lunedì 15 maggio 2006
Aki Tsuyuko: "Hokane" (Thrill Jockey, 2006)
Saper incantare, al giorno d’oggi, non è un’operazione semplicissima, né scontata. Una musica sospesa fra la terra e il paradiso, un complesso di suoni soavi e soffici, un acquerello dipinto con i colori più vivaci e spumeggianti.
Aki Tsuyuko, ad ogni sua uscita, riesce sempre in questo obbiettivo. Creare un’atmosfera sognante con l’ausilio di pochi elementi, cesellare una melodia che va oltre al semplice intrattenimento musicale, trascende dal suono e cattura mente e anima, con i suoi toni deliziosamente fragili e bambineschi.
L’angelo capace di queste meraviglie venne scoperta a suo tempo da Nobukazu Takemura, uno degli artisti più importanti di tutta la scena giapponese, autore di album dal gusto armonico inconfondibile (“10th”, “Child And Magic”). Produce diversi singoli di Aki, consapevole del suo valore artistico, si fa prestare la voce in diverse produzioni e, non di scarsa importanza, porta con sè la ragazza a giro per il mondo, nei suoi tour, nella veste di video-maker.
Il processo di formazione da parte di Aki è stato molto intenso, partita con gli studi di organo in prima adolescenza (nel suo paese natale, Gifu), catturata dalle arti visive, cura e perfeziona diverse performance che ibridano suono e immagine, sia in patria, sia aldifuori dei confini giapponesi.
Precisamente nel 2000, Jim O’Rourke, si accorge del valore di questa artista, e ne ristampa il suo primo album completamente strumentale, “Ongakushitsu”, pubblicato per la Mokai. Un’opera che scintilla di luce propria, un groviglio morbido e giocattoloso fatto di stille elettroniche svolazzanti, note di organo vaganti per lo spazio, erranti animi digitali con il sorrisino sulla bocca. Lo xilofono è lo strumento dominante e sembra di vivere sotto un temporale di pioggia eterea, con il viso rivolto verso il giardino delle delizie.
Siamo al 2006, ed arriva “Hokane”, album uscito sotto la quotata etichetta americana Thrill Jockey.
Impostato diversamente rispetto al suo predecessore, in questa opera si intravede un amore spassionato per la musica classica d’autore, un sapiente lavoro di trasposizione di suoni antichi e tradizionali invade ogni singola composizione. Non molto dissimile dal lavoro di un’altra bambina amante dell’elettronica come Sawako, i suoi bozzetti si distinguono senza lasciar all’ascoltatore una sensazione di già sentito, o un vago gusto amaro in bocca. Questo album, come detto in principio, affascina con il suo fare minimale e gentile, attraverso tocchi teneri e carezzevoli, librindo nell’aria come un uccellino, nella mattina più soleggiata dell’anno.
Si inizia con una suite , formata da quattro atti, l’incantevole “Como Suite”.
Come in “Ongakushitsu” lo strumento predominante era lo xilofono, qua l’organo la fa da padrone. S’aggiunge qualche arco alla formula, poco altro, per produrre una marcetta per fanciulli innamorati. Dopo questa introduzione, vengono proposte una coppia di pezzi cantati, sia da lei che dal suo fratello. Dal dolce incedere di “Owlet Hymn”, adagiata su un prato rigoglioso, proseguendo con la voce maschile ovattata di “Bud Of A Song”, una piccola fiaba magica. Un’aura di bellezza ricopre queste due gemme.
Una filastrocca per folletti danzanti spumeggia colori ovunque (“Dune and Clarinet”), la musica per un bosco fatato, cantata con un tocco di raffinatezza (“Zou and Chou”), la suite infinita e profonda, adatta per un tramonto dipinto da tinte soffuse (“Aquilo”).
Ed ancora, cullare i propri pensieri immaginifici con la musica composta da una dea terrena (“Noel’s Organ”), sognare e viaggiare, amare e sfiorare il cielo con la sonorizzazione di un ruscello che scroscia (“Rainbow Train”), salutare con la manina il paradiso, ascoltando la colonna sonora del ritorno (“Dance at Happy Night”).
Ancora, dal Giappone, trame sonore utili per rilassare un animo distrutto, risanare dolori provenienti da lontano, adagiare le membra in un piacevole torpore per una mezz’ora di sogni e sorrisi.
(7)
recensione di Alessandro Biancalana
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