mercoledì 24 settembre 2008

Antenne


La musica nata da freddi fiordi settentrionali, sovente evoca atmosfere vagamente misteriose, sul crinale e divisa fra sensazioni glaciali ed emozioni appaganti. Gli Antenne, provenienti dalla meravigliosa Danimarca, ricalcano in maniera più o meno fedele il lemma sopra enunciato. I componenti di questo duo danese sono Kim G. Hansen e Marie-Louise Munch. Il primo, già 42enne, ha militato nel duo industrial Institute For The Criminally Insane riuscendo a pubblicare nel 1994 un album intitolato “Gekippt”, discreto compendio fra EBM scabrosa ed elettronica inferocita. Marie-Louise ha coltivato, sia prima che dopo la conoscenza con Kim, l’esperienza negli Amstrong. In questo caso ci si aggira nei dintorni di un risultato tutto sommato ragguardevole e deliziosamente di nicchia, molto simile agli Antenne, fra trip-hop e cesellature oscure. Gli album sono ben tre (“Sprinkler” (’99), “Hot Water Music” (’01), “Lack Of You” (‘05)) e c’è di che gioire per gli amanti degli intarsi acidi dei Primal Scream di Exterminator. L'incontro con Marie, avvenuto intorno al 1999, unito con la scoperta del computer come “strumento” di composizione, hanno stravolto il modo di concepire la musica per Kim. Una voce femminile così fatata non poteva che meritare un contorno musicale delicato, oscuro, crepuscolare, tutto ciò che non si presagiva dato il background dai lineamenti estremi maturati dalla controparte maschile del duo. Fedeli alla loro passione per un suono grumoso e spesso cadenzato da docili tocchi ritmici, la musica degli Antenne sfugge da ogni definizione mirata e circostanziata. Nel corso delle loro tre tappe coincidenti con le loro tre opere, la formula utilizzata è spesso variata grazie alla rara poliedricità compositiva di Kim, autore di musiche, arrangiamenti e mixing. Imperniati nei dintorni di un trip-hop dalle tinte fosche e straziate, il fattor comune da individuare è l’attitudine all’atmosfera oscura, mai troppo sostenuta, sempre intinta in un’oasi colma di ottenebrante terrore sopito, capace di evocare distese medioevali in cui nebbia, umidità e un timido vento la fanno da padrone. Dal punto di vista tecnico, oltre al già citato trip-hop, si ritrovano timidi rimandi all’era d’oro del dream-pop, retaggi d’una electro ormai sopita (i primi glitch applicati al pop apparirono intorno alla fine dei ’90) ed una leggera brezza new-wave proveniente dalle precedenti esperienze di Kim. L’altro elemento che marchia a fuoco la musica del duo danese è la voce di Marie, paragonabile ad un miracolo divino. Le melodie fin qui accompagnate dal canto, anche dal solo vocalizzo sussurrato a mo’ di anelito, trasformano banale silenzio in frangenti strazianti, sobbarcandosi l’impeto di una decorazione che si eleva ad elemento essenziale.

La loro carriera prende il via con #1 che, anticipando la notizia più succosa di tutta la monografia, risulterà l’opera più riuscita, come un vero e proprio capolavoro di rara intensità. Nove tracce colorate da un grigiore autunnale, disturbate solo minimamente da una componente elettronica offuscata, dove gli strumenti classici si intrecciano per creare un’atmosfera complessiva fuori dal comune. I primi suoni di “Here To Go”, la traccia iniziale, sono l’ingresso ad un mondo a se stante. Parte sommessa, con un rullante attorniato da stelle digitali, dove, dopo pochi secondi, appare, come il sole all’alba, la voce di Marie. Molto simile a una certa Beth Gibbons, forse ancora più caratteristica, le parole incantano, si perdono nel vuoto, mentre le particelle elettroniche sprizzano colori.  Suonano, le parole, insieme agli altri apparati sonori, in un canto dolce, triste e leggero, come sfoglie di legno sotto una luce grigiastra. Il tutto, svanisce, si disgrega, fino al finale, e nemmeno ci siamo accorti che sono già passati sette minuti. “Like Rain” azzarda l’episodio trip-hop in cui la componente ritmica prende il sopravvento, incastrando un groove minimale insieme al cantato quasi sussurrato. I lamenti del sintetizzatore, accoppiati al beat, si arricchiscono, in un secondo momento, con un drone pieno di angolature, una chitarra appena udibile, gracili clangori acustici. In sottofondo, quasi come se fosse un gemito nascosto, la voce viene costretta a ripetersi, in un ciclico loop ipnotizzante. Il passaggio si chiude con un rumore bianco minimale per fare da introduzione al pezzo successivo: “Let Me Ride It”. Episodio completamente strumentale, basato su uno sfrigolio digitale, un tappeto di tastiere ambientali, vari campionamenti sonori, e un tono pacato fino alla metà, quando, all'improvviso, compare un rimbombo percussionistico, poi amplificato progressivamente, accompagnato dal finale magico e fatato, incentrato su un timbro ovattato. Giunge infine “Whispering”, già epitaffio programmato e scintilla lucente. Sciocchi glitch sotto un contorno di sporcizia sonora, una chitarra suonata con il cuore in gola, ancora una volta, la voce di Marie in primissimo piano. Si parla di sussurri, speranze, paure: “There’s no worries, I am just waiting. There’s no hopes, I am just floating..”. Una tromba, nei frangenti in cui non c’è il cantato, borbotta scomposta, insieme alla chitarra che scappa via, veloce e imprendibile. Altro strumentale dal fascino notturno in “PPG Hold PRG.1”, basato su un ritmo a bassa battuta, gocce di suono centellinate con precisione, quasi a scovare un punto di collisione fra le musiche dark-ambient e il trip-hop strumentale.

Si insinua una melodia indecisa nella traccia successiva, “Moving Slow”, facente da anticamera alla solita favola trasognata espressa anche con parole come queste :”Moving slow, across the sky.. Big black pink sky.. Hold on.. to laughing.. Falling away.. in the deep red blue sky”. Sei minuti di completa immersione in un cosmo sospeso e immaginifico. L’asso nella manica, però, deve ancora venire. Come penultima traccia, c’è “Something Not To Do”. La sovrapposizione iniziale fra un sintetizzatore moog d’altri tempi ed un un loop digitale, è già un colpo al cuore. Quando, dopo pochi secondi, il canto inizia a fluire, il tempo si ferma:"Cool braines, is falling down.. Down and down, through the night..Blank night, last forever.. down and down in my eyes.. Something Not To Do but only knows, Something Not To Do but only knows”. La musica, a questo punto, è soltanto un contorno di ottima qualità, compagno di pari importanza per la voce, un abbellimento, come un vestito splendido fra le carni di una principessa incantata. La conclusiva “Memo”, ennesimo strumentale dal fare tenue, chiude il disco senza rancori, con alcuni frangenti molto evocativi, melodie circolari, bollicine elettroniche galleggianti. Subito dopo l’uscita del disco, viene pubblicato il maxi singolo di “Here To Go”, con remix molto interessanti da parte di Full Swing, Zammuto, Accelera Deck e Metamatics. Al suo interno si trova anche un inedito intitolato “Going Nowhere”, astratto ed opera di sottrazione minimalista.


A due anni di distanza dall'immensa opera prima, il duo danese sforna un disco che si pone sulla scia di #1, ampliando i territori esplorati e con una vena particolarissima. Nelle sue sette tracce, #2, ripercorre percorsi già battuti nell'esordio, colorando però il tragitto di tinte nuove. Se la neve, le gelate brezze di gennaio, i cristalli di ghiaccio che paiono pendere dagli aghi dei pini, erano musicalmente quanto di più vicino ci fosse nell'immersione di #1, ecco che con il disco targato 2002 si esplorano tinte autunnali, fatte di note soffuse, chiarori accennati, tratti caldi e un avanzare lento che copre il suono in tutto il suo svolgersi. Proponendo una amalgama tanto originale quanto emozionante, il duo sforna un disco coinvolgente che mischia attitudine trip-hop e le note del miglior slow-core. Non a caso la prima traccia è un remake di 'Black Eye Dog', inedito contenuto nella compilation 'Time To Reply', a nome Nick Drake. Fondendo glitch, respiro affannoso e note di pianoforte, l'impatto iniziale è assolutamente devastante: il canto sinuoso si innesta in un'atmosfera senza tempo, si scorgono visioni mistiche fuori dal mondo, una tastiera dipinge la circolarità del suono che avvolge e scompare. Nei quasi nove minuti di 'Not Sad' l'arpeggio di chitarra, accompagnato da un leggerissimo ed impercettibile rullante, si reitera in maniera quasi ossessiva accompagnato da accenni jazz, come nei migliori Bark Psychosis, in un moto perpetuo che si va via via dissolvendo in un mare magnum di densi sfilacciamenti elettrici che accompagnano la voce di Marie-Louise. 'Annex Aug', che pare un vero e proprio divertissement, è forse la nota stonata dell'album: una coltre elettronica, dai tratti vagamente industrial, che si perde in sé stessa.

A chi pensava che 'Annex Aug' potesse essere l'inizio della fine ecco che giunge alle orecchie 'Across The Way': un glitch granulare in sottofondo disturba in maniera lieve una melodia che si svolge tra una chitarra che insiste sempre sulle stesse note, soavi campionamenti d'archi e una voce da lacrime. E, all'ascolto di 'Dead Dreams', tutto si potrà dire tranne che siano sogni morti quelli teorizzati dal duo. Il moto uniforme, lucido eppure sporcato nella sua limpida essenza da tratti shoegaze, deflagra nella più dolce delle collisioni. La spettrale 'Cleary Wrong', sospesa tra riverberi elettronici e immersionii ambient, apre le porte alla conclusiva 'Sunwalk', sicuramente uno degli episodi più particolari e sperimentali del duo. Fondendo lievi tepori psichedelici e marcate linee di basso, con in sottofondo tenui accenni di tastiere old-school, gli Antenne costruiscono un brano dai contorni dilatati che non sfigurerebbe affatto nei primissimi Air. Innovando e rinnovando il duo danese, nel suo microcosmo sonoro, si destreggia con innata abilità sapendo emozionare e risultando a tratti realmente maestoso. Inferiore al precedente con un solo difetto: quello di arrivare dopo un capolavoro.

Dopo un biennio di discreta prolificità discografica (‘00/’02), la band osserva un periodo di riposo molto lungo, infatti, l’opera successiva sarà proprio “#3”, uscito a metà maggio del 2008. In questi sei anni di inattività della band madre, i due componenti rimangono comunque più o meno attivi con interventi o collaborazioni all'interno di opere altrui.

Nel 2002 la band collabora con un’artista danese (Lise Westzynthius) suonando un paio di strumenti (chitarra e synth) e curando il mixaggio e la produzione in un pezzo: “French Leave”. Sia la canzone in oggetto che l’album (“Heavy Dream”) esplorano territori leggermente più ruvidi con risultati alterni ma molto interessanti.

Fino al 2005 l’attività risulta sopita, finché spunta una stuzzicante partecipazione di Marie-Louise all’unica opera solista di Norken: “Our Memories Of Winter”. La voce donata ad un tappeto sonoro così estraneo alle esperienze precedenti dell’artista, sorprendono e valorizzano le qualità della ragazza come performer. I tratti al limite di certe electronic-song molto ben abituate ad atmosfere da club notturno, rivelano particolarità molto interessanti del timbro vocale, svelando una insospettabile voglia di percorrere altre strade.

Viene pubblicato all’inizio dell’anno un split su un 12” fra la sigla Antenne e la band Cryptic Scenery, in cui si presenta uno dei pezzi di #3 (“Long To Kiss”), a dimostrare come la maggior parte delle canzoni presenti nell’album siano state completate molto prima della data di pubblicazione.

Sempre nello stesso anno indichiamo la presenza di una versione acustica di “Black Eyed Dog” all’interno dell’album “The Bodyshop” dei Beequeen. La struttura spogliata dagli arrangiamenti elettronici donano all’interpretazione di Marie una magia incontrollabile.

Nel 2006 è da segnalare una stretta collaborazione con un altro ensemble danese dal nome Pellarin & Lenler. Nel loro “Going Through Phases” sia Maria che Kim scrivono insieme al duo “Taiko”, uno splendido affresco electro-pop da brividi. Nel complesso, tutto l’album si attesta su una qualità complessiva invidiabile, attraversando pulsioni dub, intromissioni dal calore ritmico soul e un pizzico di sfrontatezza in termini di commistione stilistica.

Nel 2007, viene ancora ripescata la cover di Nick Drake “Black Eyed Dog” all’interno dell’album “Lost Days, Open Skies And Streaming Trees” di Manual, in cui l’artista danese esegue un remix meditativo proponendo una versione placida e docilmente flemmatica.

Nel corso di questi 6 anni ed anche prima, risulta fondamentale indicare le inclusioni in numerose compilation di alcuni brani degli Antenne. Fra raccolte che racchiudono artisti danesi ed altre a tema stilistico, le più significative sono tre. Le prime due sono la colonna sonora di un film danese intitolato “Nordkraft” (2005) in cui è presente la magica “Whispering” e la raccolta “Full Swing Edit” (2001) assemblata da Stephan Mathieu, dove troviamo un inedito già citato nel singolo di “Here To Go”, “Going Nowhere”. L’ultima occasione da citare merita una menzione speciale perché proposta da un’etichetta molto interessante, la Suspicious Records. La compilation si chiama “Broken Nightlights” (2006) e racchiude una serie di artisti elettronici europei dalle capacità inestimabili ma poco conosciuti, fra cui citiamo Sunday Munich, Leaf, Saltillo e Clover. L’operazione di sdoganamento effettuata dalla compagine discografica (e dalla sua etichetta-madre, la Hive Records) è un vero e proprio miracolo musicale per chi ha voglia di scoprire nuove realtà altrimenti relegate nell’oscurità. L’inedito qui proposto si intitola “Redmoon” ed espone un lato incorporeo e molto fine, relegando la ugola di Marie a mero contorno per i suoni sibilanti e scomposti.

Superati i gravi problemi dovuti alla ricerca di una etichetta disposta a pubblicare “#3”, la band sul finire del 2007 riesce a trovare ricovero nella piccola ma interessante Helmet Room Recordings. Pochi adepti erano in trepidazione per l’uscita di quest’ultima fatica del duo, d’altronde, la scarsa visibilità data alle loro gesta non ha certo giovato nemmeno alla distribuzione delle opere, spesso deficitaria ed assassina. Ciò che stupisce maggiormente delle composizioni degli Antenne, nel corso dei tre album, è indubbiamente la capacità di reinventarsi sempre da capo. Discostandosi dalle ombre slow-core del secondo disco e riavvicinandosi al trip-hop propriamente detto, #3 colpisce, ebbene sì ancora una volta, dritto dritto al cuore. L'incedere dismesso, le foglie cadenti, l'incalzare di qualche morbido beat colorano a tinte fosche il terzo disco del duo. L'avvio è spiazzante: gli oltre sei minuti di 'Long To Kiss' si colorano di riflessi medievali, fondendo anima dark e venature (neo)classiche. E se all'ascolto della traccia d'apertura un sentimento di mestizia avvolge il cuore, il dolce tepore di 'Gloves On', accompagnata da un video strappalacrime, riporta al cuore il sangue raggelato. Nel dipingere distese vuote, spoglie d'alberi e d'anime, vive il lento scorrere delle note, accompagnate da uno splendido giro di chitarra.

I chiarori analogici che fanno da apripista e da contorno lungo tutto il suo incedere a 'Days Into Nights' paiono raggi stellati che illuminano a giorno una notte metropolitana, luci al neon in lontananza e il freddo che si insinua tra gli abiti. E se la successiva 'Trreaa#7' riporta alla memoria i frammenti meno cupi e desertici dei Pan Sonic, accenni dub come nei migliori Thievery Corporation si insinuano in 'Blue Light'. 'Ernst', nel suo avanzare tra campionamenti e pianoforte sporcato da una leggerissima coltre nebbiosa, potrebbe essere uscito benissimo dal repertorio dei Giardini di Mirò più sperimentali. Negli archi della penultima traccia, intitolata 'End', in un moto circolare, gli Antenne riprendono l'austerità classica del primo brano, svolgendola divinamente assieme ad una chitarra che regge la melodia  verso una deliziosa deriva folk. Ancora una volta, come in #2,  la traccia finale, 'All Of Us', ricalca le note di un'elettronica che gioca a contaminarsi con una vena psichedelica decisamente sixties, in pieno stile Air.
Il terzo capitolo del duo danese emoziona, stupisce, commuove. Fondendo elementi distanti con una innaata naturalezza, gli Antenne fotografano tepori metropolitani in odor di una soave tenebra. Ed è dolce perdersi nel loro mare. “#3” rimane coerente alle scelte stilistiche colte in passato, sintetizzando tutto ciò che c’è ancora da dire in 8 canzoni, capaci di scorrere via come pugni di sabbia polverosa o di sedimentare negli spazi più reconditi della memoria di ogni ascoltatore anche casuale. 

di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini

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