Il disco simbolo del pop elettronico di marca femminile si ferma qui, all'inizio del 2007. Era molto che non si affacciava un’opera così fresca e vitale, precisamente dalle prime produzioni di AGF, sia sotto suo nome (“Westernization Completed”), sia come componente dei Laub, di cui è peraltro uscito un nuovo disco.
Studentessa di canto classico in città di prestigio come Parigi, Milano e New York, Marit Posch, intorno al 1992 conosce l’ambiente dell’etichetta BPicht Control a Berlino. In particolare, prende contatti stretti con Apparat, Modeselektor e Ellen Allien. Da lì, l’ascolto di quest’ultimi di un demo da lei spedito, e la decisione di pubblicare l’album in questione.
L’insieme delle canzoni rendono all’artista il merito d’aver architettato gli incastri ritmici in maniera sapiente, senza snaturare la sua voce deliziosa e melodica, non certo gelida ed adatta a certi suoni digitali.
”Mope” sembra Miss Kittin meno ossessionante e più solare, con un beat irresistibile e una leggera somiglianza (una chiara ispirazione c'è e si sente) con alcune canzoni di “Filesharing”, dei già citati Laub.
”Right Wrong” si lancia in un techno-pop senza tregua, fra sciabordate assassine e una voce distante, irresistibile.
Apparat, in formato electro, collabora in “Passage To Silence”, un'episodio più cupo e molto lento, una ballata elettronica per la notte.
L'amore per la musica di AGF si sublima con la collaborazione concreta, nella scomposta (com'è giusto che sia per la tedeschina) “1-1+1-1+1-...=1/2”, con alcuni ricami melodici che sanno emozionare a modo loro.
Ed ancora, attimi esaltanti con cui ballare fino allo sfinimento (“Okay Okay”), silenzi per una sperimentazione mai fastidiosa (“Neck Warmth”), spazio ad arpeggi di una chitarra martoriata (“Gestern Morgen”).
Attimi più sperimentali si affacciano con la straniante “Capricorn Saltlick”, cesellata in collaborazione con Zander Vt, un piccolo schizzo di elettronica caldissima, adagiata su una distesa di dolcezze ovattate. L’innesto di un andamento rallentato e disteso aggiunge fascino, lo scorrere delle tracce si tramuta in un finale malinconico e pungente.
La seguente “Sweet Thunderheads”, infatti, si lascia andare in un’oscura sequenza di suoni pessimisti, in cui si innestano perfettamente piccole distrazioni glitch ed alcuni frangenti di grande lavoro sulla voce (vedi, ancora, AGF).
L’episodio più movimentato che mancava al disco si ritrova nella successiva “Things Gone”, in aria di ritmi berlinesi, con un synth pieno di melassa, incapace di muoversi con disinvoltura. L’artista dietro alla composizione è Headkit, che riesce a mettere insieme campionamenti sibilanti e un groove appiccicoso, per un pezzo a conti fatti irresistibile.
La finale “I Made A Home”, conclude il disco con tatto, aggiungendo degli inediti archi e uno xilofono a tratti cristallino.
L’elettronica (astratta o non) applicata al pop non è una novità e questo disco non fa eccezione. Le indubbie qualità vocali, non ancora completamente sfruttate, di Marit, i collaboratori di valore, e una grande attenzione ai particolari, riescono a slegare quest’opera fuori dall’ordinario, riuscendo a convincere a pieno e, perché no, regalare sensazioni dal ritratto offuscato.
Nessun commento:
Posta un commento