lunedì 2 aprile 2007
Future Conditional: "We Don't Just Disappear" (LTM, 2007)
La primavera del 2007 si presenta fortemente caratterizzata dell’intensa attività creativa riconducibile a Piano Magic: non solo il mese di maggio vedrà l’uscita dell’atteso seguito di “Disaffected”, ma nel frattempo altri progetti collaterali alla band vedono la luce. Tra questi, l’imminente esordio solista, a nome Klima, di Angéle David-Guillou, voce femminile degli ultimi due album di Piano Magic e, primo in ordine di tempo, il debutto di Future Conditional, nuovo progetto nel quale Glen Johnson concede libero sfogo, con gusto modernamente retrò, alla sua passione per l’oscuro synth-pop anni 80, le cui tracce già affioravano in alcune sue recenti produzioni. In questa operazione, Johnson è affiancato, oltre che dall’altro componente di Piano Magic Cedric Pin, da vari ospiti illustri (Bobby Wratten dei Trembling Blue Stars, Melanie Pain dei Nouvelle Vague, Dan Matz dei Windsor For The Derby, oltre alla “solita” Angéle David-Guillou) che impreziosiscono basi sintetiche pesantemente reminescenti del lascito di band quali Kraftwerk, New Order e OMD.
Sia ben chiaro da subito, “We Don’t Just Disappear” non è un album consigliabile a quanti di “Disaffected” non hanno apprezzato il pulsare pervasivo del synth in “Deleted Scenes”, poiché proprio le caratteristiche di quel brano vengono qui sviluppate e rimodulate in dieci tracce oscillanti tra profondità sintetica, melodie spettrali appena accennate e atmosfere oniriche, dense di malinconia come nella migliore tradizione delle composizioni di Glen Johnson. La compresenza di tali elementi è evidente fin dai primi brani, che intorno a un persistente beat di drum machine (“Bright Lights & Wandering”) o a giocosi suoni analogici (“Broken Robots”), presentano ricami liquidi e folate di synth avvolgenti, sulle quali il cantato scorre via neutro e imperturbabile. Una forma canzone più definita è riscontrabile nella title-track, ove l’inconfondibile voce di Bobby Wratten disegna una morbida popsong costellata da voci angeliche, stravolta da tastiere danzereccie dal sapore vintage, che poi, scatenate, prendono il sopravvento in “The Switchboard Girl”, perfetta disco-hit anni 80, dalle venature dark-wave, bilanciate soltanto dalla dolcezza eterea della voce di Melanie Pain.
Si accennava ai New Order come principale riferimento stilistico, e la fondatezza di ciò viene dimostrata dalla traccia “Substance Fear”. Un incrocio strambo fra “Blue Monday” e “The Perfect Kiss”, il tutto frullato dalla capacità personalizzante di Glen, che canta come un istrione plastificato, in perfetto stile synth-pop. Oltre al vago ricordo, è qui il caso di parlare quasi di citazione: sì, perché, intorno al centro della traccia, c’è un pattern di batteria elettronica identico all’inizio della già menzionata “Blue Monday”. Oltre a ciò, vi è la vaga assonanza fra il nome della traccia e la monumentale raccolta “Substance”: tributo volontario o casuale coincidenza? “Crying’s What You Need” si avvicina leggermente alle flebili dolcezze melodiche di un pezzo come “I Am The Sub-Librarian”, collocato nel passato della carriera dei Piano Magic, per la precisione in “Low Birth Weight”, datato 1999. Ovviamente, la trasmutazione di una musica che, nel caso originale, risplendeva di magia incantata, un poco sconcerta però, con il passare degli ascolti, diventa, a conti fatti, impossibile rimanere indifferenti al fascino delle esili melodie disegnate dalla voce di Angéle, che declama liriche dense di malinconia su una base liquida e veloce.
“The Volunteer” si lancia poi in astrattismi che sfiorano certe sperimentazioni glitch, chiara evoluzione di un pezzo scorbutico e apparentemente distaccato come “The Journal Of A Disappointed Man”. La differenza che si interpone fra questi due episodi è l’arrangiamento utilizzato: quello che nell’e.p. “Open Cast Heart” era un tocco molto minimale, quasi assente, una poesia silenziosa, un suono a tratti inesistente, qui si presenta ingombrante, ricolmo di synth gommosi, percussioni smembrate e schizofrenie di ogni tipo, orchestrate da una mano sapiente, capace di rendere coerente, e mai stucchevole, un insieme così corposo.
“The Last Engineer” è probabilmente ciò che Glen ha sempre voluto realizzare da quando ha pensato questo progetto. Campionamenti urbani si fiondano in brandelli di bellezza oscura, un suono ciclico rimbalza con ossessione a tratti insistente, la voce inizia a sputare fuori parole, appena dopo c’è l’arrivo di una batteria elettronica precisa e tagliente. Il finale, con la sua sensualità scomposta, marcia e senza senso, si candida come la punta di diamante del disco, preludendo alla strumentale, straniante “Typos”, ove dominano voci “vocoderate”, melodie astrali, singulti ritmici e frangenti ripieni di rumore, che, a tratti, entrano di diritto in un noise sconnesso, quasi respingente. Non sappiano da che parte prenderlo, questo pezzo, visto che sguscia con furbizia da ogni lato si cerchi di carpirlo. È o non è, quella appena enunciata, la definizione di una composizione geniale? Non avendo sotto mano il manuale che lo può ricordare, si va a memoria, e la risposta è un chiaro ”sì!”.
Dopo due episodi così marcati, e in coincidenza con l’ultima canzone, si torna su canoni più collaudati, con “Your Love Leaves Me Colder”, intrisa da un pessimismo e da una rassegnazione evidenti già ad una rapida lettura del titolo, un po’ come succedeva con l’apocalittica “(Music Won’t Save From Anything But) Silence”: sempre Piano Magic, sempre nel passato, precisamente nel 2002.
Se qualcuno aveva il minimo dubbio riguardo lo spessore di questo artista, la presente opera, che ricopre il lato più elettronico della sua genialità, rimarca con insistenza la sua candidatura. A cosa, voi direte? Glen Johnson si colloca di diritto fra i più fantasiosi, spiazzanti compositori dell’ultimo decennio di musica indipendente e non. Capace di mettere in piedi opere strabilianti con strumenti effimeri, in grado di emozionare con le sue trovate melodiche inusuali, insolito a tal punto da sorprenderci ad ogni passo della sua luminosa carriera poiché dotato di una sensibilità e un’autenticità tali da avvicinare al synth-pop più spinto persino coloro ai quali questo genere risulta solitamente indigesto.
(7)
recensione di Alessandro Biancalana e Raffaello Russo
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