domenica 22 aprile 2007
Kristin Hersh: "Learn To Sing Like A Star" (Yep Roc, 2007)
Imparare a cantare come una stella. Da una affermazione della stessa Kristin (cfr. intervista), il titolo del suo ultimo album solista è uno scherzo. Però vogliamo credere che qualcosa di vero c’è.
In passato, fra la carriera con le storiche Throwing Muses, la nuova formazione 50 Foot Wave, l’appellativo di stella se l’era meritato ampiamente. Ma non una stella che splendeva di successo. Una stella che pulsava nel cielo da sola, con qualche sussulto fugace, attraversando il cielo senza prendere la scena rispetto al contorno che le sfilava attorno.Il precedente disco, “The Grotto”, si era distinto per una ricerca acustica di rara profondità, regalando momenti di emozione oscura, quasi sofferente. Canzoni monche ed essenziali, minuscole per come brillano solitarie, ingombranti per quanto riguarda le sensazioni che sprigionano. Ad oggi, sono passati più di 4 anni. Le accomodanti atmosfere plumbee e disossate del passato lasciano il posto a canzoni più corpose, in cui la strumentazione si fa più nutrita, nonostante lei suoni tutto da sola, ad eccezione di alcuni aiuti esterni. La batteria è affidata a David Narciso (già nei Throwing Muses), il cello e il violino, rispettivamente, a Martin e Kimberlee McCarrick.
La partenza (“In Shock”) è un assalto elettrico, un pungo diretto allo stomaco, in cui la voce prende corpo e si slancia con il passare dei secondi, parole pesanti come macigni. L’apporto del violino è stridente, e spesso sfregia un ritmo già di per sé tutt’altro che docile, esplodendo in un finale degno dei migliori Throwing Muses. Un suono che mai in passato, nelle opere a suo nome, avevamo potuto apprezzare, così abituati a una voce appena udibile e una chitarra suonata con perizia chirurgica. Ma la sorpresa si fa stupore nel volgere di qualche secondo, quando la seconda canzone prende il via, intitolata “Nerve Endings”. Una splendida melodia di violoncello circonda le trame timbriche leggermente più posate, la chitarra risuona con ferma gentilezza, il flusso si snoda solitario, vivace e passivo. Ancora più aggressivo l’episodio seguente (“Day Glow”), in cui elementi classici (questa volta, s’aggiunge anche il violino) si incastrano perfettamente con le chitarre stonate e forzate. Il tono della voce di Kristin si alza di tono, arrivando a livelli di forza fugace, sfuggente e illusoria.
All’interno del disco, i brani veri e propri vengono spezzati, quasi stoppati da alcuni piccoli accordi stracciati e scricchiolanti, una pausa fra un sussulto e altro. “Christian Hearse” ne è un esempio edificante, con i suoi 29 secondi desolanti. Il piglio da ballata cruda e diretta s’adatta con gentilezza ed esprime sofferenze sopite (“Ice”), la sostanziale differenza fra la paura comune e la paura che nasce dal desiderio si materializza nell’immediatezza di “Under The Gun”. Scintille di piano sfuggono circensi nell’aria (“Piano 1”), il riverbero ammassato di una chitarra tuonante accompagnata da una sibilo che pare una voce (“Sugar Baby”), anime fatte di colori brillanti, di una gioia rara, vengono messe insieme nella traccia più altalenante del disco, fra frangenti più misteriosi (ancora una volta, il violino è fondamentale) e decise sterzate su tendenze pop (“Peggy Lee”).
“Vertigo” si accascia davanti alla dolcezza di un sogno raccontato da alcuni violini e una chitarra mal accordata, con raffinatezza ed eleganza classica. Una fotografia affascinante e consumata, i ricordi che si accumulano, con un fare ingombrante, le parole scansate e mai dette ora si liberano, sfogandosi in una canzone che erode l’animo. Avvicinandosi alla conclusione, nelle ultime tracce, si può ritrovare un ritmo incessante, in cui la batteria prende spazio come mai prima, nel passaggio più immediato e movimentato (“Winter”), nervosi movimenti chitarristici si amalgamo con strana intimità, non troppo distanti dal rumore (“Wild Vanilla”).
Il finale, represso in un andamento abissale, implode in una canzone pungente, cristallina; pare una brezza con tutti i suoi minuscoli rumori, recitata con distacco signorile. Dal momento in cui termina pure “The Thin Man”, ci si sforza a tal punto da voler scacciare il dolore da dentro. E’ avvenuto un cambiamento dentro di noi, è accaduto qualcosa. Indecisi fra una tenue malinconia e una felicità assopita, prendiamo atto delle canzoni che ci sono appena passate nella mente, la cui bellezza ci cade addosso impetuosa come una valanga.
(7,5)
recensione di Alessandro Biancalana
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