martedì 9 settembre 2008

Shed: "Shedding The Past" (Ostgut Tonträger, 2008)



Nel mondo della musica, quotati esperti sostengono che ogni piccola nicchia di suono abbia sempre un punto di (ri)generazione, e che quel punto sia proprio lo stesso da cui è germogliata. Nel caso del genere di cui tratteremo, si parla della Germania, patria e punto focale di lucenti sviluppi, massacranti delusioni, scintillanti sorprese della musica techno. Nonostante la scena abbia dato i suoi frutti, negli ultimi anni è la mediocrità a far da padrona in questo mare scuro come la pece. Mediocrità non dal punto di vista qualitativo, bensì riguardante il preoccupante livellamento delle scelte compositive da parte di artisti nuovi e vecchi, senza nessuna differenza d’età o prestigio. Questo fenomeno ha ben poco giovato al settore che, vedendosi sottrarre mercato da altre frange dell’elettronica (hardcore da una parte, house dall’altra), s’è ingegnato per riprendere in mano il controllo della situazione.

Un ragazzone come Shed, colmo di idee quanto di sferraglianti intuizioni, non può che dare una scarica di adrenalina a un corpo che necessitava di ventate rivitalizzanti. La portata di questa novità, rappresentata da lui e pochi altri, si concretizza tutta nello svincolamento da stilemi prestabiliti. Tagliate fuori schematizzazioni minimal, escluse rigidità ritmiche ormai superate, si dà libera uscita ad una fantasia in odor di genialità. Elementi techno vengono abbracciati da plastici retaggi electro che, corroborati da sostrati dub, miscelano un risultato finale dal sapore acuminato, sprezzante e acidulo.

Skull Disco ha tirato le fila di un dubstep ormai alla frutta proprio perché diventato clone di sé, inserendo nuovi elementi a un discorso quasi sopito. Shed risponde prendendo il furore percussivo di Shack e Appleblim, andando a sondare la vitale deepness lungo un viaggio diretto agli inferi del suono, un magma denso e caldo, lontano mille miglia dalla freddezza di una techno diventata sfoggio di austerità, travisando tutto quello che i Basic Channel avevano scritto in soli nove passi. I bassi ragga che esplodono senza timore, scortati da una guardia di pad e synth cosmici che richiamano Carl Craig, Mad Mike e Rolando: melodie tristi, ma melodie. Shed ha lasciato lontani i sequencer lanciati in autopilota e si è seduto a suonare per dare vita alla sua musica.

“Flat Axe” è l'unico episodio che sentirete dal vostro dj di fiducia, ma “That Beats Everything” con quella cassa dritta intinta nel riverbero, come solo una macina del Mulino Bianco saprebbe assorbire, è il rullo compressore che Joey Beltram ha voluto ungere del suo verbo. Non c'è scampo, sappiatelo, perché chi avrà il coraggio di farla girare sul deck dovrà tenere al guinzaglio un bulldog inferocito. Ma sono solo due episodi, perché il resto non è la stessa partita, non è nemmeno lo stesso campo da gioco.

“Ostrich-Mountain-Square” squarcia filamenti ambientali e li giustappone ad un magma rumoroso che si protrae con guisa efferata, i tre minuti scorrono fra sibili sinistri e pulsioni da oltretomba, facendo da anticamera alla paradisiaca “Boose-Sweep”. Quest’ultima traccia si compone e si scompone a livello molecolare con omogeneità spaventosa: se il pattern ritmico evolve trasmutando da lieve a sostenuto, mantenendo impatto e ricerca, il gorgoglio analogico che lo circonda tinteggia atmosfere aliene da viaggio interstellare. Fa addirittura meglio la seguente “Another Wedged Chicken”, ancor più audace e sinistra, sbattendo in primo piano un sostanzioso beat metallico, coadiuvato da un mormorio granuloso e incontrollato; arrivata al minuto numero uno, si instaura una ramificazione timbrica dal sapore marziano.

Le sorprese continuano a fluire in maniera spontanea: i sample di piano smembrati ed accoppiati a reticoli glitch di “Slow Motion Replay” mostrano versatilità e gusto, la leggera sterzata ambient-techno di “The Lower Upside Down” è puro respiro rilassante, la distensione spaziale lievemente sferzata è caratteristica principe di “Waved Mind\Archived Document”.

E se, come spesso succede, i capolavori terminano con una traccia memorabile, “Shedding The Past” ha le carte in regola per rispettare questa prassi. “IHTAW” è una marcia danzante farcita da voci che ondeggiano ubriache, stomp laceranti come lame affilate donano ritmo terreno, l’intelaiatura plasma se stessa come un organismo autonomo ed autonomamente consapevole. Applausi a scena aperta.

Un esempio per tutti, per dare definitivamente la misura di questo disco che salva infine la techno da se stessa (mandiamo un grosso bacio anche ai ragazzi della Border Community). Ci salva da Ellen Allien, dalla M_nus e dalla Cocoon: statue su cui ormai cacano i piccioni. “Estrangé”. Scaricatela, compratela, rubatela perchè è la techno ai tempi del dub, dell'analogico riscoperto con la Deepchord e di un Aphex Twin che riecheggia nei suoi fasti più lontani. Che bisogno c'è di non voler più trasmettere nessuna emozione? Nel voler monetizzare direttamente tutto in funzione di una pista da ballo? Che gusto c'è nell'ascoltarsi l'ennesimo remix uguale ai sei o sette precedenti di "Dubfire"? Ve lo diciamo noi da qui, pronti a farvi fare due grasse risate: zero. Ecco il gusto che c'è.

“Estrangé” invece è il rinnovato ardore di una musica rivoluzionaria, che riscopre il proprio gusto antico nel farsi contaminare da tutto ciò che vive attorno a lei: senza paura. Dal futuredub di Londra, dalla malinconia di James Holden e Fairmont da tutto ciò che Detroit ha rappresentato per generazioni di musicisti. Shed è uno che si dedica sviscerando l’anima, svolgendo le sue trovate con naturalezza e dedizione, anche quando tutto il resto vuole convincerci che girare la manopola su minimal sia la soluzione per comprarsi un Korg nuovo. Niente da fare per gli altri lì fuori, ”Shedding The Past” ha riscoperto l'utopia.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Guidetti

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