domenica 16 settembre 2007

Dot Allison: "Exaltation Of Larks" (Cooking Vinyl, 2007)



L’avvicinarsi dell’uscita di questo album, con lo scorrere degli ultimi mesi, poteva paragonarsi al progressivo sorgere di un sole, il sole delle passioni e degli amori. Dopo cinque anni (“We Are Science” risale al 2002) di purgatorio sofferto a suon di concerti (e collaborazioni), Dorothy Allison prende del tempo per sé stessa e torna a proporci la sua musica. Una musica che, in perenne stato di estasi, raggiunge una forma immaginifica, racchiusa nel suo bozzolo emozionale, repressa ed implosa. Una storia esile ma con diverse chiavi di lettura musicale, un andare svagato che sembra rimandare all’infinito il tema principale, un’intensa nostalgia del passato, il ricordo ricorrente di suoni e colori. Sogni di giovinezza ed illusioni perdute, racconti sfuggenti, come un’ombra che si materializza di colpo sul suolo.

Come risultato del mutuo rispetto e amore per la musica, Dot ha registrato una manciata canzoni intense, di stampo autobiografico, dall’anima contorta e ossessionata. Aiutata dal supporto del leggendario produttore Kramer (Low, Galaxie 500), innamorata dei toni scarni del tardo Gene Clark, grande ispirazione per le sue ultime magie. Il grado di profondità con cui ha scavato il suo animo le ha permesso di realizzare un lavoro fuori dal comune. Canzoni fortemente improntate alla melodia, guidate dalla sapiente mano di un professionista. L’obbiettivo preposto dai due, cioè riuscire a fondere le loro rispettive qualità, riuscendo a raggiungere un unione di menti praticamente simbiotica, risulta pienamente centrato.

La struttura che sostiene tali stille di malinconia, risulta a conti fatti molto essenziale. Spesso e volentieri ci troviamo ad ascoltare solamente la voce di Dorothy e la sua chitarra, coadiuvata da alcuni strumenti di contorno. Piano, chitarra acustica ed elettrica, mandolino, banjo, qualche nota di piano ed il violino. Poc’altro, ad esclusione di qualche percussione sporadica. Questa scelta è stata dettata dal lavoro di introspezione personale, che l’ha portata quasi autonomamente a cesellare canzoni dall’impronta prettamente cantautoriale, che non prendono un via ben precisa, visto che le direzioni intraprese sono molteplici. Se a prima vista sembra d’ammirare un puro album di folk-pop, ci accorgeremo che un malcelata anima soul emerge con forza, per poi schiantarsi con screziature country di pregevole fattura. Dieci canzoni che scivolano sullo scorrere del tempo con delicatezza, un po’ come fa il vento quando smuove le onde e le fa sbattere contro la sabbia, in riva al mare.

Un manciata di canzoni che iniziano con “Allelujah”. La magia sprigionata è subito intensa. Flussi d’aria scalpitante e voci di bambini sono il preludio a una litania prolungata e estenuante. Già da questa traccia tornano alla mente le atmosfere di “Afterglow”, una sorta di misticità ricopre le note, la voce è avvolta da un manto seducente. Piccole gocce di piano, una chitarra desolata, sporadici lamenti in lontananza. Sembra di sentire un misto fra “Message Personel” e “Tomorrow Never Comes”. La deriva angelica finale è puro piacere.

Con grande afflato e pathos inizia “Thief Of Me”, una stupenda canzone comandata dal violino in odore di ispirazione miracolosa. Il ritmo si fa meno risucchiato ma svolto, srotolato, sviluppato. Forti dosi di melodia, con l’aggiunta di un banjo in grande evidenza. Scaglie del passato che tornano prepotenti, quindi. Fantasmi rinchiusi nelle parti più recondite della memoria che riprendono corpo. Quasi al limite della psichedelica onirica, gli ultimi attimi, possiedono una fascino sinistro.

Puro folk vocale (Joni Mitchell è elencata fra le sue influenze) in “Sunset”. Le sue parole, semplici accordi di chitarra, attimi di estasi, folate di organo. Minuscoli trattamenti elettronici si fanno notare ad un ascolto approfondito: impercettibili loop sulle note, schizzi digitali in sottofondo che paiono uno stormo di volatili cantanti. La successiva “In Deep Water” si fa notare sia per la sua ricchezza strumentale (banjo, mandolino, chitarra, percussioni di vario tipo), sia per le evoluzioni vocali di Dorothy. Il primo dato mette in evidenza un’attenzione quasi maniacale all’arrangiamento mai sopra le righe, nonostante la ricchezza non c’è mai un alito di sovrabbondanza. Nel secondo caso, siamo davanti ad una delle interpretazioni più toccanti della sua carriera. Non un canto usuale, ma cambi continui di tonalità, impostazione e distensione. Quando questi due elementi raggiungono una coesione perfetta ed è un puro incanto a rapirci.

Lacrime di mestizia si fanno largo nella toccante “You Dropped Your Soul”, bella da ferire nei più intimi interstizi della nostra anima; emozioni sconosciute provengono dalla inquieta “M’Aidez Call”, altra gemma cantautoriale.

“Tall Flowers” raccoglie a piene mani da “Afterglow”, ribadendo la sua grande passione per la cantante oscura per eccellenza: Nico. Toni da colonna sonora horror in sottofondo, scarni accordi di chitarra, voce riverberata (effetto utilizzato da sempre), qualche spuntata nota di piano. Rare schiarite, una liberazione dalle nuvole opprimenti, si concretizzano con l’esasperazione del ritmo, che rende l’andamento una sorta di marcetta sotterranea.

Giunge a questo punto, a parere di chi scrive, la canzone più bella dell’album. Già presente nell’EP dell’anno scorso intitolato “Beneath The Ivy”, “Quicksand” ha nelle sue interiora delle alchimie che sanno di miracolo. Sabbie mobili che inghiottono con lentezza estenuante la vita, i ricordi, gli amori, i preziosi scampoli con cui animare gli attimi più insignificanti della nostra esistenza. Cori in sottofondo, voci dall’aldilà, un andamento strascicato. Intorno al minuto 2:30 si inserisce una batteria che mette in piedi un minimo di ritmo pur sempre disciolto; la voce di Dorothy in questo frangente sfoga senza limiti la sua bellezza, con punte di grazia cristallina da lasciar senza fiato. :”Look At This, Now”, ripete. Noi, rimaniamo qui ad ascoltare, ed ammirare, senza avere la forza di reagire.

“Shivering”, introducendo la parte finale del disco, attinge un po’ da ogni episodio precedente, riuscendo a mettere a segno un altro centro. I filamenti quasi rumorosi di violino si rivelano molto funzionali, le percussioni non meglio identificate hanno un sapore tribale. La voce finale, filtrata con un effetto radiofonico, dona prestigio e incanto.

L’ultima “The Latitude And Longitude Of Mistery” (titolo stupendo) è un commiato felice, spoglio da temi e suoni tristi. I continui cambi di ritmo, la grande varietà strumentale, il rullante mai domo sono soltanto alcune delle particolarità che permettono di dire la parola fine senza il cuore in gola. Da ricordare e custodire il finale strumentale, progressivamente più silenzioso, con i secondi che scorrono, si spegne come una fiamma consuma una candela.

Se il tempo - cinque anni per l’esattezza - permette di incamerare idee, pensieri e sensazioni; elaborarle e metterle nero su bianco, il caso di “Exaltation Of Larks” è un esempio scintillante di questa teoria. Cinque anni confusi, passati in vari lidi, consumati con fatica ed impegno. Ciò che ne risulta è pugno di canzoni che strappano applausi, schiantano il cuore, donano silenziosi brividi per tutto il corpo.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

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