lunedì 7 aprile 2008

Chandeen: "Teenage Poetry" (Kalinkaland, 2008)


Il bisogno irrefrenabile di posare le proprie membra negli interstizi di canzoni lievi, sommesse, ma al tempo stesso palpitanti e urgenti, ha dovuto attendere ben cinque anni per essere sfogato.

Chi conosce a dovere i Chandeen saprà cosa significa questa frase. Attraverso un percorso stilistico coerente e colmo di sorprese, la band di Weimar ha varcato (spesso sfondando) le porte che dividevano generi fra i più disparati, mescolando influenze e tinteggiature stilistiche con garbo inarrivabile. Se di petto le loro canzoni paiono soffusi tocchi di dream-pop etereo (Cocteau Twins), voltando leggermente lo sguardo si possono intravedere flebili tendenze alla musica industriale dilatata, leggermente screziata da sfregi provocati dalle frange più morbide della new wave classica (Echo & The Bunnymen). In tutto ciò, un’estetica prevalentemente analogica spoglia il synth-pop dalle velleità ballabili e lo colora con stile inimitabile, trasformando il tutto in qualcosa di mistico, aureo, senza paragoni.

Il loro penultimo album, “Echoes”, risalente al 2003, evidenziava sviluppi interessanti, conducendo l’ascoltatore in evoluzioni egualmente seducenti rispetto ai loro esordi. Gli anni trascorsi hanno mutato le aspettative del pubblico, i gusti si sono piuttosto livellati, ed è naturale alla luce di ciò paventarsi una mutazione normalizzante di certe musiche. Nel frattempo il mastermind Harald Lowy si è dato da fare con progetti paralleli e con la sua label Kalinkaland, fino alla decisione di riportare sulle scene la sua creatura, plasmandone una nuova forma con grande coraggio e onestà artistica. Dopo 12 anni dall’inizio dell’avventura, con “Teenage Poetry”, i Chandeen riprendono dunque le redini del discorso lasciato in sospeso da dischi come “The Waking Dream” e “Shaded By Leaves”.

Da qualche parte all'incrocio tra la teutonica maestosità degli Aurora, i Lycia più eterei e il trip-rock fatato dei primi Antimatter; è lì che “Teenage Poetry” va a situarsi. L’introduzione a un sogno musicale sospeso fra gli steli di un mondo immaginario si concretizza nel breve subbuglio della title track, aprendo il sipario di un album più denso ed equilibrato rispetto all’antico standard del gruppo. Merito della nuova cantante Julia Beyer (già nei duri Technoir), meno "heavenly" delle due vocalist originarie, ma capace di radicarsi perfettamente nei soffici affreschi sonori di Harald Lowy.

Canzoni voluttuose che si muovono costantemente tra sogno e realtà, tra cascate di synth incantati e timidi ricami chitarristici. Un disco che pure sembra quasi mancare di una consistenza fisica, tanto la sua traiettoria è rilassata, avvolgente, ipnotica (“Looking Forward, Looking Back”). Lo sguardo smarrito nei ricordi, un malinconico sorriso che ogni tanto affiora sul volto. Fantasie romantiche e consapevolezza della propria incombente solitudine (“From The Inside”).

Scenari riflessivi e introspettivi che Harald e Julia colorano con naturalezza e una sfilata di brani straordinari: svettano le iniziali “Welcome The Still” e “New Colouring Horizon”, due miracoli di grazia e armonia; passando per estatici intermezzi strumentali (“At The End Of All Days”, “A Last Goodbye”) e più cupi ritorni alla realtà (“Clean The Traces”) sino al brano-manifesto “Dreaming A Thousand Dreams”, dilatato, incorporeo, svuotato di ogni peso materiale. Verso le stelle, verso la memoria.

La forza che permette a certi esempi di melodie di non marcire sovrastati da mucchi di pregiudizi è il suono fresco, veicolato attraverso intrecci strumentali ricercati ma non complessi, favoriti dalla presenza di una performer di grande classe. Le indicazioni stilistiche rimangono tali e quali al passato, riadattate allo scorrere del tempo ma perfettamente coerenti con qualcosa che rimarrà per sempre unico.

(8)

recensione di Alessandro Biancalana e Mauro Roma

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