giovedì 23 marzo 2006


Juan Atkins: "The Berlin Sessions" (Tresor, 2005)


Uno dei massimi padrini della techno marchiata Detroit ritorna alla ribalta con sei tracce intitolate nella maniera più appropriata, semplicemente: "The Berlin Sessions". Deragliante semplicità. Strabordante perfezione.
Torna l'uomo che ha ribaltato con scossoni tellurici tutta la storia dell'elettronica: dal progetto Model 500 alla storica etichetta Metroplex. Impartendo lezioni a destra e a manca, dando le basi per lo sviluppo della musica-tutta.
Pensare a un disco di Lui ieri e veder una nuova uscita oggi rende il tutto leggermente straniante. La techno, a corto di soluzioni innovative, stagnante, addizionata solo di bpm, estremizzata in questi anni, al suo cospetto si blocca. Il suo tocco immobilizza mente e corpo. Non accenna a cambiare al cospetto del tempo, un tempo che sembra non passare. O semplicemente ancora lontano, ancora una volta. Non rimane nient'altro che ascoltare in silenzio. Catarsi interplanetaria.
Il disco è prodotto insieme a una nuova promessa della techno berlinese, Pacou, e non poteva che essere pubblicato dalla storica Tresor.
I suoi groove cosmici sanno di spazio. Profumano di leggenda. Ed è leggenda, sono mani che assemblano una dimensione parallela. Trasportano l'inconscio in una realtà fatta di ballo, sangue, buio ed esplosioni luminescenti. L'anima del dancefloor riluce nuovamente sotto il colpo della cassa. Luccicanti aneliti stellari, sofferenti interiora funk, perfidi stomp ossessionanti. È l'antico splendore che sembrava perso, un genere chiuso tra introspezioni minimali molto spesso autoreferenziali e macrobeat serrati, costruiti per l'amalgama chimica di un rave. Bleep sovente si intromettono con coraggio apprezzabile e paiono pianeti lontani rispondere al richiamo del suono. Atkins ci introduce ancora nel suo mondo di visioni techniche, è incredibile pensare alla longevità creativa di questo uomo. È un piacere straordinario sentire ancora quei suoni, prodotti ora per suonare nel 2005, ma che fanno comunque da apripista.
Musica per un club di alieni su Marte a migliaia di chilometri sottoterra. La terra trema e non può esimersi dal farlo. Ogni singolo insignificante granello batte, sbatte, ritorna, compone, distrugge.
Fondamenta techno, animo house, screziature elettro. Turbine devastante di generi e influenze. Materiale immortale e immarcescibile. Mai un club terreno potrà riprodurre un ambiente adatto per ospitare timbri, schiocchi, sciabordate di questa portata. Lo spazio verrebbe saturato e l'ossigeno disintegrato. Saturazione inevitabile, insopportabile. Solo il silenzio potrebbe ascoltare.
Suoni moderni, l'acidità che si impossessa del beat nella quinta sessione, quel suono idraulico che Atkins utilizzava quindici anni fa, e che ora l'house imbastardita ha adottato, qui torna a casa. Una progressione di suono che punta verso vette di nuova vita, l'eco analogico unito alla modernità digitale, senza mai invadersi, fondendosi anzi.
Ci si potrebbe chiedere cosa c'è di miracoloso in un album che sembra non avere nulla da aggiungere a quello che disse già in passato Mr. Mastermix, o che non dissero già Hawtin, Silent Phase e soci. La risposta è nell'ascolto. La risposta è la classe sovraumana di un uomo che dopo aver fatto storia, dopo aver fatto spazio alle nuove leve minimali quando il suo tempo sembrava essersi concluso, è tornato a dettare legge. Una legge primitiva, quella del ritmo. Quello di trovare sempre nuove soluzioni in un suono secco e preciso, senza la follia iperproduttiva di quell'Aphex Twin che continua a essere in gran forma.
Atkins è un uomo che mette il proprio suono davanti a tutto. Lo dimostra il centro del disco, la terza e quarta sessione, opposte. L'antitesi l'una dell'altra. La prima risucchiata nel vortice castigato di microvariazioni, di suoni d'ambiente e una cassa, piccola, a scandire il tempo. Uno sguardo a un tempo forse un po' grigio. La seconda, opulenta, macroscopica. La cassa piena, un piano funk e synth a colorare il suono. Raramente una canzone ha avuto così tanto corpo, si sente addosso questa profusione di solarità. È una sensazione incredibile.
La chiusura è affidata al remix e reinterpretazione della prima traccia. Pacou incattivisce il suono, lo rende tribale e trascinante, un beat lento e cupo, come una chitarra degli Jesu è un vortice malato. Una depressione cosmica che muta lentamente per poi morire lentamente. Se ha avuto l'onore di collaborare con un gigante come Atkins non è stato per caso.
Il disco si ferma. Rimane lo stupore davanti alla bellezza di questa creatura. "The Berlin Sessions" è un viaggio nella techno, di qualsiasi estrazione. Juan Atkins ha colpito ancora. La musica elettronica nel 2005 ha ritrovato il suo miglior profeta.



(8,5)


Recensione di Biancalana Alessandro e Guidetti Alberto

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