lunedì 11 maggio 2009

AGF/DELAY: "Symptoms" (Bpitch Control, 2009)




Lo scrosciare di un tuono irrompe un attimo prima dell’incessante beat in apertura di album, in un’atmosfera lugubre e ottenebrante, che occlude ogni spiraglio di solarità pop. Ad accogliere il nuovo sodalizio del duo, coppia ormai anche nella vita reale, è la BPitch Control di Ellen Allien, etichetta che nel nuovo anno ha già licenziato l’ottimo “Immolate Yourself” degli sfortunati Telefon Tel Aviv. Dalla pubblicazione di “Explode” sono passati quasi quattro anni, lasso di tempo in cui Agf ha proseguito un personale tragitto di sperimentazione, incentrato sull’uso estremo della “voce” e degli ambienti (sonorizzazione di chiese, effettuata anche a Milano per audiovisiva), scarnificando l’elettronica ed elevandola a pura ed essenziale entità algebrica. Vladislav Delay, dal canto suo, ha fatto del minimalismo sonico il suo marchio di fabbrica, decorando le proprie creazioni a colpi di beat soffusi in salsa dub-ambientale.

Nella sua essenza multiforme, "Symptoms" gioca a stupire l’ascoltatore, mutando continuamente la sua natura, transitando con disinvoltura fra lidi mai troppo distanti fra loro: synth-pop, trip-hop, dub-techno. La quantità di riferimenti stupisce fino a un certo punto, ciò che davvero salta all’occhio è la padronanza con cui questi elementi vengono fusi fino a raggiungere un livello di coesione complessiva mirabile. Laddove in “Explode” emergeva sostanzialmente un suono scarno e gelido, la situazione in “Symptoms“, almeno parzialmente, evolve. Non più, o non solo, secche sezioni ritmiche, impasti krauti aggiornati al nuovo millennio, magie elettroniche ghiacciate provenienti dal Polo Nord. Il nuovo corso si orienta verso lande decisamente più tiepide, tra minimalismo, reiterazioni sonore ed elettronica avvolgente, rumorosa, talvolta sedotta dal dancefloor.

L'iniziale “Get Lost”, che pare uscita da un disco qualsiasi dei Massive Attack, si sgancia dalle produzioni dei due per proiettarci in un immaginario timbrico molto vicino al trip-hop dei tempi migliori, in bilico col dub. I fendenti astrali che adornano il motivo di “Connection” sembrano giungere direttamente dal Sol Levante. E’ impossibile mantenere il controllo all’ascolto di un algido rimbombo ritmico (“Downtown Snow”), i fantasmi del down-beat più acido emergono tra sinistri presagi futuristi e immaginifiche scuciture melodiche (“Outbreak”). “Generic” ripropone sincopi minimal-techno, anticipando “Most Beautiful”, capace di rimandare a quel pop elettronico brumoso di cui gli Air sono maestri.

Reiterazioni oppiacee ammorbano un’atmosfera già tutt’altro che rassicurante (la splendida voce granulosa di “Bulletproof”, momenti di stasi glaciale in “Second Life”), ispirando derive digitali in forma di racconto errante (la lunga e ipnotica “Congo Hearts”).

Se acidi momenti sintetici non deluderanno gli amanti del synth-pop (la title track e “Smileway”), la conclusiva “In Cycles” riesce a sposare Fennesz a un gusto tutto nordico nel cesellare groove regolari ma quantomai trascinanti.

Artisti acuti e sapienti manipolatori della materia sonora, i coniugi Ripatti consegnano nelle mani del pubblico un’opera di pop futurista difficile da accogliere e soprattutto da comprendere, implosione definitiva dell’inquietudine urbana e rappresentazione pessimistica di un mondo non troppo lontano.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

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