Go Out And Meet My Love incatena le nostre menti con un andamento strascicato, la parte centrale, invece, è un colorato sbocciare di fiori, con un rumore dolce e soave.

La finale Ever Queen è ancor più rareffata e disturbata, vengono inseriti degli impercettibili trattamenti elettronici (campionamenti, nastri in reverse), la voce si squaglia in un mare di luce.

bello, bello, bello.

sabato 22 luglio 2006

PLAYLIST OF THE WEEK <--> 15/07 - 21/07


















Yagya: "Rhythm Of Snow" (Force Inc. Music Works, 2002)
un ottimo album di deep-house minimale e fortemente riflessiva.

i paesaggi sonori si dipanano con calma quasi ambientale, i battiti si sentono in lontananza come se fossero relegati in un lontano passato. la grazia melodica di questa musica è fantastica. Conflusce nella stessa formula la sapienza minimalista di Philip Glass con la genialità di Basic Channel.

Il successivo Will I Dream During The Process? è addirrittura migliore, leggermente più movimentato, meno evocativo.

[7,5]


















Howie B.: "Snatch" (Palm Pictures, 1999)

non si sa perchè howie è sempre dimenticato, quandi si parla della storia elettronica degli ultimi anni..

fatto sta che questo album è davvero molto significativo e importante.

una sorta di miscuglio jungle minimale, trip-hop e ambient. geniale? forse..

l'iniziale Gallway è un ambient movimentata da breaks stellari, Cotton High è un capolavoro di mescolanza ritmica.

Folk, uscito nel 2001, sarà carino e niente più, questo, invece, forgerà un modo di fare elettroncia molto imitato e apprezzato un pò ovunque fra gli addetti ai lavori.

[7,5]


















Dot Allison: "We Are Science" (Mantra Recordings, 2002)

agli inizi degli anni '90 era la cantante di quella grande band che furono gli One Dove.

capaci di mescolare cadenze dream-pop con ritmiche dance, sublimando la loro arte in quel discone che è Morning Dove White.

finita quell'esperienza, si è tuffò nella carrierra solista, riprendendo il discorso lasciato in sospreso, sviluppando una forma canzone tutta sua.

questo album è minimale e oscuro, impreziosito da testi intelligenti ed estrosi, decorato da una musica bellissima ed evocativa. Substance è un elettro-pop sapiente e deciso, You Can Be Replaced è una vera ibridazione fra elettronica e drema-pop. un vero gioiellino.

I Think I Love You è un techno-pop ritmico e ossessionante, oscuro e geniale, Lover (in cui collaborano i Mercurey Rev[/i], e si sente) è un electro-dream-pop affascinante e sinuoso. Un'altra conferma di quanto sia estrosa e poliedrica questa artista.

purtroppo è dal 2002 che non rilascia nemmeno un singolo, spero vivamente che ritorni il prima possibile.

[8]

il resto:

One Dove: "Morning Dove White" (7,5)

Nika Soup and Saya Source: "Ipiya" (7)

Sachiko M: "You Never Atone For" (7)

Sachikko M: "Sine Wave Solo" (6,5)

Yukihiro Takahashi: "Neuromantic" (7)

James Figurine: "Mistake Mistake Mistake" (7+)

Nathan Fake: "Drowning In A Sea Of Love" (6-)

Kid Loco: "A Grand Love Story" [8]

Cristian Vogel: "Beginning To Understand" (9)

Poni Hoax: s/t (7-)

venerdì 21 luglio 2006

Cristian Vogel: "Beginning To Understand" (Mille Plateaux, 1994)



















conosciuto principalmente per la collaborazione con Jamie Lidell dal nome Super_Collider.

Insieme, sono riusciti a creare un riassunto di musica inusuale e nuova.

però, cristian, prima di questa attività, ha mandato alle stampe degli album che hanno fatto storia. un tassellino di techno l'ha messo anche lui.

questo è il suo esordio ed anche la prova più importante della sua discografia.

cataclismi electro-techno di provenienza spaziale, claps come se piovesse, sperimentalismi di derivazione minimal. è un album che si trasforma in incubo pian piano che progredisce. bastardo, cattivo e stridente.

L'iniziale Machine è un continuo sbattere di una drum-machine plastica e rimbombante, sibili di un synth irriconoscibile, scrosci di rumore danzerino creati da un complesso di musica dance aliena.

Sub-Aqua (Scuba Dub) è inizialmente un tripudio di suoni electro che sciabordano liberi e confusi, successivamente gli immancabili claps mutanti mettono in campo patterns scomposti e sgangherati, componendo quel tipo di pezzo che ti fa trasportare direttamente su in cielo. Gommosità stellare.

Hupklap è una vera e propria droga elettronica, perchè, quando confluiscono scemenze ritmiche, tastiere allucinogene e loop metallici, c'è davvero da perdere la testa. ma proprio ascoltare e letteralmente impazzire. la cassa che sbatte con cadenze ravvicinate è pura libidine techno.

Alien Conversation è davvero un pugno nello stomaco alienante. Sentire le voci provenienti dal pianeta sconosciuto e percepire il salire di un rumore che lascia straniti. Cresce, con lentezza dolorosa, un battito sordo e minimale, il rintocco di un ritmo danzerino e schizofrenico, l'inizio di un marasma notturno di rara bellezza compositiva.

lasciate andare mani e corpo sulle note di Scorpio, strozzate ogni rumore estraneo davanti al capolavoro della title-track. sì, perchè questo pezzo è davvero fantastico. Golosi contorni plastici effigiano una degli spaccati di electro-techno più belli mai ascoltati. Qua c'è dentro Carl Craig, qua c'è dentro tanta minimal, nelle viscere di questi minuti c'è qualcosa di veramente prezioso. L'aggiungersi di vari armamentari percussionistici non fanno che ingolosire ancora di più l'ascoltatore, rendendolo completamente inerme davanti (anzi, di fronte) a un qualcosa di così trascinante.

Going The Distance è la colonna sonora per una passeggiata in un cimitero oscuro. Passaggi di synth gocciolanti dolore, scomposti suoni acustici, battiti di drum-machine decisi e puntuali. Bollicine digitali spumeggiano con apparente felicità, i cigolanti suoni simil-metallici conferiscono al pezzo un qualcosa di misterioso. A me questa traccia fa davvero paura (in tutti i sensi..), sopratutto mentre l'ascolto di notte.

Space Between Stars si lancia in una sorta di trance sognante e ripetitiva, lasciando nella memoria dell'ascoltatore quello scatafascio timbrico che è la parte centrale della composizione. grooves che si schiantano l'un con l'altro, stop&go, rullanti che sfumano nel silenzio dopo un effetto destro-sinistro da lasciar con la bavetta alla bocca.

Heartfelt è più minimale e meno d'attacco, adatta per un ballo solitario e gentile, condotto da quel synth che non fa che suonare cosmico, trasportato da una tastiera saltellante. L'unico pezzo che rimane con i piedi per terra, senza sfigurare.

Il finale spetta alla fantasiosa No Time Remaining (00:00). Stramberie targate Vogel.

questo è un disco che rimarrà per sempre ricordato come un qualcosa di fondamentale.

i love this techno.

Poni Hoax: s/t (Tigersushi, 2006)





















eccolo il disco dell'estate!

alta dose di ruffianeria electro-rock, battiti quasi techno, ritmi new-wave.

autori di un singolo bomba dal nome Budapest nel 2005, arrivano al disco d'esordio nel 2006.

uscito proprio in questi giorni.

c'è una forte componente ritmica in queste canzoni ma non mi sembra di sentre dei suoni stridenti o fuori luogo. il tutto è architettato in maniera accettabile. si passa dall'attacco electro-rock, al pezzo più melodico, fino alle sferragliate rock quasi garage.

perciò, se Budapest è un siluro electro-clash (divini i violini campionati), She's on the Radio è un mezzo omaggio/scopiazzatura al David Bowie berlinese. un pezzo peraltro molto piacevole e scorrevole.

Carrie Ann è melodica e distesa, fra cori femminili e un rullante di batteria che non si ferma un attimo.

Ancora new-wave elettronica estrosa in Involutive Star, scatti ritmici che vanno dalle parti di quel rock a bassa fedeltà tanto amato in Drunks and Painters on Parade.

La componente classica di raddoppia e infarcisce in maniera decisa gli episodi più delicati del disco, peraltro sempre supportati da una base percussionistica ben presente e sempre poliedrica.

Come non piazzare un episodio punk-funk, visto che ora va così tanto di moda? Ed eccoti lì L.A. Murder Hotel. Storta, scema, scomposta e danzerina. proprio il pezzo che ci vuole per dare quel colpo ritmico che mancava alla seconda parte del disco.

ancora archi di una certa caratura emozionale nella penultima She Sells Anger, ombrosa e oscura, circondata da una miriade di tastiere elettroniche deliziosamente anni 80'.

conclude la discreta piano-song Le Fil Du Temps, bella, ma leggermente estranea dal contesto delle altre canzoni.

forse sarà un disco usa e getta, ma a me sta piacendo veramente un bel pò.

giovedì 20 luglio 2006

POP FRANCESE

Quasi per caso, ultimamente, mi sono imbattuto in artisti pop francesi..

apprezzato uno, mi sono lanciato nella ricerca di artisti simili e mi son lasciato guidare dal mio gusto musicale..

in bilico fra malinconia, dolcezza e amore, i dischi che ho potuto ascoltare sono tutti bellissimi..

non mi aspettavo un tocco così delicato e leggero, proprio no.

erano nomi mai sentiti, conosciuti grazie a una persona a cui devo molto, non rimpiangerò mai abbastanza il fatto di non averli conosciuti prima.

fra i tanti ascoltati, vorrei mettere in risalto tre figure: Télépopmusik, Emilie Simon, Autour De Lucie

Télépopmusik













I ragazzi sono: Fabrice Dumont, Stephan Haeri (aka 2Square) e Christophe Hetier (aka Antipop).

2Square ha rilasciato nel 2004 un album downtempo a nome Superconductivity.

se magari siete dei nostalgici e amate questi suoni, potreste innamorarvene..

pubblicato il prima EP nel 1998, il loro successo è nato dalla pubblicazione dell'esordio Genetic Wolrd, con l'heat stra-radiofonico e stra-bellissimo che è Breathe. Ora, il titolo e il gruppo non vi dicono sicuramente niente, ma se ascoltate la canzone son sicuro che l'avrete già ascoltata. Credo di ricordare fosse in una qualche pubblicità.

Comunque sia, un album molto buono, forse un pò troppo astratto, a tratti scostante.. ad ogni modo, Free, Dance Me e la stessa Breathe sono gemme pop di rara raffinatezza.

però, con tutto rispetto per l'esordio, il successore, dell'anno scorso, è un'altra storia..


















Télépopmusik: "Angel Milk" (Capitol Records, 2004)

un sogno, un vero e proprio sogno.

di album pop così belli raramente se ne trovano, e a dir la verità è un bene, altrimenti saremo abituati troppo bene..

sarà che qua dentro ci lascio un bel pezzettino di emozioni, ma lo ritengo un qualcosa eccezionale.

si sentono ovvi rimandi al trip-hop, soffi di elettro-pop delicatissimo, miscugli hip-hop, addirittura tentazioni glitch.

il trittico iniziale è un colpo al cuore: Don't Look Back, Stop Running Away, Anyway.

la prima si adagia dolcemente su una voce che pare un angelo volare fra i cieli, un piccolo battito elettronico flebile, un goccio di rugiada digitale di consistenza trasparente. un favoletta pop per chi ancora chiede qualcosa dall'amore.

la seconda è più distesa e sognante, incentrata su rigoli elettronici di provenienza non ben definita, ancora voci femminili aggraziate, pungenti anime elettroniche, percussioni digitali, un'atmosfera di malinconia che pervade ogni singola nota.

La terza chiama al microfono un componente maschio, ma il risultato non si sposta di una virgola.

le coordinate cono quelle: voce dolce + elettronica pacata + attitudine sommessa. In termini così tecnici e cinici parrebbe una canzone normale.. Invece no, è speciale. lo è perchè il ritmo non è il solito che si può sentire in un qualsiasi album elettro-pop, lo è perchè ama incantare i suoi ascoltatori, lo è perchè emoziona senza esclusioni di colpi.

finita questa introduzione, il resto dell'album è altrettanto positivo. solo che non posso descriverlo tutto sennò il thread diventa lunghissimo.

mi limito nel segnalare la strappa-lacrime Brighton Beach, l'hip-hop mutante di Last Train To Wherever, le pazzie jazz della sorprendente Love's Almighty.

i remix pioveranno da tutte le parti, il meritato successo in terra natia pure, la promessa per un prossimo album nel 2006 pure. io aspetto con il cuore in mano, speriamo arrivi presto, ne sento il bisogno.

Emilie Simon


















Emilie, oltre ad essere bellissima, è una cantautrice con i fiocchi.

con all'attivo due album, scrive la colonna sonora del bellissimo La Marcia Dei Pinguini di Luc Jacquet, uscito in Italia da pochi mesi.

partiamo con l'esordio omonimo.


















Emilie Simon: s/t (Barclay, 2003)

in questo suo primo disco il cantautorato è molto mimimale e composto, sempre incentrato su trame ritmiche scheletriche ed essenziali. i suoni presenti fra queste canzoni non sono mai più di una manciata. una tastiera, qualche battito di batteria, loop vocali. oh sì, la voce.

se vi dico che mi viene quasi da accostarla alle mie fatine jappo? beh sì, lo posso proprio fare perchè lei ci va davvero vicino. e perchè dovrei paragonarla con loro? semplicemente perchè il suo cantato è fatato proprio come una Tujiko Noriko o una Nika Soup qualsiasi.

solo che la lingua è il francese. una lingua attraente, c'è poco da farci.

veniamo alle canzoni.

L'incedere semplice e scalpitante di Lise, lascia con il sorriso sulla bocca, sopratutto quando fanno capolino degli archi azzeccatissimi. Il tripudio di xilofoni, batteria spazzolata e voce filtrata è fantastico.

Secret riprende certi territori trip-hop/pop già sperimentati in passato senza risultare sciatta o vuota.

anzi, vengono aggiunti quegli elementi che ci fanno scordare tutto. come quella chitarra lacerante che sovente prende il volo, come quel ritmo scompostissimo che cambia sembianze ad ogni secondo, come, ancora, un organo farfisa modificato che inanella una nota più bella dell'altra.

Ci sarebbe da parlare per una notte intera su quest'album.

mi limito ad attirare su alcuni episodi chiave.

Flowers, che canta così :"You are so sweet, i am so in love with your dreams..". I pulpiti timbrici, uniti alla sua voce deliziosamente minimale, donano una grazia innata a questo pezzo.

Dernier Lit è uno scintillare di note cristalline che si trasforma in danza tribale, Blue Light è il pop come lo vorrei sempre sentire, Il Pleut è un quadro appena iniziato che prende forma piano piano, sotto le mani di un artista paziente e gentile.

dopo la colonna sonora sopracitata e quest'album, un attimo di silenzio, per lei.

poi arriva il 2006. ed arriva anche il suo nuovo album.


















Emilie Simon: "Vegetal" (Barclay, 2006)

non so se è un capolavoro, se è un disco importante o se qualcuno fra 5-6 anni se ne ricorderà.

l'unica cosa che conta, ora, è che questo albumo è bellissimo. basta, no?!

i ritmi si fanno più pieni e rock rispetto al suo predecessore ma la qualità non ne viene intaccata.

a partire dalla fabietta Alicia (Stereolab?), si rimane già spiazzati con il rock inusuale di Fleur De Saison. L'inizio è perfetto, semplice, immediato, ben fatto. La canzone prosegue fra pause ritmiche, un groove di batteria irresistibile, e il suo gusto come cantante che sembra non svanire mai.

Le Veil Amant è forse il più bel pezzo mai scritto da Emilie. Rumorini, glitches, xilofoni assortiti, percussioni piccine-picciò, vocina appena percettibile. Credo che lo sforzo compositivo profuso per portare a termine una canzone così sia stato molto.. ascoltare anche solo una volta per rendersene conto.

Se le convulsioni classiche di Sweet Blossom (cantata in inglese) non erano una novità, le tendenze dream-pop di Opium sono davvero una sorpresa. Un centro pieno, sottolineo.

Si percepisce, ad ogni canzone ascoltata, un animo comune che pervade ogni composizione.. è un qualcosa che contraddistingue il suo stile compositivo, di cui non riesco a trovare un difetto.

vedere Dame, per esempio. Sterzate rock, elettronica sibillina, chitarre acide e dolci al tempo stesso, una voce più "presente" rispetto al passato, un gusto per gli strumenti classici innato e mai fuori posto.

i campionamenti di Swimming poi ci fanno immaginare una sua nuotata in piscina, con quel fruscio bagnato in sottofondo.. i loop vocali, ancora una volta, donano un qualcosa di diverso al pezzo, così bello che lascia stupiti. La sua formula si evolve e non è mai uguale. Anche qua xilofoni, ma anche percussioni più cupe e rimbombanti.

Capirete quanto sia difficile inquadrare un'artista così poliedrica, sempre in bilico fra un genere e l'altro, sempre con l'orecchio pronto ad accoglire un ritmo o un suono particolare.

a poco la mia recensione.

Autour De Lucie













questa è la band in cui si sente maggiormente l'impronta trip-hop.

sono in piedi da tanto, questi francesini, dal 1992.

i componenti sono i seguenti: Valérie Leulliot (voce, chitarre, organo, melodica), Fabrice Dumont (basso), Jean-Pierre Ensuque (chitarre, synth) e Sébastien Buffet (batteire, percussioni).

hanno fatto 4 album. uno più bello dell'altro, e sempre differenti, sia come approccio compositivo, sia come risultato ultimo.

L'esordio è forse il più significativo.


















Autour De Lucie: s/t (Le Village Vert, 2004)

veramente un gran bell'album.

con grande rammarico di non avere conosciuto prima un qualcosa di così inestimabile, mi accontento nel farmi assuefarre da queste canzoni.

folk-pop, trip-hop, elettronica di una certa levatura, atmosfere sospese nell'aria da un ritmo volatile.

Noyés Dans la Masse è un gioiello dimenticato, ingiustamente dimenticato, puntualizzo. Ricami classici di un tatto raro quanto l'arcobaleno, la voce di una musa che nessuno conosce ma che c'è e canta come una dea, note di piano rimbombanti come l'esplosione di una bomba.

Nos Vies Limitrophes calca ancora di più il piede sulle traiettorie minimali, concedendosi ad una storiella che vira rock quando c'è da raccontare qualcosa di importante e si squaglia in luccicio colorato quando il racconto si fa più pauroso.

Personne N'Est Comme Toi si lascia andare in convulsioni rock personali e ruvide, Avril En Octobre è un bozzettino pop sferzato da sibili elettronici taglienti ed efficaci quanto un coltello sul burro.

Sans Moi è forse il pezzo più sentito del disco, in cui si percepisce la voglia di buttare fuori tutte le emozioni senza fronzoli strumentali, con una produzione scarsa ed essenziale. una tastiera, qualche nota di piano, un accenno di accordo di chitarra. niente di più per comporre un qualcosa di eccezionale.

Dans Quel Pays è melodia rock garbata e incalzante, Femme À L'Eau De Vie è un pop parlato: sembra di vedere un prato rigoglioso in una Francia di periferia e il sole al tramonto. due (massimo tre) amici a sedere sull'erba a suonare. le sensazioni di amatorialità che rilascia questo disco sono un qualcosa di difficilmente ricercabile.

Entra in campo, in maniera abbastanza decisa, l'elettronica e il risultato è buono.

Mon Toujours Partant, oltre agli elementi già precendentemente menzionati, aggiunge piccoli rivoli elettronici di contorno che non paiono messi lì come un abbellimento inutile. no, proprio per niente.

sono funzionalissimi e contribuiscono nel cesellare una canzone da notte oscura e un auto che corre veloce, nel buio.

La conclusione elettro-classica di Les Homme Peuvent Être... è la conferma di quanto questi ragazzi abbiano una grande padronanza della produzione sonora e quanto siano sensibili e capaci di contaminare contesti differenti in maniera completamente indolore. anzi, non indolore, piacevolissima. insomma, quest'ultima canzone è davvero fantastica.

nota di conclusione. il disco che vi ho descritto è la ristampa dell'esordio pubblicato dalla Nettwerk America nel 95. la tracklist è completamente cambiata e non so cosa possa cambiare rispetto alle registrazioni originali.

lascio a voi la curiosità di percorrere ulterioramente le strade artistiche di questa band, andando a ricercare gli altri tre album. in ordine cronologico: Immobile, Faux Mouvement, L'Echappee Belle.

meritano davvero, perchè non sono mai uguali e perchè ci sono tutti gli elementi per farsi amare una band, anche da persone che hanno gusti musicali diametralmente opposti.

io avrei finito... se avete da aggiungere ne sarei davvero grato, sono sicuro che ci sono ancora tantissime cose che non conosco..

martedì 18 luglio 2006

Wiley: "Treddin' On Thin Ice" (XL Recordings, 2004)


















prima premessa: ho scoperto questo disco per caso.

seconda premessa: non sono esattamente un intenditore di hip-hop.

detto questo, l'album è fantastico.

campionamenti classici come se piovesse, vocine registrate esilaranti, rapping praticamente perfetto.

un lavoro di ricerca ritmica incredibile, il beat non è mai uguale, le canzoni si differenziano, e le trovate sono sempre geniali.

l'iniziale The Game impianta scomposizioni ritmiche insieme a un loop di violino (credo), le parole vengono snocciolate con un piglio irresistibile, il pezzo si conclude con synth spaziali, battiti decisi e tanta fantasia.

la seguente Pick U R Self Up è a dir poco comica. Qualcuno risponde al telefono e questo ci dice :"You have one new messages". Dopo poco inizia a parlare una voce femminile che ne dici di tutti i colori. Sembra essere leggermente arrabbiata. Anche qui, il campionamento classico sembra essere parte integrante, così ben incastrato nelle parole forsennate, innestato all'interno del beat. Si scivola fino in fondo, fra un cambio di voce, un ritmo scemo, una rima fuori posto.

Arriva ora forse il capolavoro del disco, Wot Do U Call It.

Base electro + rapping + violino campionato (ancora).

Synth rabbioso, voce impazzita, rumorini stuzzicanti, cambi di ritmo improvvisi. Come fantasia compositiva, rimanendo in questo ambito, mi viene addirittura di paragonare Wiley agli Antipop Consourtium.

piccolo siparietto electro in Eskimo, ossessione e cattiveria nella successiva Going Mad.

un impianto poliedrico e inusuale si presenta Doorway. Oltre al beat tipicamente hip-hop, si fanno largo dei synth spaziali, supportati da alcuni loop sporadici, evidenziando la grande voglia di uscire dalla normalità del genere e comporre qualcosa di nuovo.

Special, che campiona Thats What I Need delle SWV, è un groove sotterraneo, Reason sciorina il solito gusto scanzonato e sbarazzino.

ed ancora: canzoncina quasi pop in Next Level, con un forte contrasto fra il cantato e i suoni giocosi, stranezze assortite in Got Somebody.

tirando le somme, lo ritengo un album molto bello, vario e valido dal punto di vista compositivo.

piacerà sicuramente a chi già bazzica questi lidi muscali, ma pure a chi piace l'elettronica, perchè qua dentro c'è davvera tanta electro con i fiocchi.

lunedì 17 luglio 2006

Roommate: "Songs The Animals Taught Us" (Plug Research, 2006)

 













Kent Lambert , in origine film-maker, si dedica alla composizione di canzoni sporadicamente.

Autore, nel 2004, di un ottimo EP dal nome “Celebs”, si affaccia ancora al mondo della musica con una sincerità sconcertante.

I testi delle sue canzoni sono essenziali per comprendere l’anima del suo lavoro, timidamente adagiati su una malinconia sorniona e una rabbia appassita. Si parla di rassegnazione, di paure, di un’America che proprio non ci piace, di amori consumati su un prato rigoglioso. Accuse velate all’economia Bush-iana, critiche con la maschera tenue, implicite puntualizzazioni, che dimostrano quanto Kent sia uno scrittore dalla penna finissima e dorata.

La musica che contorna e impreziosisce le sfavillanti liriche è sognante e oscura, scabrosa e tenera, gocce di rumore screziano melodie tenerissime, timbri dalle sembianze irriconoscibili salgono e scendono, cambiano direzione improvvisamente.

Azzardo una definizione stilistica: immaginate Patrick Wolf in mezzo ai computer, indaffarato a “suonare” un gameboy e a bisticciare con un computer che gli permette di cesellare intrecci elettronici. Lasciate intatto il suo gusto melodico e compositivo, ed avrete vagamente in mente cosa contenga questo dischettino.

Le singole tracce si susseguono come un fiume scorre veloce nel suo letto, i ritmi si dipanano con dolcezza elegiaca, sprigionando emozioni ad ogni istante, spruzzando nell’aria profumi inebrianti.

L’iniziale “Tuesday” esprime con forza la preoccupazione e l’ossessione riguardo il tema della guerra. Frasi come :”The war will start on Monday, we will go to work, we will read the headline, we will go to get coffee” diffondono un’ansia pacata ma presente e deteriorante, quasi dannosa, un morbo che circonda la mente e non la libera più. Il cantato è molto minimale e mai eccessivo, timidamente pauroso nell’esporre i propri pensieri, Kent dimostra di avere una voce molto poliedrica, capace di far nascere sensazioni di intensità sconosciuta.

I fraseggi melodici sono di struttura elettronica, così incentrati su uno scontro fra ritmi digitali e partiture di una tastiera dilatata. Improvvisamente entra in scena un synth giocosissimo, vivace e delizioso, in grado di regalare attimi di bellezza cristallina. Il finale, con le parole poco più che sussurrate, lascia uno strano torpore dentro le nostre orecchie.

Prosegue “Fairgrounds” con il suo incedere minimale e stralunato, un timbro deliziosamente saturo e pieno circonda i sensi dell’ascoltatore con forza pacata. In questo frangente viene imbracciato il banjo, attorniato da scintillanti note di xilofono e soffocanti beat elettronici, ruvidi e aspri. Gli strumenti acustici si ibridano perfettamente con la componente “estranea”, effigiando un effetto quantomeno straniante. La conclusione vagamente pazzoide ricorda alla lontana gli Animal Collective.

Il techno-pop oscuro di “Hot Commods” ci fa capire quanto Kent abbia ascoltato i dischi dei Depeche Mode, ma anche quanto apprezzi gli odierni Xiu Xiu, quelli di “Fabulous Muscles”. Sibili digitali scordati e scomposti, note di piano in crescendo, un groviglio di note, ci accompagnano al finale con una coltellata dopo l’altra, sfinendoci fino all’ultimo secondo.

Ancora parole maliziose e musica ispiratissima nella seguente (e immediata) “Status Hounds”. Elettronica intricata e coloratissima, rimbalzi silenziosi, convulsioni di una macchina impazzita, segni di una insoddisfazione maturata negli anni, con il giocoso giro di parole conclusivo : “We hate the rich, but we might get rich, maybe hate will make us rich”.

L’intrinseca bellezza compositva di “Typhoon” lascia residui di dolore nelle nostre membra, intaccando sicurezze e convinzioni. Il testo immaginifico è una fabia realistica tinteggiata con garbo e fantasia. Si accoppia con coerenza la successiva “War Talk”, riesumando il tema della guerra accennato nella prima traccia. La voce dondola malata e sfigurata, i suoni sono  spore velenose che si proliferano con velocità.

Viene sviluppato ulteriormente il lavoro di levigazione della musica nella settima traccia, “Dinner With Ivan”. Basato completamente su trame elettroniche, ricorda con insistenza qualche episodio di quel capolavoro che è “Handwriting” di Khonnor.

Forte intensità emotiva in quel quadretto di disperazione giovanile che è “Fresh Boys”, bellissima favola dalle parole e dai suoni discordanti e contraddittori. Lenta, pacata e commovente.

Profumi di vera poesia in “Molly”. :”The sky was pink like a seashell, i couldn’t tell that it wasn’t real, i didn’t know that grow up or that the ocean had dried up..”, “We Will crawl to the ceiling, drop and float in the breath of the ghosts of our childrens”. Queste le parole di una canzoncina preziosa quanto il più raro diamante.

Conclude definitivamente con solennità e dolcezza “Hollis”, il pezzo più etereo e vicino a certe sonorità dream-pop. Altrettanto significativo e semplicemente bello.

Questo è un disco che, ne sono convinto, lascerà traccia di sé senza sparire innominato, i suoi suoni sono troppo rari per essere dimenticati, i suoi racconti sono troppo pregiati per essere lasciati alla deriva della confusione discografica.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

sabato 15 luglio 2006

Blood: The Last Vampire
















stasera ho visto Blood: The Last Vampire..

è stato il primo anime completamente prodotto in digitale, elogiato ovunque venisse nonimato..

allora per la curiosità ho voluto vederlo..

inizialmente, lasciando da parte qualsiasi altra cosa, vorrei parlare solo della resa visiva e dell'impatto grafico.

favoloso.

insomma, veder muovere Saya (la protagonista) è fantastico.. il suo viso sempre corrucciato, gli scatti con la spada, le corse contro i terribili vampiri.. tutto è stato realizzato con una minuzia impressionante.

la limpidezza dei colori è la cosa che mi ha colpito di più, da tanto son puri sembra di vivere l'avventura in prima persona, elevando l'immedesimazione nella storia a livelli ludici..

anche la gestione delle ombre è stata architettata con precisione chirurgica.. al minimo cambio di direzione o di movimento dei personaggi, il colore della pelle/vestiti cambia gradualmente, rivelando un lavoro mastodontico dal punto di vista grafico e di rendering..

gli sfondi sono stati disegnati in 2d eppoi renderizzati in 3d, ed anche questa parte è stata realizzata senza la minima sbavatura.. l'integrazione complessiva è perfetta, tanto realista quanto raffinata..

l'effeto complessivo della realizzazione grafica è stupefacente.

nei momenti di maggiore tensione sembra di essere all'interno della scena, non c'è distanza tra lo spettatore e lo svolgimento della trama..

le musiche sono parte integrante di questo risultato complessivo, essendo ossessionanti e schizofreniche nei momenti di pura adrenalina, pacate e attendiste (seppur sempre con qualche velo di tensione) nei momenti di calma apparente..

sono sempre shockato, è evidente.. ma la visione di stasera mi ha lasciato a bocca aperta.

consigliato a qualsiasi persona ami gli anime, ed anche a chi non li ama ma apprezza semplicemente un film pieno di tensione e azione forsennata. e pure a chi ama le spade giapponesi.

mercoledì 12 luglio 2006

Takagi Masakatsu: "Journal For People" (Carpark Records, 2006)

ristampato da poco uno dei più grandi capolavori dell'elettronica giapponese, ed a mio modo di vedere

uno dei lavori più importanti nell'ambito della sperimentazione-tutta. La ricerca della melodia giusta per far incontrare strumenti acustici e manipolazioni elettroniche ha pochi eguali per bellezza, grazia e gentilezza timbrica.

la copertina originale era questa:










per l'occasione è stata cambiata:

















originariamente pubblicato dalla Daisyworld Discs, ora la Carpark Records (mamma mia che etichetta!) ristampa il disco, in origine licenziato nel 2001, e non posso che scriverne qualcosa.

oltre al cd viene aggiunto un dvd contenente un'installazione a cui si accoppia ovviamente la musica.

rimango allibito, sempre come se fosse la prima volta, quando ascolto J.f.p.. Un miscuglio di timbri elettronici strutturati e ciclici, un piano gelido in sottofondo, il beat che pian pianino sale di colorazione ed il cuore che mi balza in gola. le instabilità che si presentano fracassano da ogni parte e si frammentano in piccole particelle glitch di bellezza cristallina. questo pezzo trascende dalla realtà proprio, non un capolavoro ma la traposizione dei movimenti di una stella e dei suoi suoni più intimi. ascoltarla in una notte d'estate, distesi sotto le stelle. questo è il miglior modo per capirne il significato.

Aqua è un capolavoro di campionamento concreto, il suono dell'acqua corrente accoppiato a una nota di piano come se fosse una pallottola di fucile velocissima, Wonderland, come da titolo, è un sogno ad occhi aperti, la colonna sonora per una nuvola gigantesca dove abitano angeli celesti.

L'accoppiata Uter1, Uter2 insegna un pò a tutti come si deve fare a comporre una traccia elettronica/chitarra. accordi smembrati e privati della loro anima originaria, infinitesimali sporcizie digitali contornano l'acquarello sonoro, arricchendo in maniera gentile, senza saturare l'atmosfera.

la prima è più progettata e strutturata, meno caotica e più dolce, la seconda è leggermente più oscura e sconclusionata, viene aggiunto il solito piano dolentissimo, con l'apporto di tanta malinconia e un goccio di follia compositiva.

Il terzetto Ketie1, Ketie2, Ketie3 è un altro centro assoluto.

prende il largo il ciclo di timbri, in Ketie1, come se un carillon fosse impazzito e suonasse la sua musichetta senza dar peso al resto, uno xilofono pare richiamare alla mente il suono di una goccia di rugiada scintillare in ruscello (Ketie2), una drum-machine, unita a un synth spumoso, mettono insieme tutti gli elementi per strappare due lacrime. la perfezione è vicina, infatti manca il terzo episodio.

schiocchi digitali completamente fuori registro, senza una struttura prestabilita, si auto-generano, come in un processo chimico, il tutto si prolifica secondo il caso. una fisarmonica (!!!) si innesta, come se niente fosse. non risulta assolutamente fuori contesto, anzi. le due anime del pezzo fanno l'amore e si uniscono, scambiandosi la scena, entrando possesso della nostra mente a turno. un pezzo interstellare, magnifico, magico. imperdibile.

I 6 minuti di Birdland mettono a tacere ogni pensiero malsano si abbia in testa, da tanto il suo afflato sia gentile e conciliante, piccoli rigoli di elettronica si fanno vivi in mezzo a tripudio di gemme sonore provenienti da un piano suonato da milioni di mani.

Perdersi nei meandri di Waltz è un qualcosa di facile e benvoluto, dove lo strumento portante del disco viene sovrastato o circordato con sibili noise, piccoli rumori di un marchingegno in funzione, dolci e luccicanti, dal sapore di spazio, si integrano con facilità progressiva, quasi come il tramonto toglie il giorno dagli occhi e ci mostra l'oscuro.

fantasie concrete, voci di una bimba felice, sensazioni tenere e atmosfera familiare nelle due composizioni poste in conclusione: Salida Del Sol e Light Song.

sì, light song. è proprio la luce che ci lascia. come una porta che si chiude e non fa più passare i colori di un raggio di sole, i sapori di un giorno che finisce. ma terminata la notte si può riaprire la fessura e poter riassaporare le solite sensazioni, solo che ripassarci sopra è sempre un'altra cosa rispetto al primo incontro.

amore, amore e ancora amore per questo disco.

martedì 11 luglio 2006

ho composto un pezzo attraverso l'uso del linguaggio di programmazione c-sound ed usando vari campioni di pattern già realizzati per conto mio.

all'interno è presente un sample glitch composto dal mio amico bebo, di cui potete leggere il blog, linkato nei miei contatti.

qui dovreste riuscire a scaricare la traccia.

nella prima pagina presente, cliccate su free in fondo e aspettate 30 secondi, dopo sarà possibile fare il download della traccia.

domenica 9 luglio 2006

SECEDE













Secede aka Lennard van der Last è un olandese sconosciuto.

i suoi dischi e la varie collaborazioni (sia in fase di composizione che di mixing) disperse per l'europa son sempre state di un certo rilievo, senza desiderare i piaceri della ribalta continua il suo lavoro, evolvendo una formula mai così brillante.

Pianista precocissimo (a partire da 8 anni), inizia dopo poco a mettere le mani su un computer ed inizia, seppur con risultati infantili, a comporre i suoi acquarelli sognanti.

Superata questa fase di approccio con gli strumenti digitali, inizia ad innamorarsi della tastiera del fratello, interrompendo prematuramente le lezioni di piano, che era e, probabilmente, rimane il suo strumento preferito.

Già all'età di 12 anni inizia a sperimentare con synth ed altri apparecchi elettronici come drum-machine, delayer e campionatori. Le sue primissime registrazioni, sono state rilasciate in questa stella:

















Secede: "Mommylove & Daddypride EP" (Monotonik, 2002)

il titolo è più che eloquente, visto che effigia un periodo della sua vita in cui la propria famiglia era la cosa più importante di tutte.

solo 4 pezzi, ma un'infinità di idee e ispirazione.

pubblicato a suo tempo dalla grandissima netlabel Monotonik, l'EP è la testimonianza del talento che straborda da questo ragazzo.

tutte composizioni fragili e minuscole, piccoli frammenti di cristallo luccicante.

Depart & Arrive è una musichetta attraente e viva, Option Screen (Phantas) mi contagia mente e spirito, con il suo srotolarsi timido e gelido.

Seafold è un IDM addolcita e tenera, piccoli ricami ritmici di grazia estatica in I Can't Help Fearing You.

non un capolavoro, certo, ma un EP di valore, un'opera piena di significato per l'artista, e utile anche per comprendere le sue basi, il seme da cui sono nati i due dischi successivi, fortemente più significativi.

Essendo in possesso di una discreta capacità melodica e un senso del ritmo fuori dal comune, attraverso la rete, entra in contatto con l'artista elettronico Proem (anche lui, da trattare a parte!) che lo introduce all'interno dell'etichetta Merck, altra tappa d'obbligo per comprendere l'andamento dell'elettronica odierna.

Saldato il rapporto con la Merck, nel 2002, escono vari remix per artisti come Sleepy Town Manufacture, Machine Drum e Ilkae. tutti di ottima fattura e molto personali, con una forte tendenza all'atmosfera distesa e ammorbante, gentilmente movimentata e mai stucchevole.

Un anno molto ricco anche il 2003, in cui si battezza con un nuovo moniker, Aii, ed entra come remixer nella rimodellazione (dal titolo stesso) del bellissimo disco ambient-techno di Norken, dal nome Blue Divide (Remodelled).

Il pezzo in questione si chiama Shifting Towards ed è l'ennesima conferma di quanto il suo stile musicale sia di primo piano, non un artista per caso, ma una personalità spiccata ma appartata, un talento innato ma non ingombrante.

Continua la collaborazione con la Merck, e continua il lavoro con i Machine Drum, entrando con forza nel 12" Half The Battle 2, peraltro nell'episodio più convincente del disco (6 pezzi in tutto).

Nei rimasugli di un 2003 attivissimo e pieno di soddisfazioni, c'è l'inclusione in una splendida raccolta della Merck, dal nome Merck Mix 1, Spring 2003, con il pezzo Yo What Uh Yeh.

dietro a tutta questa attività da remixer, c'è in cantiere un disco solista, completato sempre nel 2003.

















Secede: "Bye Bye Gridlock Traffic" (Merck, 2003)

commevente, dolce e silenzioso.

sono le prime tre parole che mi piombano in testa appena penso a questo disco, e sopratutto quando lo metto nel mio lettore e premo sul tasto play. ricordo sempre quando lo comprai quasi per caso, attratto dalla copertina interrogativa ma così bella, imperscrutabile e preziosa. ed è anche l'opera con cui ho conosciuto Secede.

rimasto completamente inosservato nel suo paese (fatto molto usuale in Olanda, dice lui stesso) il disco riscuote discreto interessamento in Giappone (guarda un pò..) e negli USA.

E' un album che va ascoltato con cautela, senza fretta, non si deve aver paura dei primi ascolti, magari affrettati. è un disco che va vissuto nelle sue interiora, esplorato con tutta la pazienza e la passione necessari.

Un modo per assaggiare il suo talento anche in fase di scrittura, processo che si compirà definitivamente nel disco successivo, il suo capolavoro.

Se Big Day Out incanta con il suo fare gentile e malinconico, avviluppato su fraseggi digitali graziosi, Hotel invischia la mente in una melassa acidissima, cesellando la colonna sonora per un ambiente privo di atmosfera.

Rimango sempre a bocca aperta come la prima volta, quando ascolto la sequenza fatata di Unbound e Now I Can Weave Magic Spells, lasciando l'esistenza terrena e lasciandomi trasportare da queste lande proto-ambient. vagamente screziate da bollicine digitali, quando il suono è fermo e statico, quasi immobile, quando la ritmicità aumenta pacata, sommessa, quasi timida.

C'è un qualcosa di cosmico in Return To Island CX, e la conferma della nascista di un piccolo genio si ha, in prima battuta, con Outran e, in maniera definitiva, con la title-track. un flusso di pensieri, immagini, schiocchi meccanici e orizzonti irraggiungibili.

conclude, dopo un altro episodio interessante come Say I Said So, la lunghissima Age Tandems, un vero e proprio pezzo ambient, periodicamente frastagliato da instabilità digitali, tredici minuti belli e importanti, un finale che lascia all'ascoltatore, nel suo animo, un senso di irrequietezza e pace.

Dopo questo album, viene un periodo di grande silenzio, essendo Lennard un ragazzo molto schivo, solitario e fortemente disgustato dal caos del mondo odierno. Barricato nella sua casa, i suoi unici compagni sono il laptop ed alcuni strumenti, esce solo per comprare da mangiare e per mantere rapporti con i suoi amici in ambito musicale.

La grande amicizia che lo lega ad un altro artista dal calibro di Kettel, si concretizza con un interessamento per il suo nuovo album (che in origine fu chiamato Silent Flower Observers) da parte della Sending Orbs, etichetta nata nella sua terra natale, l'Olanda. Il materiale ricevuto lascia entusiasti gli addetti ai lavori, e gli viene lasciato a disposizione un studio di registrazione per preparare il suo capolavoro.

















Secede: "Tryshasla" (Sending Orbs, 2005)

qualche immagine in più, per i bellissimi disegni all'interno del package, disegnati dell'artista olandese Jeroen Advocaat.

Lo stesso Lennard definisce il suo album "last dream of a person dying, drifting off to a fantasy land called Sanda". Una morte pacifica, solitaria, senza dolore, quasi un sonno involontario che si potrae fino all'infinito. Una fiaba che è stata accostata ai romanzi fantasy, addirittura definita come la possibile colonna sonora per i lavori di Tolkien.

E' davvero un album molto importante questo Tryshasla. ci lascio dentro tantissimi ricordi, e parlarne con un minimo di spirito critico è un'impresa.

L'ambient spirituale, quasi eterea, si miscela con scatti ritmici tipici della prima IDM, i frangenti più meditativi prendono spunto ed ispirazione da mostri sacri come Brian Eno e Tangerine Dream, gli scampoli più oscuri mostrano riconoscenza per l'atmosfere dark-ambient più distese.

L'iniziale Hospital Requiem, introduce l'opera in una marea di bleeps spaziosi e dilungati, una voce dal tono possente annuncia chissà quali sentenze, il tappeto sonoro disorientante, conduce i sensi, chiudendo gli occhi, ad un paesaggio mattutino silenzioso, screziato dai rumori naturali, da quei sapori che solo la pace può regalarti. Un quardo, potrei definirlo così questo pezzo. Un quadro che si può figurare liberando tutti i sensi davanti a questi suoni, lasciando andare la mente verso lidi disegnati con precisione puntigliosa.

Foliage riprende il discorso appena lasciato in sospeso, sviluppando la formula con tocchi di elettronica acquatica, scorrevole ed elegiaca. Strane oscillazioni spaziali lasciano il posto a pulsioni rimbombanti.

Il vento che scaccia i pensieri, spostando ogni cosa, si presenta nella bellissima Leraine, forse il pezzo più movimentato del disco. Introdotto da momenti di gioia concreta, il beat si sviluppa con il passare dei secondi, conducendo al groove perfetto, fra battiti gentili e tastiere impazzite.

The Realms Of Sanda è un capolavoro. non ho davvero parole. parlarne è davvero, ma davvero difficile. Si parte con campionamento concreti, rumori di vita quotidiani mischiati con stranezze elettroniche.

Nel momento in cui il tutto va a sfumare, sorge incantevole la partitura puramente elettronica, e non c'è davvero scampo. Il suo svolgersi lento e soffuso è un piacere per i sensi stanchi e spossati, gelidi tocchi di chissà quale provenienza toccano le corde emozionali più profonde, attimi più colmi di suoni, si alternano con naturalità a scampoli di silenzio. La conclusione di questa gemma mi lascia senza niente da dire, solo un grande piacere invade la mente, e non c'è altro da scrivere.

Ancora solennità ambient, fra citazioni coraggiose e personalità stilistica (The King Of Sanda, Terata), lande ambientali cristalline, lucenti e sibilanti (Kingdom Of Hearts ).

Se Friday Fall rappresenta forse l'episodio più meditativo ed astratto, Shine innesta un piano, suonato direttamente da lui, a testimoniare con il suo primo strumento non è mai stato dimenticato. Ed è proprio questo il pezzo più sentito, nel quale percepisco una voglia straripante di suscitare emozioni nell'ascoltatore, con solo le sue dita e una cicala che canta svogliata. Fantastico, davvero fantastico.

Rimane Born In A Tropical Swamp, nel mezzo del disco, forse l'episodio più coraggioso (più di nove minuti). Si ibridano partiture calme e paficifiche, ritmi scomposti e stravolgimenti di vario genere. Leggermente confusionario ma egualmente positivo.

La conclusione spetta ai quei due minuti dal sapore amarognolo e disperati di We No Longer Need Ourselves, in cui il rumore si accoppia pacificamente con l'amore per la musica colorata e pura. Il suono del treno, sul finire, ci saluta, partendo per altri per altri mondi, altri paesaggi, altre emozioni.

Lennard vive attualmente nella città di Hilversum e sta sempre rinchiuso in una casetta, il suo attuale microcosmo, dove sta componendo musica, immagini e suoni.

venerdì 7 luglio 2006

mannaggia, lo studio mi porta via tempo alla musica..

















Dijf Sanders: "Mating Seasons" (Djak-Up-Bitch, 2004)

sapientissima miscela di synth-pop, atmosfere jazz, geniali motivetti scomposti.

un'artista belga ingiustamente non ancora della ribalta almeno europea, capace di cesellare, nella sua carriera, una formula mai doma, in bilico fra un jazz mutante e un'elettronica dolorosa come un tramonto improvviso.

Bestial Boezem è uno scherzetto pop, dotato di una grazia deliziosa, Borning To Dance Among The Stars è una canzone impaziente di arrivare alla fine, I'm not Karatekid è pura ossessione sonora.

[7,5]

















Sasse: "Made Within The Upper Stairs Of Heaven" (Moodmusic, 2006)

Tech-house from Berlino, BlackHead Studios II.

forse il più bell'album dance dell'anno? lo scontro con Booka Shade è cattivissimo e all'ultimo sangue.

synth gommosissimi, tastiere stellari, cassa dritta senza esagerare, voce acida e ombrosa.

The Sound of Highlife è un pezzo d'altri tempi: rimbalzi digitali, battiti vivisezionati, flussi elettronici che omaggiano sì il passato, ma non lasciano scampo. proprio mai.

un capolavoro, almeno dalle mie parti.

[8]















The Go Find: "Miami" (Morr Music, 2004)

indie-tronica delle più classiche, ma mai così espressiva..

questo disco rappresenta una delle vette del genere, non contenendo un solo pezzo sotto tono.

a partire dall'iniziale Over The Edge, canzoncina fragile fragile, si prosegue fra accordi azzeccati e battiti docili, arrivando a circa metà con quel pezzo perfetto che è Bleeding Heart.

in questi giorni credo d'aver ascoltato più What I Want che il vento fuori dalla finestra, nel silenzio sono ugualmente preziosi, davanti a un'alba se la contendono all'ultimo soffio di bellezza.

[7]















Her Space Holiday: "The Young Machines" (Wichita, 2003)

questo progetto è un amore che tengo dentro di me da tanto tempo..

questo disco è una simpatica mistura fra un'elettronica indie e un bel pò di partiture classiche.

la voce si intromette con grande personalità, effigiando frangenti di pura emozione, senza il timore di strafare.

non ho parole per esprimere cosa mi trasmette Tech Romance.

gocciolanti archi saltellano con grazia, una batteria elettronica giunge dispettosa, la voce canta la propria favola con un tatto fatato, recitando con passione.

altro colpo al cuore è My Girlfriend's Boyfriend, un perfetto mescolarsi fra campionamenti classici e battiti elettronici timidi. la voce disegna le farfalle nel cielo, con le sue pause infinite.

a modo suo un disco importante.

[7,5]

quello che rimane:

Under Byen: "Samme Stof Som Stof" (6,5)

Alec K. Redfearn & The Eyesores: "Every Man For Himself & God Against All" (7+)

Sunset Rubdown: "Shut Up I Am Dreaming" (7+)

Sunset Rubdown: "Snake's Got A Leg" (7)

Anoice: "Remmings" (7,5)

She Wants Revenge: s/t (7)

Sophie Rimheden: "Hi-Fi" (7-)

sabato 1 luglio 2006

Playlist 23-30 Giugno

questi i dischettini che hanno decorato i miei ultimi 6-7 giorni:



 






Tenniscoats: "The Ending Theme" (Noble Records, 2002)

i tenniscoats sono Saya and Takashi Ueno, due musicisti che hanno nelle mani un'etichetta interessante come la Majikick.

questo è album è bellissimo. questa è la prima parola che riesco a dire.

ok, ora il resto. per tratteggiare un minimo il suono presente in questo disco azzardo una fusione: i migliori sigur ros + i migliori mùm.

i paesaggi puri, leggermente malinconici, la voce dolce e delicata di Saya, piccoli rigoli di elettronica fredda, accordi dondolanti di chitarra, una patina di distensione che ricopre ogni traccia.

c'è da rimanere a bocca aperta davanti all'angelico procedere di In May Blood River.

un quadretto di minimale vita quotidiana, decorato dalla raffinatezza, come solo in Giappone riesco a percepire.

[7,5]

Gutevolk: "Twinkle" (7,5)

Piana: "Snow Bird" (7)

Piana: "Ephemeral" [8]


"unconventional japanese pop", dice il messaggio di benvenuto dell'etichetta. davvero fantastica questa Happy Records, sottolabel della 12k e non della Cubic, come ho letto da altre parti.

ed è proprio così, un pop che nasce da un cuore pulsante misterioso, appositamente resuscitato per cesellare questi quadretti musicali delicati.

di gutevolk ho parlato apertamente nella mia monografia, posso solo ribadire come Twinkle sia una delle prove più convincenti e trasognate di tutte il 2005, silenzioso ma prezioso.

Piana è una delle mie artiste preferite, c'è poco da farci.

Simile nell'approccio ma non nel risultato a Tujiko Noriko, parte da un album più elettronico come Snow Bird (da lacrime Butterfly), per arrivare al compimento (non ultimo) della musica con Ephemeral. Elettronica meno presente, si fa da parte e crea il contorno per il fiorire degli strumenti acustici presenti: violino, chitarra, xilofoni. Due strumentisti come Yuichiro Iwashita e Gan Saito (già Minamo) assecondano Naoko e arricchiscono lo spessore artistico.

eppoi, la voce.. ci sono davvero poche parole. ascoltatela eppoi fatemi sapere..

uno dei miei angeli giapponesi preferiti.


















Tender Forever: "The Soft and The Hardcore" (K records, 2006)

l'etichetta con cui è esploso Phil Elvrum è sempre una garanzia..

la ragazzina che si cela dietro questo moniker è una folk-singer innamorata del pop e dell'elettronica.

l'album è corto, immediato, poco meno di mezz'ora di musica.

piccoli cristalli folk-tronic-pop, battiti sintetici, assoli chitarra-voce o, in alternativa, tastiera-voce.

il tutto scorre via veloce, come un fulmine, fra una storiella colorata e una fiaba innamorata.

[7]


















 Télépopmusik: "Angel Milk" (Capitol, 2003)

e qua ti volevo, caro Ale.

questo album è davvero un altro strike di quelli precisi precisi.

qua si mira al cuoricino e si spara con una precisione incredibile.

probabilmente il grado critico sarà rasente lo 0, ma mi interessa poco poco.

allora, l'album. che dire? è una manciata di canzoni perfette, adatte a quelle giornate

magari nostalgiche, quando ti chiedi se qualcosa (non) andava fatto, se sei felice o meno.

il genere si attesta su un trip-hop, più trip che hop. magari con un pò più di elettronica, magari leggermente down-tempo. magari dico pure che la cantante pare una Beth Gibbons con le alette e il vestitino bianco.

Anyway sono lacrime e ricordi, con un beat cigolante e perfetto. il cantato è un volo d'angelo, toccanti frangenti classici mi tagliano in due l'animo.

L'andamento vagamento jazzy di Close mi da del tu senza ferirmi, Into Everything fiorisce sfavillante fin dai primi secondi, concedendosi sfrontata.

le canzoni sono tante, 15. lascio a voi la scelta di scoprire il resto. 

[8]

rimasugli:

Wauvenfold: "3 Folds" (6,5)

Headscan: "Pattern Recognition" (6,5)

Rovo: "Flage" (5)

Rovo: "Pico!" (6,5)

Rovo: "Sai" (6-)

Rovo: "Imago" [8]

Rovo: "Tonic" (7)

Hawnay Troof: "Dollar And Deed" (7+)

Sasse feat. Kiki: "Loosing Touch (Remixes)" (7)

Shugo Tokumaru: "Night Piece" (7,5)