martedì 5 febbraio 2013

AGF: "Source Voice" (Line, 2013)















La prima impressione che si ha del nono lavoro in studio di Agf, a posteriori, è sostanzialmente quella giusta: un disco in cui non succede assolutamente nulla - se a dinamica vengono associati schemi e sviluppi usuali della popular music. Sviscerati i più diversi livelli semiotici e sociologici, la tedesca traghetta infatti, a questo turno, in una dimensione del tutto nuova la sua già intrepida ricerca artistica di estetica e contenuto, isolando con gesso fosforescente il corpo del suo oggetto di studio prediletto – il linguaggio. Affrancato dalla funzionalità e dall’utilità terminale attribuitegli dall’abitudine, questo medium sterilizzato necessita, nell’idea di Agf, di un ripensamento radicale, di essere ricondotto in qualche modo a uno stadio bambino e innocente. Alla sua fonte, precisamente.
Quello che rimane allora non può che essere lo strumento umano ripiegato su se stesso, sciolto da ogni convenzione: i testi sono scomparsi, le articolazioni linguistiche asciugate, la sensualità vocale dell’artista deformata, le strutture pop-elettroniche senza più alcun significato.
La signora Greie-Ripatti squarcia la tela quindi con un disco breve e asciutto, stilisticamente coerente con l’approdo alla label di sir Chartier, e che soprattutto fa ben poco per accomodare l’ascoltatore.

L’esordio di un'opera che si preannuncia difficile, ostica ma non inaccessibile, “The Human Condition”, lancia anche gli unici paralleli postulabili a primo acchito: gli esperimenti di Maja Ratkje e il björkianoMedúlla”, non fosse però oscurata (o meglio, ignorata) in maniera quasi programmatica ogni facile concessione romantica. L’attacco della voce è in ogni composizione nudo e inespressivo, spesso ridotto al solo respiro, salvo però deturparsi in mille direzioni diverse con il silenzioso contributo del digitale (ogni singolo suono infatti nasce unicamente dalla voce di Agf), senza fare sfoggio di alcuno stile vocale, ma con l’umile obiettivo di ridare dignità alle potenzialità inaudite dello strumento nella sua forma più cruda, timbrica e astratta. Ultimo ma non ultimo, l’intento di indurre l’ascoltatore alla reazione, allo stupore, ma anche al puro e semplice fastidio. “Breathing In Lines” e “Voice Count” si pongono così ai due estremi, la prima – nettamente il capolavoro della raccolta – si lacera a tal punto da attorcigliare un incantevole drone prossimo al rumore bianco, mentre la seconda si compone di stranianti grumi vocali al limite della sintetizzazione.

Passando per l’unica meditazione non trattata del disco (“Kaamos”), si scorge finalmente il cuore dell’opera, “Digital Yoik”, il pezzo che ha dato il la all’intero esperimento. Ispirata dall’ancestrale tradizione folk scandinava dello yoik, infatti, Agf ha trascorso un intero anno in giro per fiordi, ghiacci e montagne a cimentarsi con l’antica tecnica (stando ai libri di testo, ancora praticata da alcuni focolai tribali), che consiste nel riprodurre vocalmente, in uno stato di semi-trance, i suoni della natura e delle condizioni atmosferiche circostanti. Una scelta del tutto simbolica quindi quella di cominciare questa temeraria riforma, dalla preistoria folk che riallaccia queste ambizioni futuribili a una prosa irriducibilmente umana e terrena. L’intervento del laptop infine, più sottile che altrove, è anche qui determinante per allentare il potenziale immaginifico e completare questo inquietante rituale di purificazione digitale con un vago senso di distacco e assenza.
Superata questa soglia è possibile allora ricominciare a edificare da zero e azzardare una prima e unica melodia vocale: “Hum Pitch Play”, una modulazione semplice ed essenziale che ha fatto scuola di questa intima riflessione e che si prepara a partire verso chissà quali porti ancora da delinearsi.

L'introspezione infusa nell'approfondimento della voce come strumento giunge al suo ultimo stadio, il compimento finale e definitivo. Fin dal suo esordio "Head Slash Bauch" - più di dieci anni fa - la tedesca ha sempre dato l'impressione di avere in mente un percorso preciso, ascoltando la sua discografia si è come guidati in un sentiero che è anche la vita di una persona e di un'artista. Se negli anni i concedimenti al pop sono sempre stati di gran spessore - senza mai dare l'impressione di cavalcare le mode ma sempre coerente e sincera - la vera natura di Agf è questa, rannicchiata davanti ai suoi strumenti, profondamente immersa nella sua arte e in un raccoglimento quasi religioso. L'emblema e l'approdo verso questa sublimazione è la traccia finale in coppia con il boss Richard Chartier: un lento, silenzioso, snocciolarsi di brumi glitch e timide onde sensoriali, dolce, freddo e profondamente nordico, come la tradizione dei pionieri della frozen-ambient insegnano.

L’indagine decostruttivista della Greie è arrivata quindi al suo limite estremo.
Ci piace pensarla isolata fra i suoi fiordi, mentre disegna e immagina qualcosa di completamente diverso da "Source Voice", scardinando le certezze dei propri ascoltatori o confermandole, mettendo sempre a disposizione di chi la ama qualcosa di "diverso".
Difficile dire così dove andrà a parare questa sostanza così brumosa e indefinibile, sicuro è per ora il suo carattere di opera colta ma mai accademica o autoreferenziale, nonché esperienza coinvolgente al di qua delle cuffie: costretti a un raccoglimento nuovo con il proprio strumento, Agf ci dà un'altra possibilità di ripartire per una conoscenza altra di sé e del mondo. Non sfruttarla significa perdere un’occasione, in musica, difficilmente replicabile.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Roberto Rizzo

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