Spoon: "Gimme Fiction" (Matador, 2005)
Provenienti da Austin, Texas, sembrano il solito gruppo di indie-rocker. Quanto di più sbagliato. Ripudiati dalla Elektra (stessa esperienza provata dagli Stereolab) per le vendite non all'altezza.
Linee melodiche fresche e sapienti. Intrecci e rimandi eccelsi, riproposti con gusto e sapienza. Arrivati al quinto disco, il loro itinerario artistico s'è sempre sbrigato egregiamente con un post-punk al vetriolo e un'anima indie. Linee tastieristiche sbarazzine e un'ottima sezione strumentale caratterizzano il loro repertorio. A completare il tutto si aggiunge una voce tipicamente wave.
In questo album cercano di modificare (rinnovare?) il loro stile deviando su un approccio leggermente oscuro e ombroso. Un approccio quasi dark. Sontuoso lavoro sonoro e pregevole precisione certosina nella composizione di ogni singolo timbro. Un impegno tale da rendere le loro canzoni talora irriconoscibili rispetto al passato. Si rimane spiazzati davanti agli episodi del disco.
Già dall'apertura ("The Beast And Dragon, Adored") s'intravede un andamento lento e pacato. La voce non dispiace e si incastona perfettamente con il contorno. Parole decantate con stanca sicurezza. Batteria sfacciatamente slow-core ammalia, chitarra distorta sovente screzia il normale percorso. Un piano sornione impreziosisce con placide note di straziante malinconia. Colonna sonora per un notte scura e ubriaca.
Proseguiamo con la più solare "The Two Sides Of Monsieur Valentine". Immaginaria storia di un fantomatico signor Valentine. Guitar-pop destabilizzato da intramezzi di cello e andamento claudicante, sicuramente non regolare. Gli interventi classici non risultano ingombranti e, anzi, danno un ché di puro e incalzante ai tre minuti scarsi della canzone.
La vera rivoluzione del suono spooniano la troviamo nella successiva "I Turn My Camera On". Irresistibile groove rallentato, batteria in 4/4, voce perfetta e mutata rispetto ai rispettivi episodi. La chitarra scandisce il battito della batteria con regolarità chirurgica. Variegati strumenti acustici fanno da sottofondo. Non un tassello fuori posto. Qua risentiamo il primo Elvis Costello che fa finta di suonare gli Hall & Oates. I più attenti riscontreranno in questo pezzo qualche (lontana) somiglianza. Si tratta, infatti, della riscrittura (completa) della "Emotional Rescue" di stoniana memoria.
"My Mathematical Mind" spiazza con un (iniziale) chorus di piano e un sapiente uso della sezione ritmica. Presa ipnotica e non immediata. Andamento dinoccolato e perfezione d'intenti. Fondere l'estetica naif del carrozzone indie con una composizione spumeggiante e senza pause. Crescendo strumentale sul finire ed esplosione di rumori provenienti da ogni dove. Straniante oltre ogni aspettativa.
Coacervo di chitarre amplessate, nel cuore del disco, in "The Delicate Place". La batteria è introdotta verso il primo minuto da un ritmo contagioso e non lascia scampo. Sparute chitarre spaziali solcano il cammino della canzone. La voce, lodevole e in evidenza per tutto lo svolgersi, snocciola il testo con appararente distacco. Soltanto apparente, visto che il coinvolgimento è massimo. Ammorbante.
Classicità in "Sister Jack". Sulla superficie una ballata elettrica con andamento irregolare e allegro. Solito marasma chitarristico contraddistingue il loro marchio e come al solito non dispiace, rimanendo, peraltro, l'episodio meno rimarchevole dell'opera.
Stupendo pattern di batteria e guitar-session da favola in "I Summon You". Come enfatizzare il mood smodatamente notturno che caratterizza tutto l'album dando quel tocco di originalità senza esagerare. Umili.
Non ci discostiamo nella traccia successiva. Il morboso stomp della batteria fa da compagno al coraggioso (!) synth in sottofondo. Interventi pianistici accostati a sovrapposizioni vocali. Poliedrici.
Arrangiamenti e produzione sfavillante caratterizzano anche le successive tracce senza lasciare mai un anelito di indecisione, né un gusto amaro.
Ritorna un inedito (per loro) synth nella successiva "Was It You?", dove la voce capita sporadica presentando un brano perlopiù strumentale. Stimolanti linee elettroniche stuzzicano l'orecchio, sottofondi di pulviscoli chirarristici terminano il quadro.
Si conclude il cerchio con il rock strapazzato di "They Never Got You" e l'apprezzabile se non decisiva conclusione di "Merchants Of Soul".
Gli Spoon hanno forgiato una formula tutta loro, ovviamente debitrice di band storiche (Television, Sonic Youth, ecc.), ma in ogni singolo angolo innovativa ed emozionante, senza sfoggiare una pedante trasposizione di suoni vecchi di 20 anni.
La nuova via dell'indie-rock americano.
(7)
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