giovedì 23 marzo 2006



Boduf Songs: s/t (Kranky, 2005)

No, non è l’ennesimo affiliato al fortunato filone dei cantautori tristi e depressivi, né tanto meno il risultato di un’estetica musicale studiata o costruita a tavolino. È soltanto una delle migliori tra le recenti produzioni di minimalismo acustico, dai toni sommessi, oscuri ed avvolgenti, originati da non altro che una sensibilità artistica permeata da uno scarno songwriting e da ambientazioni sonore spoglie, ridotte all’essenzialità di una chitarra acustica appena supportata da qualche campionamento o drone in lontananza.
Boduf Songs è il moniker dietro al quale si cela Mat Sweet, cantautore di Southampton, il cui omonimo album di debutto corrisponde in realtà al demo spedito a suo tempo alla Kranky, i cui cervelli (senza dubbio in un unicum con i cuori) sono rimasti a tal punto fulminati da questi nove tenui bozzetti sonori, da decidere di pubblicarli nella loro versione originaria, senza alcuna modifica o reincisione. L’immediatezza un po’ lo-fi da “musica da cameretta” traspare tutta nella mezz’ora scarsa di durata di “Boduf Songs”, così come anche si intravede attraverso essa l’ambientazione nella quale l’album è stato creato, nell’intimo isolamento di un autore alle prese con la sua ispirazione ed i pochi mezzi tecnici a disposizione, al riparo dal fin troppo banalmente immaginabile paesaggio grigio del sud dell’Inghilterra, tra alberi spogli battuti dal vento ed una natura dai contorni aspri ma sublimi al tempo stesso. Gli stessi contorni presenta infatti la musica di Sweet, sospesa tra un approccio cantautorale degno del Kozelek più depresso ed l’attitudine concettuale ad un’asciutta psichedelia rurale che intreccia oscure componenti elettroniche all’acusticità più cristallina, conseguendo in ciò un risultato di uno spessore forse mai più raggiunto dall’epoca di “Further” dei Flying Saucer Attack.
Lo scorrere del disco è una passeggiata in una foresta maledetta, l’atmosfera si fa sempre più oscura e morbosa, immagini di dolore appaiono sovente davanti ai nostri occhi, le note di una chitarra spartana sono un puntiglioso incedere che sa di dolore e inquietitudine, un elettronica minimale ma tagliente sfigura una manciata di secondi dall’apparente dolcezza armonica.
Il viaggio di estenuante malinconia inizia con la toccante “Puke a Pitch Black Rainbow To”. Una confessione d’un male commesso e mai rivelato, le lacrime scorrono copiose, solo un timbro sommesso, una nota di piano alimenta sospetti, una voce sussurrata e malandata recita la sua poesia. Ventate di elettronica pacata sono un freddo maligno che ci taglia il viso, un dolore insistente e piacevole al contempo.
Scendiamo ancor più negli inferi con la successiva “Claimant Reclaimed”. Un accordo di chitarra frenetico e incessante viene ripetuto in maniera pedissequa, alternato con cambi di tono, e una solita voce appena udibile, un pugno di vocabili tanto misteriosi quando diretti e precisi. Una battito metallico risuona velenoso, lo segue a ruota uno strappo elettronico tagliente e lacerante. Sembra di sentire il ballo malzano e maledetto d’un gruppo di folletti neri ed oscuri, una danza funesta e nefasta.
Un piccolo inframezzo vagamente ambientale in “Our Canon Of Transportation”, fra nastri in loop, suoni legnosi e delle folate di brezza crudele che sono docilmente devastanti.
Un mantra folk ombroso e nero, si spande fra le lande infestate del disco, un accordo vagamente sognante dipinge un cielo burrascoso, la voce pian piano si sfilaccia ed arriva a sdoppiarsi, rendendo il tutto più straniante. Un racconto al limite del fiume con un temporale in arrivo ed una sbronza da smaltire. Una novella dal nome “This One Is Cursed”.
Ancora quel pezzo di cuore che piange emana un canto monco e mistico, nella successiva “Grains”. Leggermente ci concediamo ai meandri di una composizione dai sapori scontrosi e distaccati. Timbri chitarristici sono un pulviscolo di polvere ai lati di una strada abbandonata, un piccolo organo malandato è una luce che illumina il buio, parole distanti sono il lamento di un vecchio, nell’angolo più dimenticato del mondo.
“Lost In Forests” è un vero e proprio pezzo slow-folk. La chitarra suonata con un incedere rallentato e stanco, le note distanziate da attimi di puro silenzio, il ritmo praticamente inesistente, sfiancanti attimi di pausa fra un frangente di cantato e l’altro. Il tutto si trascina con un andamento spossato e sfinito, una canzone alle fine dei suoi giorni. In conclusione, un drones dondola impertinente per circa 20 secondi, ondeggiando con un suono ferroso e stridente.
Un immediato intreccio di contrappunti sgangherati si scioglie con un fare scombinato nel passo successivo, “Ape Celebrate Your Vague Words”.
Altro cantico strimpellato e starnazzato da un menestrello infausto, le note di uno strumento dannato, la voce dai contorni stanchi e sospettosi, un’atmosfera saturata di rumori e cattiveria si crea nell’aria.
Anime elettroniche scorrazzano fra uno spazio e l’altro, le note, una nota dopo l’altra, si fanno lo sgambetto a vicenda, sovrastandosi fra loro, fino a una pausa, o alla fine, colma di silenzio immaginifico.
“Oh Celebrate Your Vague Words And Coquettish Sovereignty” non è una canzone per animi felici, è un oblio di oscurità che colma la nostra voglia di solitudine.
Uno scampolo fatto di colori cattivi ed oscuri, una conclusione scomposta e solenne, il principio della fine si concretizza con le prime note stellari di “Vapour Steals The Glow”.
Un vibrante suono spaziale veleggia un cielo notturno, con insistenza disturbante, emanando un fracasso digitale fatto di stelle e colori. La litania di congedo viene snocciolata con sottomissione e distacco, un timbro dopo l’altro si fa emaciato e distrutto, piccole parole d’un sognatore compongono storie fantastiche e immaginifiche. Ancora clamori ingombranti si (ri)presentano infettando un suono già di per se malato, gli ultimi secondi sono un frenetico sciabordare d’una chitarra ferrosa, un fischio invisibile e la voce che si scioglie gradualmente.
Opera che sa di male e dolore, piccolo testamento d’un demone silenzioso e triste, volenteroso di raccontarci le sue favole e le sue storie, le storie di un mondo fantastico e misterioso. Un mondo composto di suoni quando delicati e sinuosi, quando scostanti e difficilmente accoglienti.

(7,5)

recensione di Biancalana Alessandro e Raffaello Russo

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