lunedì 13 settembre 2010

Arandel: "In D" (Infinè, 2010)



Chi l'ha detto che la techno sia un affare per palati giovani e che la classica sia roba da vecchi con la pipa? Confinato in un alone di mistero, il progetto Arandel nasconde le proprie origini per far parlare di sé solo con la musica. Non sappiamo né il nome, né la provenienza dell’autore e questo poco importa al cospetto di un’opera così magica.
L’album danza con disinvoltura fra partiture oscure, mistiche, colme di passionalità e gusto melodico. Non c’è limite alle idee che sgorgano impetuose come il riflusso di un corso d’acqua impazzito: techno minimalista ottenebrante, voci e atmosfere al limite del dark, sperimentazione ambientale adornata da docili field recordings. Il risultato della mescolanza di così tanti ingredienti porta alla realizzazione di un cumulo informe, attraente, inusuale.

Si parla quindi di techno, di musica classica, di beat secco, ma anche di post-rock-glitch futurista, dub, e perchè no, di jazz e sperimentazione. Non un prodotto di facile catalogazione, perché intriso di profumi e influenze variegate. Nonostante l'elemento minimale sia preponderante, le decorazioni di contorno evidenziano riferimenti incrociati non omologati.
Le strutture ritmiche estrapolate dai capolavori di maestri come Basic Channel e finanche Riley, vengono introdotte da cori dal sapore dark/industrial, registrazioni concrete ed echi canterburiani, drappeggi modern classical e disfunzioni glitch. Questa copertura ad ampio spettro evidenzia una ricerca e una curiosità maniacale che conduce dalle parti di un formula non certo inedita ma perlomeno originale, non distante dalla rilettura del Bolero operata da Von Oswald e Craig.

Fra pattern di drum machine insistenti, solo solcati da alcune voci lontane (la delicatezza dell’iniziale “In D#1”, echi dub sognanti per “In D#5”) e strambe litanie funeree (“In D#6” non è distante dalla Islaja più gelida, “In D#10” e “In D#9” paiono uscite da un album free-folk con sfumature noir), prende spazio un largo uso degli archi, capaci di introdurre con grazia lo sviluppo immacolato delle trame ritmiche e melodiche (echi sci-fi alla Redshape per “In D#7”, la simbiosi fra le controparti nella fanfara “In D#3”). E mentre la restante “In D#8” scioglie iterazioni acquose, l’album vaga verso la conclusione con un fare aggraziato e rispettoso.

Oltre alla qualità delle intuizioni presenti, “In D” si distingue per la potenzialità di attrarre un ampio pubblico. Non troppo settoriale per essere di nicchia, la sua forza sta anche nell’attingere da vari stili e generi. Divoratori di techno e affini non saranno delusi ma piuttosto incuriositi da un album che non si fa riconoscere mai completamente per il suo essere multiforme e camaleontico.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana e Alberto Asquini con collaborazione di Alberto Guidetti

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