lunedì 17 luglio 2006

Roommate: "Songs The Animals Taught Us" (Plug Research, 2006)

 













Kent Lambert , in origine film-maker, si dedica alla composizione di canzoni sporadicamente.

Autore, nel 2004, di un ottimo EP dal nome “Celebs”, si affaccia ancora al mondo della musica con una sincerità sconcertante.

I testi delle sue canzoni sono essenziali per comprendere l’anima del suo lavoro, timidamente adagiati su una malinconia sorniona e una rabbia appassita. Si parla di rassegnazione, di paure, di un’America che proprio non ci piace, di amori consumati su un prato rigoglioso. Accuse velate all’economia Bush-iana, critiche con la maschera tenue, implicite puntualizzazioni, che dimostrano quanto Kent sia uno scrittore dalla penna finissima e dorata.

La musica che contorna e impreziosisce le sfavillanti liriche è sognante e oscura, scabrosa e tenera, gocce di rumore screziano melodie tenerissime, timbri dalle sembianze irriconoscibili salgono e scendono, cambiano direzione improvvisamente.

Azzardo una definizione stilistica: immaginate Patrick Wolf in mezzo ai computer, indaffarato a “suonare” un gameboy e a bisticciare con un computer che gli permette di cesellare intrecci elettronici. Lasciate intatto il suo gusto melodico e compositivo, ed avrete vagamente in mente cosa contenga questo dischettino.

Le singole tracce si susseguono come un fiume scorre veloce nel suo letto, i ritmi si dipanano con dolcezza elegiaca, sprigionando emozioni ad ogni istante, spruzzando nell’aria profumi inebrianti.

L’iniziale “Tuesday” esprime con forza la preoccupazione e l’ossessione riguardo il tema della guerra. Frasi come :”The war will start on Monday, we will go to work, we will read the headline, we will go to get coffee” diffondono un’ansia pacata ma presente e deteriorante, quasi dannosa, un morbo che circonda la mente e non la libera più. Il cantato è molto minimale e mai eccessivo, timidamente pauroso nell’esporre i propri pensieri, Kent dimostra di avere una voce molto poliedrica, capace di far nascere sensazioni di intensità sconosciuta.

I fraseggi melodici sono di struttura elettronica, così incentrati su uno scontro fra ritmi digitali e partiture di una tastiera dilatata. Improvvisamente entra in scena un synth giocosissimo, vivace e delizioso, in grado di regalare attimi di bellezza cristallina. Il finale, con le parole poco più che sussurrate, lascia uno strano torpore dentro le nostre orecchie.

Prosegue “Fairgrounds” con il suo incedere minimale e stralunato, un timbro deliziosamente saturo e pieno circonda i sensi dell’ascoltatore con forza pacata. In questo frangente viene imbracciato il banjo, attorniato da scintillanti note di xilofono e soffocanti beat elettronici, ruvidi e aspri. Gli strumenti acustici si ibridano perfettamente con la componente “estranea”, effigiando un effetto quantomeno straniante. La conclusione vagamente pazzoide ricorda alla lontana gli Animal Collective.

Il techno-pop oscuro di “Hot Commods” ci fa capire quanto Kent abbia ascoltato i dischi dei Depeche Mode, ma anche quanto apprezzi gli odierni Xiu Xiu, quelli di “Fabulous Muscles”. Sibili digitali scordati e scomposti, note di piano in crescendo, un groviglio di note, ci accompagnano al finale con una coltellata dopo l’altra, sfinendoci fino all’ultimo secondo.

Ancora parole maliziose e musica ispiratissima nella seguente (e immediata) “Status Hounds”. Elettronica intricata e coloratissima, rimbalzi silenziosi, convulsioni di una macchina impazzita, segni di una insoddisfazione maturata negli anni, con il giocoso giro di parole conclusivo : “We hate the rich, but we might get rich, maybe hate will make us rich”.

L’intrinseca bellezza compositva di “Typhoon” lascia residui di dolore nelle nostre membra, intaccando sicurezze e convinzioni. Il testo immaginifico è una fabia realistica tinteggiata con garbo e fantasia. Si accoppia con coerenza la successiva “War Talk”, riesumando il tema della guerra accennato nella prima traccia. La voce dondola malata e sfigurata, i suoni sono  spore velenose che si proliferano con velocità.

Viene sviluppato ulteriormente il lavoro di levigazione della musica nella settima traccia, “Dinner With Ivan”. Basato completamente su trame elettroniche, ricorda con insistenza qualche episodio di quel capolavoro che è “Handwriting” di Khonnor.

Forte intensità emotiva in quel quadretto di disperazione giovanile che è “Fresh Boys”, bellissima favola dalle parole e dai suoni discordanti e contraddittori. Lenta, pacata e commovente.

Profumi di vera poesia in “Molly”. :”The sky was pink like a seashell, i couldn’t tell that it wasn’t real, i didn’t know that grow up or that the ocean had dried up..”, “We Will crawl to the ceiling, drop and float in the breath of the ghosts of our childrens”. Queste le parole di una canzoncina preziosa quanto il più raro diamante.

Conclude definitivamente con solennità e dolcezza “Hollis”, il pezzo più etereo e vicino a certe sonorità dream-pop. Altrettanto significativo e semplicemente bello.

Questo è un disco che, ne sono convinto, lascerà traccia di sé senza sparire innominato, i suoi suoni sono troppo rari per essere dimenticati, i suoi racconti sono troppo pregiati per essere lasciati alla deriva della confusione discografica.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

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