venerdì 2 giugno 2006

Josephine Foster: "A Wolf In A Sheep's Clothing" (Locust, 2006)













Appena un anno fa eravamo rimasti incantati da quel quadro composto da colori variegati di “Hazel Eyes, I Will Lead You”, adesso spunta, riesumato da un passato lontanissimo, l’opera più coraggiosa e compiuta di Josephine Foster.

Interamente incentrato sulla reinterpretazione di opere letterarie e musicali d’epoca romantica (da Schubert a Eichendorff, Wolf, Brahms, Goethe), l’album rappresenta un ulteriore evoluzione della musica proposta da questa ragazza amante dei suoni antichi, arcani, mai dimenticati, un mondo scomparso e accantonato da una contemporaneità che tira un calcio al passato senza carpirne il vero significato, non solo musicale.

L’atmosfera sonora che si crea all’interno di questo disco è quella di un regno medievale infestato da demoni cantanti nenie acide e maledette, vagamente sognanti ma ammorbate puntualmente da lancinanti rumori provenienti da strumenti sconosciuti.

L’elemento estraneo che rende questo microcosmo musicale così straniante è la chitarra elettrica, quasi sempre in (piacevole) contrasto con gli accordi incantati di Josephine. Il musicista in questione è Brian Goodman, già presente nel bellissimo “All the Leaves Are Gone “, a nome “Josephine Foster & the Supposed”.

Il susseguirsi delle tracce pare un viaggio nomade fra terre desolate e isolate dalla felicità, pare di vedere una malinconia veleggiare cieli nuvolosi, un piccolo tuono in sottofondo disturba leggermente, sapori mistici inebriano i sensi, il fiorire di rumori allietano l’udito.

L’iniziale “An Die Musik” parte calma e posata, con la voce che sa districarsi fra un frangente oscuro e sussurrato e scampoli di bellezza cristallina, quasi fosse un angelo terreno a cantare la canzone della sua vita. Gli accordi della classica scorrono come un ruscello nel suo corso naturale, improvvisamente deviato da intromissioni estranee. La chitarra elettrica di Goodman non si attenua un attimo, lacerando in continuazione il libero corso melodico di Josephine. I due opposti si scontrano e il vincitore sarà chi riuscirà a trovare la bellezza che sta in questo scrigno finemente decorato.

Si procede con la solenne “Der König in Thule”, un vero e proprio testamento ignoto e imperscrutabile, una novella riferita con parole monche e sfigurate. Le note si smarriscono fra sentieri sperduti e direzioni inimmaginabili, sussurri di un’epoca remota, sensazioni discordanti ma concilianti. Il finale a capella è un brivido di paura misteriosa che percorre ogni singola particella della nostra mente. Il rimbombo di una stanza immensa, completamente vuota, saturata dalle parole di un messaggero maestoso.

“Verschwiegene Liebe“ scorre come una fiaba maledetta, contrappuntata da sussurri aspri e scontrosi, soffi d’aria velenosa, parole dolorose e perdute. Una voce racconta storie sconosciute e incomprensibili, timbri gelidi e taglienti sono un accompagnamento perfetto, attimi di (e)stasi sonora dipingono ritratti irriconoscibili.

Una giornata di pioggia nel sottofondo della successiva “Die Schwestern”, piccoli bisbigli di una sedia malandata effigiano una stanza piccola e intima, un camino con il fuoco crepitante e la musica nell’aria. Ancora un dualismo leale fra l’elettrica e la classica, con un effetto risultante di bellezza indecisa e misteriosa, il tutto termina fra un tuono che ammazza il silenzio e un cigolio che non si zittisce nemmeno alla fine. L’anelito vocale si tramuta sovente in vocalizzi che paiono stille di acqua limpida sgorgante in un rigolo purissimo.

“Wehmut” è arricchita con l’aggiunta di un piano mesto e nostalgico, il cui apporto è spesso decisivo per cesellare un qualcosa di inusuale e magico, spensierato e sospeso in aria. Gocce di suono cadono con dolcezza inaspettata, un mood leggermente più vivace e colorato si insinua progessivamente nelle trame della canzone, donando piacere e felicità. La fisarmonica sul finale è una farfalla che vola felice su un fiore, rivolgendo le ali verso il sole.

Giunge in questo istante la traccia più rappresentativa e coraggiosa del disco, forse la maggior indicazione che ci viene data per immaginare come potrebbe essere il suono futuro dei dischi di Josephine. “Auf Einer Burg” è lunga quasi 12 minuti ed è un improvvisazione psichedelica e cattiva, demoniaca e luciferina. Spore velenose si proliferano in moltitudine e non lasciano scampo, un trio di chitarre sferzanti spaccano in due i sensi disorientando ad ogni attimo, attimi di pace si alternano a coltellate quasi noise, il frastuono chitarristico complessivo concorre nel creare suoni che paiono un’ossessione infernale. Su tutto, il pianto, il richiamo, il gemito vocale lamenta dolore e sofferenza con distacco. Uno sfrigolio elettronico, sul finale, da il colpo di grazia alla nostra mente.

Per farci recuperare fiato e ossigeno, viene collocata come finale l’allegra “Näne Des Geliebten”, una favola immediata e saltellante, fra cori spensierati ed accordi eseguiti con ritmo altalenante.

Forse il disco più bello mai pubblicato da Josephine, forse il più coraggioso e sfrontato, quasi presuntuoso nel suo incedere sommesso ed appartato. La nuova tappa di un cammino artistico di qualità inconfondibili e prospettive future infinite. Sibili arcani e animi erranti, gole profonde e tramonti variopinti, storie dimenticate e cammini interminabili.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana

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