lunedì 9 novembre 2009

subtractiveLAD: "Where The Land Meets Sky" (n5MD,2009)



E’ difficile associare a un ascolto rarefatto una sensazione o anche una sola immagine. Spesso si trae piacere da una musica semplicemente per la sua bellezza, tuttavia andando a fondo è difficoltoso evocare qualcosa di preciso a cui far riferimento. Nel caso della nuova prova del compositore canadese subtractiveLAD, all’anagrafe Stephen Hummel, questo dubbio è una necessità a cui si deve dare una risposta. Protesa verso una forma personale di ambient glaciale, nel corso di questo nuovo lavoro articolato sulla lunghissima distanza di due cd, la formula si tramuta spesso e diventa un’essenza a sé stante, senza una precisa identità stilistica. Shoegaze? Ambient isolazionista? Post-rock? Questa forte peculiarità induce a porsi diversi quesiti; essenzialmente il tutto si riduce alla comprensione della natura stessa di queste composizioni.

Ascoltando con attenzione ognuna delle 13 tracce che compongono la prima parte di “Where The Land Meets The Sky”, si prova una serie di sensazioni: desolazione, solitudine, rassegnazione. Pare di scorgere distese glaciali al cui orizzonte non sorge nessuno sole e non tramonta nessuna luna, dove non c’è vento se non quello per spazzare via i rimorsi. Una musica che nasce da un profondo raccoglimento prima interiore, di natura personale e umano, poi artistico.

Ma il contesto emotivo è solo uno dei capitoli del nuovo corso di subtractiveLAD. Quello che risalta dall’ascolto di "Where The Land Meets The Sky" è soprattutto la maturità del compositore canadese nel cesellare ogni singolo elemento nell’insieme. Limate certe asperità di rumore che ancora si affacciavano nei lavori precedenti (fra cui il precedente “Apparatus”), Hummel indovina la formula magica perché le sue ascensioni ambientali si tingano di immenso.

“Filament” e “Something Like A Star” si espandono senza peso con il fare trasognato di uno Steve Roach, sino a “Till The Break Of Day”, che come un ultimo sguardo rivolto verso le sponde di casa sprofonda nella pace di droni carichi di rimpianto e amarezza. Ma tutti i brani si fondano su spire di suoni dal fortissimo potere evocativo, che esaltano come non mai il talento di Hummel come fine scultore di suoni. Per questo non convince del tutto la sua scelta di affidarsi ancora nella maggior parte dei brani a ritmi che spesso rompono l’incanto invece di rafforzarlo. Ma l’artista canadese, come se lui stesso se ne rendesse conto, si supera nella seconda parte del lavoro, inoltrandosi senza remore in sterminate dilatazioni ambientali. Tre brani per quasi un’ora di durata, nuvole in viaggio verso l’orizzonte. Con serafica calma e profondissima bellezza, sulle tracce dei maestri, Guthrie, Roach, Budd.

Hummel si spinge così oltre i limiti delle sue precedenti esperienze, limiti dovuti al poco coraggio, a una sostanziale precisione di scrittura delle strutture e a dinamiche positive ma troppo ossequiose e prevedibili. Con rinnovato vigore in sede di composizione, Hummel è riuscito stavolta a mettere nero su bianco il suo lavoro più incisivo, in attesa di quel capolavoro che si sente essere alla sua portata.

(7)

recensione di Alessandro Biancalana e Mauro Roma

Nessun commento:

Posta un commento