lunedì 28 gennaio 2008
Burbuja: s/t (Station 55 Records, 2007)
A Tudela (Spagna) la vita scorre tranquilla, tutto procede all’insegna di una fertile crescita economica, e le giovani presenze hanno ben poco di che lamentarsi. Tra queste, è possibile individuare una piacevole (?!) anomalia, dedita più che altro alla costruzione di immagini e suoni a dir poco carichi di angoscia e smarrimento generazionale. Lei è Merche Blasco, studia ingegneria, ed è votata alle più svariate esperienze artistiche. Potremmo definirla come una sorta di nomade moderna, legatasi ben presto al nostro bel (?) paese. Difatti, spesso è possibile incrociarla alla biennale di Venezia, per la presentazione di alcune sculture, o in giro per le stradine di Genova, tutta presa a registrare stranissime divagazioni/field recording con il suo (ex) gruppo The Boh. Mentre ad aspettarla a braccia aperte, nelle poche volte in cui le capita di rientrare in patria, c’è sempre un certo Cristian Vogel, con la sua neonata label Station 55.
Due anni di incontri, attese, registrazioni domestiche, per dar vita all’omonimo “Burbuja”, primo lavoro solista dell’incandescente fanciulla.
L’impatto iniziale imporrebbe l’accostamento facile a una Bjork dei bei tempi, ma non è così semplice. Pochi passaggi sono più che sufficienti a scuotere le nostre pupille dal tenue miraggio obliquo. L’analisi del disco, infatti, conduce puntualmente a delle possenti smentite, inerenti ogni plausibile/possibile parallelo artistico. Piuttosto, potremmo pensare simpaticamente a una Sir Alice sotto anestesia, smembrata da tutte le sue cariche magnetiche, mentre la frequenza dei beat distorti ha un andazzo certamente meno inquieto, ma non per questo del tutto docile (“Burbujasaledelabanera”).
Merche crea, attraverso le sue ondulazioni elettriche, dei collage sbiaditi di art sound emozionale, colonne sonore perfette per narrare gli sconcerti dell’anima di una graziosa fanciulla dalla sensibilità innata, costantemente deviata nel profondo del suo candore dalle pratiche insane della vita quotidiana. E’ comprensibile, quindi, che nasca l’esigenza di zittire quel marasma marcio di sentimenti insulsi attraverso il tremolio angelico di un pianoforte (“Shhhh....”) o l’oscurantismo ipnotico dei sensi, forgiato da un canto malato e tremendamente/volutamente atonale (“Senseless”).
Il folk sporco e pastorale di “Roped” imprime forti tinte umorali all’opera, che sa emozionare con grande fervore nei frangenti più raccolti. In tale intento primeggia la stramba “WhoKnows”, scheletrica ed essenziale, sorretta da un buffo ritmo dinoccolato e circondata da vocette giocattolose quasi fossero folletti saltellanti.
I quadretti fuggenti qua presenti fungono da dipinti impressionisti, ricalcati con un pungo deciso o, alternativamente, appena schizzati con piccoli segni circolari. Arte astratta, questa. Fortemente ermetica, abbarbicata sopra certezze artistiche labili quanto gli steli di un albero troppo leggero per mantenere un chicco di grandine. Si veleggia fra le forti tinte improvvisate di “KeepsRainingInsideHerHead” (splendidi i campionamenti dei rimbalzi di una pallina da ping-pong) e le tenere sperimentazioni di assemblaggio sonoro di “RecipeToCookAnIdea”, in cui si palesa l’estro spropositato della ragazza.
Apice del disco, quel frullatore di raggi di luce di nome “MissTortillaDePatata”; un mutante fatto da scampoli impazziti, sogni fluorescenti e nostalgie disperate. La lenta discesa verso la conclusione del disco si concretizza con cinque episodi immediati, mai sopra i 3 minuti. Gelidi, geniali, esempi folgoranti di composizione fuori dagli schemi, ingabbiati in una struttura che non c’è. Se il cellulare che trilla sotto il marasma di “IjustWannaRideMyBicycle” non impressiona a sufficenza, ascoltare lo splendido affresco di “ImHavingBreakfastAsEveryMorningIDo”, un’ironia beffarda nei confronti dell’inesorabile scorrere del tempo assalirà inesorabilmente.
Sfrontata e sregolata, Merche Blasco coagula idee disperse nelle sua mente, le architetta con precisione chimica, senza mai barricarle nei confini di un’estetica troppo perfettina per essere attraente. Il gran lavoro di Cristian Vogel in sede di produzione raffina e puntella un’opera quasi inattaccabile, tredici vignette che spingono verso un anelito di speranza mai completamente serena.
(7)
recensione di Alessandro Biancalana e Giuliano Delli Paoli
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento