C’è stato un tempo in cui l’elettronica in musica era un’etichetta ben definita. Tempi in cui artisti come Boards Of Canada
e tutto il giro intorno a etichette come n5md, Type Records, Morr Music
e Plug Research dominavano le copertine delle riviste di settore, anni
in cui un pattern di drum machine sovrapposto a un
accordo di chitarra o una partitura ambient avevano un’identità
universale. Erano suoni da cui trapelavano, oltre alla malinconia,
l’angoscia e il senso di smarrimento del nuovo millennio che stava per
arrivare, l’incertezza e la totale disillusione per il futuro. Con
modalità, esperienze, alterne fortune ed esiti differenti, da quel
periodo storico sono esplosi e scaturiti suoni eccitanti, emotivi ed
emozionanti.
In questa storia che stiamo per raccontare i
protagonisti sono due e rientrano a pieno titolo in questa rivoluzione
musicale esplosa sul finire degli anni 90. Gli inglesi Antony Ryan e
Robin Saville fin da subito hanno dimostrato di possedere una magia in
grado di distinguerli da molta musica presente sul mercato in quel
periodo. Nelle loro composizioni si percepisce una genuinità parente
stretta della malinconia, un piacevole senso di smarrimento unito a un
riconoscibilissimo gusto per la melodia e al senso del ritmo. Trame
semplici, frastagliate e stratificate, mai eccedenti o casuali,
intorpidite e riflessive. Ed è forse per questi e per altri mille motivi
che il pluripremiato regista italiano Paolo Sorrentino - con il suo
sodale Pasquale Catalano - ha spesso scelto loro pezzi nelle colonne
sonore dei suoi film, ultimo “Fueled” - contenuto in Lucky Cat - proveniente dalla serie tv “The Young Pope”.
Il progetto inizia il suo percorso con uscite a tiratura ridotta come 7”, split, singoli ed Ep, raccolte fortunatamente in buona parte nella compilation Clockwork Menagerie. Dopo due split pubblicati a stretto giro (con Tin Foil Star aka Styrofoam
e Metrotone), arrivano due singoli intitolati "Dampen" e "Parochi/A
Gentle Man", entrambi del 1999. A tratti perfino più maturi e
strutturati dei brani presenti nell’album d’esordio, le due composizioni
– algide e poco melodiche - dimostrano una maturità in tema di
cesellatura timbrico ritmica davvero notevole, sublimata poi nella
flessuosa “Wistful Song For A Soaring Gull” – contenuta in Dampen – forse uno dei primi esempi veramente compiuti della loro formula sonora.
Il primo album sulla lunga distanza arriva nel 1998 con Beautronics, pubblicato sulla sussidiaria della Rough Trade Tugboat Records – fondata dal frontman dei Piano Magic Glen Johnson - etichetta nel cui roster si annoverano nomi di grande rilievo come Low, mùm e Disco Inferno. L’opera si snoda su sedici tracce ed è strutturata con brani principali e piccoli sketch della durata di circa un minuto con il suffisso “Tint”.
Nonostante
vi siano germi di genialità (“Sublimation” è davvero magnifica) il
disco è troppo prolisso e decisamente frammentario. Le prime
sperimentazioni Idm danno risultati positivi senza strafare (l’iniziale
“Vosil”, il bel quadretto bucolico di “Paintchart”), mentre gli
intermezzi sono vere e proprie bozze (risaltano in particolare “Tint3” e
“Tint4”), altri episodi sono poco efficaci o embrionali (“Skeek”, “Iam
Twisq”).
Beautronics dà l’idea di essere di un vero
e proprio “primo tentativo”, un buffo, quasi maldestro e ingenuo,
esordio, comunque fondamentale per capire da dove sono partiti Antony e
Robin. Nel 2013 Morr Music ristamperà l’album con l’aggiunta di quattro
nuove tracce (fra queste risalta “Spoonery”) e l’eliminazione di
“Sublimation”.
L’anno successivo la band cambia ancora etichetta e approda alla Liquefaction Empire. In Digitalis
- a tutti gli effetti un mini-album - il suono continua a prendere
forma già dall’iniziale “Zip Left, Zip Right”, in cui si scorgono
strutture più compiute. Assalti un pochino più abrasivi (“‘Bean Sea”
ricorda gli Autechre
più incisivi) lasciano spesso il posto a tiepide mini-suite (“M.Mouse”,
“Falling”), mentre composizioni un pelo più strutturate lasciano adito a
qualche curiosità ulteriore (“Dilly”, “Reno”). Conclude la bellissima
“Quink Like Ink”, con sample concreti a dare vivacità compositiva.
In un contesto di forte creatività, lo stile “Isan” viene a farsi più definito con Salamander, pubblicato pochi mesi dopo Digitalis
e primo approdo alla famosa etichetta berlinese Morr Music poi
diventata per il duo una vera “casa”. In contemporanea, quell’anno prese
corpo una tendenza nel mondo della musica elettronica il cui culmine si
raggiunse sia con la pubblicazione di “Music Has The Right To Children” (in realtà rilasciato qualche mese prima, nel 1998) dei Boards Of Canada (carriera poi esplosa con “Geodaddi” del 2002) e la contemporanea rilevanza dei capolavori degli Autechre
di qualche anno addietro (nel 1999 in realtà fu pubblicato “LP 5”).
L’elettronica d’ascolto - sia esso più colto o “pop” - stava subendo
fortissimi rivoluzioni e il materiale prodotto, complice un’eccitante
frenesia e urgenza produttiva, era tantissimo. E fu lì che il sodalizio
dei Nostri riuscì a inserirsi, con un album in cui si scorgevano chiari
riferimenti alla tanto chiacchierata Idm (acronimo controverso ma tutto
sommato comprensibile), tastiere prossime all’ambient, oltre
all’incedere di certa electro che di lì a poco avrebbe spopolato in
chiavi decisamente mutevoli.
Iniziando l’ascolto ci imbattiamo in
“Peg”: fra placidi tappeti di tastiere e innumerevoli strati di ritmi
sintetici, si inseriscono folate di disconnessioni e vari glitch, componendo la sonorizzazione educata per un software
in malfunzionamento. L’ascolto prosegue con gentili concessioni al lato
più ambient (“Proager”, “Lid Former”, “Twentyfive Thirtyone”) mentre
altre volte il ritmo si fa più presente con risultati davvero notevoli
(la title track, la scomposta “Happy Pet In A Car”, quasi in territorio glitch). Fra le tracce più significative troviamo “Still. Blue”, che fra delicatissimi tocchi di drum machine, campionamenti vocali e sapienti pennellate di tastiera addormenta l’atmosfera, rendendola flebile e ovattata.
Sulle
stesse coordinate si attestano altre gemme (“Clipper”, le leggermente
screziate “Snot” e “Effekl”), mentre “Braille Foundry”, in
collaborazione con la band Charles Atlas - nella cui formazione si trova
anche un ex-componente dei Piano Magic - incanta con un bel sottofondo di chitarra acustica.
Solo a tratti capace di tenere testa ai dischi successivi, Salamander offre un consistente antipasto poco prima del definitivo compimento artistico del progetto Isan.
Il momento arriva nel 2001 con Lucky Cat
e coincide con il picco d’ispirazione e di pubblico, probabilmente
allineato anche con il periodo di maggior splendore dell’etichetta di
Thomas Morr. Questo album si stampa nella cronologia dell’elettronica
moderna per il suo tocco cristallino, per un modo gentile ed educato di
entrare nelle orecchie dell’ascoltatore.
La partenza è subito un
colpo difficile da metabolizzare, infatti “Cutlery Favours” è a pieno
diritto uno dei brani più belli mai pubblicati dal duo. La grana grossa
del synth dell’incipit viene dopo pochi secondi invasa da un
effluvio di bordate soniche e da uno sfarfallio che sa tanto di magia
quanto di mestizia, in una sinfonia che per cinque minuti lascia
letteralmente steso l’ascoltatore.
I toni si ammorbidiscono con la
filastrocca “Table Of Deciduous Species”, tiepidamente screziata da un
ritmo scomposto e un da filo di sintetizzatore, sottile come le trame di
una ragnatela. Ed è quel ritmo che solca la bellissima e già citata
“Fueled” - conclusa con un intreccio di suoni che paiono i lamenti di
una stella - poi seguita da piccoli capolavori come “Recently In The
Sahara” e “What This Button Did” (un ipnotizzante susseguirsi di sbuffi e
squilli sintetici).
L’album non perde un’oncia di efficacia e
incanto nemmeno nella parte centrale, alternando sognanti nenie
cibernetiche (“Anteaters Eat Ants”, “Kittenplan A”) ad altri episodi più
propriamente Idm (gli strati ritmici di “Read Again” e “Scraph”).
Spicca in questo frangente “Cathart” (già presente ne “L’amico di famiglia”)
con il suo meraviglioso susseguirsi di melodie e singulti, brano
architettato in modo pressoché perfetto e ad alto tasso emotivo.
L’album
sfuma fra rarefazioni sabbiose e crepuscolari (“Caddis”, “You Can Use
Bambolo As A Ruler”) lasciando una non bene definita sensazione
agrodolce. Quest’opera rimarrà uno dei più significativi esempi
dell’espressività della musica elettronica, capace con i soli suoni di
smuovere sensazioni inimmaginabili.
A stretto giro con l’uscita di Lucky Cat troviamo un singolo e un Ep di inediti mai più ripescati. Exquisite Honeyed Tart – su Static Caravan – e Salle d’Isan
su Morr fanno insieme, almeno dal punto di vista numerico, praticamente
un altro album. Se nel primo troviamo prima una cupezza fuori dallo
standard Isan (la title track), per poi seguire con una
giocosità che non avrebbe sfigurato in alcun album (“Hugs Now, No Kisses
(Hugo’s Sleep)”), nel secondo siamo di fronte a un vero e proprio
mini-album. Salle d’Isan contiene infatti diverse gemme
meritevoli di essere riscoperte. Se “Days & Later” spinge la cassa
ai limiti di un battito techno gentile, “Bubbles8” e “Disruptive
Elephant” sono candite da una dolcezza di fondo ormai marchio
distintivo. “Fullen Brimm” fa sfoggio di un synth dalla grana grossa e
di un’atmosfera futuristica, mentre “Serene Driver” è una ninnananna
stellare, una delle migliori tracce mai pubblicate dal duo.
Meno
di un anno dopo, viene pubblicato un altro tassello fondamentale nel
percorso artistico del duo. Nel 2002 la fidata Morr rilascia la raccolta
Clockwork Menagerie, composta da brani precedentemente
apparsi in Ep o singoli di difficile reperibilità. Qui si può ascoltare
in maniera sparsa tutta la creatività e il genio che risiede nell’arte
del sodalizio artistico della formazione inglese, se non la più alta
sublimazione della musica prodotta fino a quel momento. Sarà difficile
resistere a una miriade di stimoli sonori, a partire dall’ammaliante
incedere di “Betty’s Lament”, senza contare struggenti malinconie
pastorali (“Calf”, “Cubillo”), distorsioni elettriche (“Comb”,
“Autolung”) e l’ipnotico e angosciante andirivieni di voci della
magnifica “Remegio” (utilizzata ancora da Sorrentino nel film “Le conseguenze dell’amore”).
Facendo
scorrere le tracce, ci si rende conto di quanto sia ampio lo spettro di
influenze a cui i due musicisti hanno attinto nella loro carriera: un
vero appassionato, infatti, scorgerà le incursioni nella techno - seppur
sempre mitigate dalla solita compostezza di fondo - di episodi come
“Damil 85”, splendidamente impreziosita da un campionamento vocale. Il
lato più “ambient” e diluito mostra un aspetto più riflessivo (“Eeriel”,
“Ulim”, “Schema”) ma al contempo legato alle angosce della kosmische musik (“Titled, Not Tithed”).
Nei restanti brani trovano posto suoni electro,
siano essi declinati su coordinate più acide (“Phoeb”, “Schema”),
giocose (la divertente “Rron”) o distese (il bel tiro di “Eusa’s Head”).
Siamo di fronte a una sorta di summa di stili, tendenze e
ondate elettroniche, che copre più di quindici anni di musica, il tutto
chiaramente filtrato dall’inconfondibile sensibilità di Robin e Antony.
L’uscita è impreziosita da un artwork di prim’ordine, curato come sempre da Jan Kruse, l’autore di quasi tutte le grafiche delle uscite su Morr Music degli Isan.
Dimenticati nel marasma delle pubblicazioni discografiche, si collocano sempre nel 2002 due mini-split con Lali Puna
(pubblicato dalla bolognese Unhip Records) e Phonophani. Nel primo
disco il brano degli Isan non aggiunge nulla di significativo, mentre
nel caso di “My Soaring Heart” il tiepido lamento di una voce in
sottofondo mette insieme atmosfere piacevoli.
A due anni di distanza arriva nel 2004 il quarto album di studio Meet Next Life,
che introduce nuovi elementi rispetto al già cospicuo campionario
sonoro fin qui proposto. In quegli anni erano di grande richiamo suoni
folktronici, e band come The Books e Tunng
campeggiavano sulle copertine delle riviste musicali e nei principali
festival. Gli Isan con questa loro prova si accodano a quell’ondata con
l’introduzione di alcuni strumenti a corredo dell’elettronica. Come non
scorgere elementi di folktronica nell’incedere bucolico di “Birds Over
Barges”? E come rimanere indifferenti al tintinnio degli xilofoni di
“The Race To Be First Home”?
L'elemento positivo è che tale
deviazione dallo stile originario (il basso di “Sat 73” è un’altra
divagazione interessante) è perfettamente funzionale e comunque solo
parziale. Infatti con tracce come “First Date - Jumble Sale”, “One Man
Abandon” o “Gurnard” sarà il puro stile-Isan a inondare le vostre
orecchie con carezzevoli fiocchi di bit e ritmi al rallentatore.
Ad
alzare il tiro e dare una sferzata di tensione viene in soccorso la
stratificata “Gunnera”, che grazie a un nutrito intreccio di layer
sonori soddisfa pienamente, mentre l’autentico electro-pop di “Iron
Eyes” sorprende per come i musicisti riescano a padroneggiare ambiti a
cui non sono abituati. Da metà in poi, il disco prende quota con le
dolci pulsazioni di “Snowdrops And Phlox” e “Willory”, due vere e
proprie sonorizzazioni per foreste chiaroscurali. La parte conclusiva si
attesta su atmosfere piacevoli ma non sorprendenti (molto buona la title track, un po’ sottotono “Slow Bulb Slippage”).
Nonostante siamo pur sempre al cospetto di un’uscita pienamente sufficiente, lo scarto fra Meet Next Life e un vero classico come Lucky Cat
si avverte, c’è meno empatia o come si suol dire “urgenza espressiva”,
anche se non mancano buone canzoni o momenti da ricordare. Possiamo
parlare a tutti gli effetti di un classico album interlocutorio.
A margine dell’esperienza di Meet Next Life –
in cui per la prima volta viene sperimentato l’uso degli strumenti
acustici - meritano una citazione i due album solisti di Robin Saville Peasgood Nonsuch del 2008 pubblicato dalla Static Caravan e Public Flowers rilasciato da Second Language cinque anni dopo nel 2013. Lo spostamento verso territori folktronici, addirittura con alcuni accenni alla toy-tronica degli Psapp,
è ancora più marcato e la presenza di alcune suite richiamanti
atmosfere modern-classical mostra la vastità dell’ispirazione
dell’artista inglese. Soprattutto il secondo album ha una grande
capacità di commistionare sensibilità acustica e trame elettroniche.
Sono due album da recuperare, vista anche la scarsa visibilità che hanno
ricevuto.
Giunto nel 2006, in un periodo in cui l’ondata indietronica stava subendo un calo di vendite e ispirazione, Plans Drawn In Pencil
cerca di trovare nuove vie dopo le incertezze della precedente uscita.
L’unico modo per uscire da tale stallo era il ritorno alle origini di
una composizione totalmente elettronica che ha sempre contraddistinto il
duo inglese. Il disco prende il largo sin da subito con un trittico
davvero notevole, composto in principio dalle pulsioni bucoliche di
“Look And Yes”, proseguendo poi con il seducente synth di “Cinnabar”,
per poi finire con gli sbuffi pastorali di “Yttrium”.
Tuttavia, con
il passare dei minuti incorrono svariate criticità in brani svuotati dal
pathos (“Ship”, “Corundum”, “Ruined Feathers”), poi dimenticate dai
pregi evidenziati sia nella languida e fluida “Roadrunner”, che dipinge
acquarelli dal fascino inconfondibile, sia quando ci si imbatte
nell’ambient ipnotica di “Immoral Architecture”.
Il focus della
musica degli Isan sembra essersi spostato verso una visione più lucida e
meno emotiva della musica, animata da una passione più ragionata e meno
istintiva. Ciò non costituisce sempre un difetto, rimanendo intatto
l’indomito talento per le belle melodie (carezzevoli in “Amber Button”,
taglienti in “Five to Four, Ten to Eleven”). A non convincere è la
mancanza di un collante di fondo che tenga le basi di un disco coeso e
ben rifinito, la sensazione che si ha è quella di una serie di episodi
senza un’idea alla base, tutto ciò nonostante la dolcezza evocativa di
“Seven Mile Marker” e i pulviscoli glitch di “Working In Dust”.
Alla
luce di questa parziale incertezza, appena dopo il rilascio del
discreto Ep "Trois Gymnopedies", il progetto Isan viene messo in pausa
per un periodo più lungo del solito.
Dopo quattro anni è la volta di Glow In The Dark Safari Set,
sesto album in studio (settimo, se contiamo il mini “Digitalis”), dove
in cinquanta minuti si tratteggia nuovamente una dimensione onirica e
aliena, sospesa tra tastiere giocattolo, omaggi più o meno espliciti ai Kraftwerk e
sapienti artifici Idm, il tutto dominato da un’estetica da modernariato
niente affatto stucchevole, anzi assai credibile rappresentazione di
quella che per gli Isan è tutto fuorché una propensione dettata dal
trend del momento. È un po’ il destino degli antesignani, quello di non
riuscire più a suscitare la dovuta attenzione al momento dell’esplosione
del “fenomeno”, così come quello di cominciare a disperdere parte della
spinta propulsiva iniziale proprio quando se ne potrebbero raccogliere i
meritati frutti.
In questo senso, Glow In The Dark Safari Set
non può certo definirsi un album “che arriva troppo tardi”, poiché, ad
esempio, quando pigia il piede sull’acceleratore delle avvolgenti derive
cosmiche, mostra di avere ben poco da invidiare alla celebrata
emotività sintetica degli Oneohtrix Point Never;
tuttavia, superate le carezze della miriade di suoni sguscianti tra
sibili, crepitii e pulsazioni, il disco scorre via ordinato negli
accurati ceselli melodici, ma i suoi brani faticano a lasciare
un'impronta ulteriore rispetto a quelle delle cangianti modulazioni
analogiche o delle saltuarie incursioni ritmiche.
Se infatti
l’abbraccio liquido dell’iniziale “Channel Ten” viene tradotto in
versione vagamente acida da “The Axle” e i battiti Idm di “Grisette” e
“Catgot” scompaginano appena un po’ le divertite linee-guida retrò del
lavoro, la sua seconda metà risente di una certa stanchezza, percepibile
in particolare lungo gli oltre nove minuti di “64 Fire Damage” e nella
iterativa immersione cosmica di “Slurs And Slowly”. Unico spunto
significativo, in questa parte, restano i vocalizzi della conclusiva
“East Side V34”, che paiono chiudere il cerchio retrofuturista gettando
un ponte verso gli Stereolab più eterei.
Realizzato
e compilato con il solito buon mestiere, l’album rappresenta una nuova
testimonianza della perdurante vitalità del duo inglese, un disco che
appaga parzialmente, ma non intacca di una virgola la classe del duo. A
seguito di questo album, e ad eccezione della pubblicazione dell’Ep
“Discette” nel 2012, la coppia inglese torna in un silenzio discografico
lungo sei anni.
Nell’agosto del 2016 appare sulla pagina Facebook ufficiale la foto di un nuovo artwork
senza alcun messaggio di accompagnamento. In realtà si tratta
dell’annuncio di un nuovo lavoro poi pubblicato ufficialmente il 14
ottobre dello stesso anno. L’attesa è tanta perché, nonostante tutti
sapessero che non c’era aria di scioglimento, nuove canzoni tardavano ad
arrivare. Glass Bird Movement
rievoca tutte le migliori caratteristiche della musica del duo:
atmosfere ovattate, ritmi appena abbozzati, litanie ambient fra il
malinconico e il crepuscolare, tante melodie, semplici ma bellissime.
Il
risultato è di sicuro interesse, la riproposizione di quell’ambient non
troppo estatica ma fresca e movimentata, dona nuova linfa dopo alcune
incertezze sulla direzione da prendere. In queste undici canzoni
ritroviamo soffici intrecci electro-pop (i loop della title track,
l’empatia Idm di “Parley Glove” e “Slow Rings”), bozze ritmiche
tendenti all’ambient (“Lace Murex”, la quasi impalpabile “Linnaues”),
episodi più legati alla natura electro di questa musica
(“Napier Deltic”, “Rattling Downhill”), il tutto condensato e cementato
da una sensibilità timbrica e melodica fuori dal comune, un senso del
suono che lascia incantati e sbalorditi.
Manifesto dell’opera e miglior episodio è “Risefallsleep”, una sorta di emo-electro-ambient in cui i synth in sottofondo pennellano un giro strappalacrime, mostrando forti affinità con un altro capolavoro come “Cutlery Favours“.
Alla
luce dei risultati di questa ultima uscita, i sei anni di pausa non
sono certo passati invano. Ed è con questi suoni che finisce, almeno per
ora, il racconto della carriera di un duo che ha segnato senza farsi
notare un’intera stagione di musica elettronica, proponendo nuove
soluzioni con garbo e un indistinguibile stile compositivo.
Contributi di Raffaello Russo ("Glow In The Dark Safari Set")
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