Suoni Alieni
giovedì 1 novembre 2018
Isan - Intervista
A corollario della monografia in cui ripecorriamo tutta la carriera del duo elettronico inglese, abbiamo raggiunto Antony Ryan e Robin Saville per una chiacchierata in cui parliamo di collaborazioni a distanza, musica elettronica e alcune curiosità.Salve ragazzi, era da molto tempo che pensavo di scrivere della vostra carriera e sono davvero contento di averlo fatto finalmente. Come state? Siete soddisfatti di come sta andando "Glass Bird Movement"?R: Bene grazie, la vita mi sta trattando bene. Devo dire di sì, siamo piuttosto contenti di "Glass Bird Movement". Quando cominciammo come Isan, per essere contenti ci bastava solo riuscire a pubblicare qualcosa. Non dico che avessimo aspettative troppo basse, ma ogni volta che usciva un nuovo disco ci sentivamo privilegiati al pensiero che là fuori ci fossero persone interessate in ciò che facciamo. Siamo gente modesta.
A: Saluti dalla Danimarca! Tutto bene, grazie, mi godo un’estate incredibile… per una volta non bisogna andare a sud per trovare un po’ di sole, specialmente se come me abiti vicino al mare. Come Robin, sono anche io molto contento per come è venuto GBM e per l’ottima accoglienza che ha ricevuto… scoprire che alla gente ancora piace quello facciamo dopo poco più di 20 anni è davvero speciale.
Quest’anno è infatti il ventennale dall’inizio della vostra carriera ("Beautronics" uscì nel 1998). Raccontateci dei vostri inizi e come è nato il vostro progetto.A: A dire il vero per primo pubblicammo il pezzo "Eusa’s Head" sull’Ep "Splintered Roots" uscito su Fragments (un’etichetta parallela di Howie B.), a cui seguirono poi una manciata di altri singoli, ma sì, "Beautronics" fu il nostro primo album completo. Oggi dopo vent’anni stiamo lavorando con degli studenti dell’università di Hong Kong (insieme al nostro amico Max Hattler) per realizzare dei video dai pezzi di quell'album, è stato davvero bello vedere queste canzoni ricevere nuova vita, come per esempio l'animazione per "Iam Twisq".
Ad ogni modo, tornando ai nostri inizi… Avviamo ISAN perché sia io che Robin lavoravamo insieme su un progetto techno chiamato Rephlex, che venne accolto piuttosto male. Poi però Robin si trasferì in un’altra zona del paese. ISAN nacque davvero come mezzo per collaborare a distanza, per continuare comunque a lavorare insieme, scambiandoci cassette via posta! Mandammo in giro un paio di raccolte di demo, e fummo davvero fortunati a venire contattati e scelti da Fragments. Da allora siamo semplicemente cresciuti. Abbiamo lavorato più o meno allo stesso modo sin da allora (naturalmente aggiornandoci allo scambio di file su internet e condividendo i progetti DAW), ma ancora oggi in pratica ci troviamo a suonare insieme nella stessa stanza soltanto quando ci esibiamo live.
Credo non sia facile riuscire a trovare la giusta intesa per comporre vivendo in città diverse. Mi sono sempre domandato come sia possibile riuscirci. Fate parte di qualche scena musicale nelle città in cui vivete attualmente? Oltre alla vostra carriera nella band, svolgete altri lavori sempre in ambito musicale?R: Non ci siamo mai davvero soffermati a pensare se il nostro metodo di lavoro fosse giusto o sbagliato, si trattava in sostanza dell’unico modo possibile per noi all’epoca. A dire il vero, pensandoci adesso, credo che siamo stati in grado di mettere insieme il meglio di entrambi i mondi. Posso mettermi a lavorare come e quanto voglio su qualche traccia senza dovermi preoccupare che Antony ascolti quello che faccio, quindi è un po’ come avere i vantaggi di lavorare da solo e poi di condividere e ricevere nuovi input e suggerimenti dal tuo partner creativo. Non ho altri lavori nella musica e, in effetti, non sono in contatto con nessun altro musicista locale. Trovo che il tempo passato lontano dallo studio sia ugualmente utile a nutrire il processo creativo.
A: Credo che la distanza in realtà sia di grande aiuto alla collaborazione. Ognuno di noi ha il tempo di ascoltare, assorbire, capire davvero cosa sta facendo l’altro. Non c’è bisogno di mettersi a discutere sul momento, o di dare giudizi immediati che potrebbero andare a ostruire il flusso creativo se lavorassimo nello stesso momento in studio insieme. La distanza rende anche più semplice prendere “bene” le critiche se qualcosa non funziona, e per quanto possa ricordarmi, non c’è mai stato tra di noi nessun vero disaccordo. Durante gli anni abbiamo sviluppato una sorta di istinto per ciò che l’altro stava creando (anche se non sempre capisco “come” Robin lavora, il che è gran parte del divertimento di lavorare con lui), al punto che possiamo ritrovarci insieme dopo molti mesi per suonare dal vivo su un palco qualche nuovo pezzo che non avevamo nemmeno mai provato insieme prima. Il mio altro lavoro nell’industria musicale è come ingegnere audio freelance, mi occupo di masterizzazione (RedRedPaw Mastering). Mi piace considerarlo a sua volta un lavoro creativo perché spesso devo trovare soluzioni “musicali” al progetto su cui sto lavorando, adoro cercare di immettere un po’ di nuove idee nelle tracce che ho sotto mano. Naturalmente il lavoro consiste in un sacco di roba più tecnica e meno creativa, ma trovo molto interessante la tecnologia che c’è dietro. È un lavoro che mi piace molto e mi dà molta soddisfazione quando l’artista riceve indietro i master e apprezza il risultato. L’unico piccolo svantaggio è che a volte devo ascoltare ogni settimana davvero troppa musica… Ho lavorato su più di 500 progetti, vale a dire migliaia e migliaia di tracce, e per quanto lavoro di solito su musica che mi piace, credo che alla lunga la cosa possa avere un impatto sul processo creativo.
Ho letto spesso risposte simili alla vostra in altre interviste, era una mia curiosità e devo dire che ne è venuta fuori da parte vostra un'analisi molto interessante. Tornando alla vostra musica, trovo si tratti di una fusione perfetta di vari stili, soprattutto ambient, Idm e electro, tra gli altri. Come avete fatto a raggiungere da subito dei risultati così efficaci? Ascoltando "Clockwork Menagerie", una collezione che include molti dei vostri lavori degli inizi, la cosa fa davvero impressione.R: Molto gentile da parte tua. Suppongo ci siano state diverse influenze che si sono mescolate tutte allo stesso tempo, più la nostra propensione a fare musica con strumenti elettronici ma con uno spirito “indie”. Tutto è diventato più chiaro nel corso degli anni comunque, nel senso che abbiamo definito un suono tutto nostro ed è per noi praticamente inevitabile partire da certe influenze.
A: A dire il vero a me un po’ sorprende realizzare che ancora riusciamo ad “avere il nostro suono”! Robin e io condividiamo una sensibilità particolare che sicuramente era lì sin dall’inizio, ma in qualche modo non ne abbiamo mai parlato apertamente. A volte sappiamo come descriverla a parole, ad esempio quando andiamo a rileggere i nostri appunti per preparare nuovi pezzi live, altre no; in ogni caso, so quasi sempre a cosa darà vita Robin e non devo più stare a preoccuparmi del suo lavoro. Si tratta dunque di fidarci dei nostri istinti e delle nostre sensibilità senza parlarne troppo.
Ci sono degli artisti o dei dischi in particolare che vi hanno ispirato? Avete altre fonti di ispirazione, a parte la musica? Di solito cosa ascoltate?R: Le influenze sono sempre un argomento interessante, è possibile che ascoltando certa musica mi capiti di notare delle idee interessanti e di pensare che sarebbe bello cercare di ricrearle, sicuro del fatto che ogni mio tentativo risulterà in qualcosa di diverso dall’originale, a causa di differenze in gusti, strumentazione, abilità tecnica e così via… Altre volte invece può essere unicamente il mood generale di un brano a farmi venir voglia di creare qualcosa. Ascolto molta musica di stampo ambientale e diciamo anche astratto, ma continuo anche ad ascoltare la radio, mi piace la musica indiana (quella classica, molto libera e estesa) e ancora più spesso mi impongo di non ascoltare nulla. Sono un gran fan della musica di Emily Sprague e di Kaitlyn Aurelia Smith al momento, stanno creando cose davvero magiche.
A: Per me una pietra miliare intoccabile è “The Pearl” di Harold Budd e Brian Eno, è uno dei pochissimi album che non mi stanco mai di riascoltare. Le mie costanti ispirazioni, quelle che mi girano più per la testa quando creo nuova musica si trovano a metà tra quel tipo di ambient e le band shoegaze anni 90, specialmente My Bloody Valentine e Slowdive. Mi interessa da tempo anche il concetto della musica generativa (si torna sempre a Brian Eno), l’idea di usare software generativi può portare in direzioni e ispirazioni sempre nuove, una cosa che adoro. Il mio lavoro come ingegnere del suono mi porta ad ascoltare musica praticamente tutto il giorno, dandomi la possibilità di trarre nuove ispirazioni da ciò che sento soprattutto perché ho a che fare con generi davvero molto diversi. A parte questo, comunque, di solito non scelgo personalmente cosa ascoltare, preferisco farmi consigliare da altri, inclusi i miei dj preferiti in radio.
Ora che ci penso, mi spiegate che storia c’è dietro l’acronimo ISAN?A: Hahahaha... beh, la ragione per cui abbiamo scelto di allontarci da tutte le lettere maiuscole di “I.S.A.N.” era che così facendo non avremmo più dovuto spiegarlo! Ad ogni modo, quando iniziammo a fare musica insieme scambiandoci nastri per posta, pensammo fosse un giochino divertente modificare la sigla “I.S.D.N.” (Integrated Services Digital Network), che all’epoca era la tecnologia più avanzata per la connessione dati. Siamo all’inizio degli anni 90… pensammo che sostituire la “D” di “Digital” con la “A” di “Analogue” rappresentasse bene la musica che stavamo creando, e perciò decidemmo che era un buon nome per il nostro progetto. Oggi comunque ci va bene anche essere solo “Isan”.
Mi aspettavo che avresti risposto così! Ma di sicuro molti dei nostri lettori non conosceranno il significato del vostro monicker, malgrado siate sulle scene già da tanto tempo. Poi la spiegazione è anche un perfetto corollario per cercare di capire meglio la vostra musica. Mi sbaglio?A: Sì, devo dire che è sempre carino fornire qualche background, tornando anche a quanto è fondamentale per noi lavorare separatamente, cosa in effetti rappresentata anche nel nostro nome in modo significativo. L’idea di allontanarci dall’acronimo deriva anche parzialmente dal fatto che c’era gente che iniziava a pronunciarlo “eye-san” o “issan” e non “I S A N”, e abbiamo pensato fosse meglio rendere le cose più semplici.
Uno degli aspetti che mi ha sempre attratto maggiormente della vostra opera è la parte grafica. Secondo me, le copertine di "Lucky Cat" o di "Clockwork Menagerie" sono parte integrante della vostra arte. Ho fatto qualche ricerca e ho scoperto che i vostri artwork li ha creati sempre Jan Kruse. Avete avuto anche voi parte nella loro realizzazione o avete sempre delegato l’artista o l’etichetta?R: Nei primi tempi le nostre copertine le realizzava di solito il nostro amico Carl Harris. Lui e Antony sono amici di infanzia e con lui condividiamo un senso estetico molto simile, così volemmo che l’artwork avesse quel senso di “fatto a mano” e non troppo definito che aveva anche la nostra musica. Credo che la parte visiva completasse a meraviglia quella musicale. Quando poi iniziammo a pubblicare per Morr Music fummo messi in contatto con Jan Kruse, che si occupa del design generale della label. Per Thomas Morr era molto importante dare continuità di stile in ogni pubblicazione della sua etichetta. Discutiamo sempre l’artwork insieme a Jan, e più di recente con Julia Guther, e in genere siamo coinvolti nel processo dall’inizio alla fine. Siamo davvero fortunati a poter lavorare con artisti così talentuosi e professionali.
Sì, penso si sia mantenuto sempre il giusto collegamento con il vostro lavoro, anche con i diversi artisti. Parlando della collaborazione con Thomas Morr, insieme a vari altri artisti (Lali Puna, Styrofoam, Bernard Fleischmann), vi ho sempre visti come il vero simbolo del suono Morr Music. Vi siete mai sentiti parte di una scena? Come è iniziata la vostra collaborazione con la storica label berlinese?R: Devo dire di non essermi mai sentito parte di una scena. Fu davvero bello ricevere la prima email di Thomas Morr e iniziare a lavorare con lui. A colpirci fu anche il fatto che viveva con Markus Acher. Da lì in poi il resto è storia, direi. Abbiamo incontrato diversi altri musicisti che operano in un’area simile alla nostra, ma non ho mai collaborato con nessun altro e cerco sempre di distinguere il nostro suono da quello dei nostri (eccellenti) compagni di etichetta.
A: In un certo senso più che una scena, si tratta di una famiglia allargata. Suoniamo spesso negli stessi show, e ci divertiamo molto. Andare ai festival e incontrare gli altri gruppi Morr è un po’ come incontrare ogni tanto i tuoi cugini a un matrimonio.
Sapevate che il regista italiano Paolo Sorrentino (e il suo collaboratore musicale Pasquale Catalano) ha usato spesso vostre canzoni nei suoi film? Li avete visti? Vi sono piaciuti? Credo che il suo stile così sopra le righe crei un equilibrio perfetto con molte vostre composizioni.R: Sì, e anche in questo caso è un gran privilegio poter conoscere un artista così talentuoso. Il suo primo lavoro di cui venimmo a conoscenza fu “Le conseguenze dell'amore” in cui compariva la nostra “Remegio”, e da allora è uno dei miei film preferiti, quindi sono davvero molto onorato! Ho seguito con interesse la sua carriera da allora, fino a trovarci nuovamente inclusi nella colonna sonora di “The Young Pope”. Sarebbe bello incontrarlo di persona e ringraziarlo per aver incluso il nostro lavoro nei suoi capolavori.
Non dimentichiamo anche “Cathart” nel suo esordio “L’amico di famiglia”! Per finire, diteci, quali sono i vostri piani per il futuro? State lavorando a del nuovo materiale? Oppure tornerete a lavorare ciascuno per conto proprio per un po’? Avete nei piani un vero tour o comunque dei nuovi concerti?A: Sì, stiamo lavorando a un nuovo album, ma non abbiamo ancora ben definito il cammino. Abbiamo completato un po’ di tracce e stiamo lavorando ad altre ancora, e continueremo a farlo finché sentiremo di avere una sorta di massa critica di tracce che co-abitano nello stesso spazio sonoro, quello che ancora chiamiamo “album”. Mi sembra che il futuro della distribuzione musicale, e dell’ascolto, si basi sempre più su artisti che pubblicano col contagocce e fan che si creano le loro playlist. Il che è un bene, intendiamoci, anche io di sicuro ascolto musica allo stesso modo. Sicuramente se avessimo voluto farlo, avremmo già fornito con quel contagocce almeno una dozzina di nuove tracce! Ma almeno per il momento preferiamo attenerci al vecchio stile e tirar su un album completo dai frammenti che stiamo creando, lasciando da parte le tracce che avanzeranno magari per qualche occasione speciale.
R: Sono d’accordo, a volte è facile concentrarsi di più sul pubblicare qualsiasi cosa hai sotto mano in un dato momento, piuttosto che cesellarla fino a sentire che hai prodotto la migliore musica possibile. Mi sembra più importante fare questo, e non stare a preoccuparmi di quando pubblicare la musica. A volte una traccia richiede mesi di lavoro perché vada d’accordo con gli altri brani, e ci sembra anche di star lavorando sempre più lentamente man mano che passano gli anni. Ma alla fine, credo sia importante produrre la musica che hai in mente e che vuoi ascoltare, e per me questo ancora significa creare un album completo, ed è quello che faremo.
Traduzione curata da Mauro Roma
Isan
C’è stato un tempo in cui l’elettronica in musica era un’etichetta ben definita. Tempi in cui artisti come Boards Of Canada
e tutto il giro intorno a etichette come n5md, Type Records, Morr Music
e Plug Research dominavano le copertine delle riviste di settore, anni
in cui un pattern di drum machine sovrapposto a un
accordo di chitarra o una partitura ambient avevano un’identità
universale. Erano suoni da cui trapelavano, oltre alla malinconia,
l’angoscia e il senso di smarrimento del nuovo millennio che stava per
arrivare, l’incertezza e la totale disillusione per il futuro. Con
modalità, esperienze, alterne fortune ed esiti differenti, da quel
periodo storico sono esplosi e scaturiti suoni eccitanti, emotivi ed
emozionanti.
In questa storia che stiamo per raccontare i protagonisti sono due e rientrano a pieno titolo in questa rivoluzione musicale esplosa sul finire degli anni 90. Gli inglesi Antony Ryan e Robin Saville fin da subito hanno dimostrato di possedere una magia in grado di distinguerli da molta musica presente sul mercato in quel periodo. Nelle loro composizioni si percepisce una genuinità parente stretta della malinconia, un piacevole senso di smarrimento unito a un riconoscibilissimo gusto per la melodia e al senso del ritmo. Trame semplici, frastagliate e stratificate, mai eccedenti o casuali, intorpidite e riflessive. Ed è forse per questi e per altri mille motivi che il pluripremiato regista italiano Paolo Sorrentino - con il suo sodale Pasquale Catalano - ha spesso scelto loro pezzi nelle colonne sonore dei suoi film, ultimo “Fueled” - contenuto in Lucky Cat - proveniente dalla serie tv “The Young Pope”.
Il progetto inizia il suo percorso con uscite a tiratura ridotta come 7”, split, singoli ed Ep, raccolte fortunatamente in buona parte nella compilation Clockwork Menagerie. Dopo due split pubblicati a stretto giro (con Tin Foil Star aka Styrofoam e Metrotone), arrivano due singoli intitolati "Dampen" e "Parochi/A Gentle Man", entrambi del 1999. A tratti perfino più maturi e strutturati dei brani presenti nell’album d’esordio, le due composizioni – algide e poco melodiche - dimostrano una maturità in tema di cesellatura timbrico ritmica davvero notevole, sublimata poi nella flessuosa “Wistful Song For A Soaring Gull” – contenuta in Dampen – forse uno dei primi esempi veramente compiuti della loro formula sonora.
Il primo album sulla lunga distanza arriva nel 1998 con Beautronics, pubblicato sulla sussidiaria della Rough Trade Tugboat Records – fondata dal frontman dei Piano Magic Glen Johnson - etichetta nel cui roster si annoverano nomi di grande rilievo come Low, mùm e Disco Inferno. L’opera si snoda su sedici tracce ed è strutturata con brani principali e piccoli sketch della durata di circa un minuto con il suffisso “Tint”.
Nonostante vi siano germi di genialità (“Sublimation” è davvero magnifica) il disco è troppo prolisso e decisamente frammentario. Le prime sperimentazioni Idm danno risultati positivi senza strafare (l’iniziale “Vosil”, il bel quadretto bucolico di “Paintchart”), mentre gli intermezzi sono vere e proprie bozze (risaltano in particolare “Tint3” e “Tint4”), altri episodi sono poco efficaci o embrionali (“Skeek”, “Iam Twisq”).
Beautronics dà l’idea di essere di un vero e proprio “primo tentativo”, un buffo, quasi maldestro e ingenuo, esordio, comunque fondamentale per capire da dove sono partiti Antony e Robin. Nel 2013 Morr Music ristamperà l’album con l’aggiunta di quattro nuove tracce (fra queste risalta “Spoonery”) e l’eliminazione di “Sublimation”.
L’anno successivo la band cambia ancora etichetta e approda alla Liquefaction Empire. In Digitalis - a tutti gli effetti un mini-album - il suono continua a prendere forma già dall’iniziale “Zip Left, Zip Right”, in cui si scorgono strutture più compiute. Assalti un pochino più abrasivi (“‘Bean Sea” ricorda gli Autechre più incisivi) lasciano spesso il posto a tiepide mini-suite (“M.Mouse”, “Falling”), mentre composizioni un pelo più strutturate lasciano adito a qualche curiosità ulteriore (“Dilly”, “Reno”). Conclude la bellissima “Quink Like Ink”, con sample concreti a dare vivacità compositiva.
In un contesto di forte creatività, lo stile “Isan” viene a farsi più definito con Salamander, pubblicato pochi mesi dopo Digitalis e primo approdo alla famosa etichetta berlinese Morr Music poi diventata per il duo una vera “casa”. In contemporanea, quell’anno prese corpo una tendenza nel mondo della musica elettronica il cui culmine si raggiunse sia con la pubblicazione di “Music Has The Right To Children” (in realtà rilasciato qualche mese prima, nel 1998) dei Boards Of Canada (carriera poi esplosa con “Geodaddi” del 2002) e la contemporanea rilevanza dei capolavori degli Autechre di qualche anno addietro (nel 1999 in realtà fu pubblicato “LP 5”). L’elettronica d’ascolto - sia esso più colto o “pop” - stava subendo fortissimi rivoluzioni e il materiale prodotto, complice un’eccitante frenesia e urgenza produttiva, era tantissimo. E fu lì che il sodalizio dei Nostri riuscì a inserirsi, con un album in cui si scorgevano chiari riferimenti alla tanto chiacchierata Idm (acronimo controverso ma tutto sommato comprensibile), tastiere prossime all’ambient, oltre all’incedere di certa electro che di lì a poco avrebbe spopolato in chiavi decisamente mutevoli.
Iniziando l’ascolto ci imbattiamo in “Peg”: fra placidi tappeti di tastiere e innumerevoli strati di ritmi sintetici, si inseriscono folate di disconnessioni e vari glitch, componendo la sonorizzazione educata per un software in malfunzionamento. L’ascolto prosegue con gentili concessioni al lato più ambient (“Proager”, “Lid Former”, “Twentyfive Thirtyone”) mentre altre volte il ritmo si fa più presente con risultati davvero notevoli (la title track, la scomposta “Happy Pet In A Car”, quasi in territorio glitch). Fra le tracce più significative troviamo “Still. Blue”, che fra delicatissimi tocchi di drum machine, campionamenti vocali e sapienti pennellate di tastiera addormenta l’atmosfera, rendendola flebile e ovattata.
Sulle stesse coordinate si attestano altre gemme (“Clipper”, le leggermente screziate “Snot” e “Effekl”), mentre “Braille Foundry”, in collaborazione con la band Charles Atlas - nella cui formazione si trova anche un ex-componente dei Piano Magic - incanta con un bel sottofondo di chitarra acustica.
Solo a tratti capace di tenere testa ai dischi successivi, Salamander offre un consistente antipasto poco prima del definitivo compimento artistico del progetto Isan.
Il momento arriva nel 2001 con Lucky Cat e coincide con il picco d’ispirazione e di pubblico, probabilmente allineato anche con il periodo di maggior splendore dell’etichetta di Thomas Morr. Questo album si stampa nella cronologia dell’elettronica moderna per il suo tocco cristallino, per un modo gentile ed educato di entrare nelle orecchie dell’ascoltatore.
La partenza è subito un colpo difficile da metabolizzare, infatti “Cutlery Favours” è a pieno diritto uno dei brani più belli mai pubblicati dal duo. La grana grossa del synth dell’incipit viene dopo pochi secondi invasa da un effluvio di bordate soniche e da uno sfarfallio che sa tanto di magia quanto di mestizia, in una sinfonia che per cinque minuti lascia letteralmente steso l’ascoltatore.
I toni si ammorbidiscono con la filastrocca “Table Of Deciduous Species”, tiepidamente screziata da un ritmo scomposto e un da filo di sintetizzatore, sottile come le trame di una ragnatela. Ed è quel ritmo che solca la bellissima e già citata “Fueled” - conclusa con un intreccio di suoni che paiono i lamenti di una stella - poi seguita da piccoli capolavori come “Recently In The Sahara” e “What This Button Did” (un ipnotizzante susseguirsi di sbuffi e squilli sintetici).
L’album non perde un’oncia di efficacia e incanto nemmeno nella parte centrale, alternando sognanti nenie cibernetiche (“Anteaters Eat Ants”, “Kittenplan A”) ad altri episodi più propriamente Idm (gli strati ritmici di “Read Again” e “Scraph”). Spicca in questo frangente “Cathart” (già presente ne “L’amico di famiglia”) con il suo meraviglioso susseguirsi di melodie e singulti, brano architettato in modo pressoché perfetto e ad alto tasso emotivo.
L’album sfuma fra rarefazioni sabbiose e crepuscolari (“Caddis”, “You Can Use Bambolo As A Ruler”) lasciando una non bene definita sensazione agrodolce. Quest’opera rimarrà uno dei più significativi esempi dell’espressività della musica elettronica, capace con i soli suoni di smuovere sensazioni inimmaginabili.
A stretto giro con l’uscita di Lucky Cat troviamo un singolo e un Ep di inediti mai più ripescati. Exquisite Honeyed Tart – su Static Caravan – e Salle d’Isan su Morr fanno insieme, almeno dal punto di vista numerico, praticamente un altro album. Se nel primo troviamo prima una cupezza fuori dallo standard Isan (la title track), per poi seguire con una giocosità che non avrebbe sfigurato in alcun album (“Hugs Now, No Kisses (Hugo’s Sleep)”), nel secondo siamo di fronte a un vero e proprio mini-album. Salle d’Isan contiene infatti diverse gemme meritevoli di essere riscoperte. Se “Days & Later” spinge la cassa ai limiti di un battito techno gentile, “Bubbles8” e “Disruptive Elephant” sono candite da una dolcezza di fondo ormai marchio distintivo. “Fullen Brimm” fa sfoggio di un synth dalla grana grossa e di un’atmosfera futuristica, mentre “Serene Driver” è una ninnananna stellare, una delle migliori tracce mai pubblicate dal duo.
Meno di un anno dopo, viene pubblicato un altro tassello fondamentale nel percorso artistico del duo. Nel 2002 la fidata Morr rilascia la raccolta Clockwork Menagerie, composta da brani precedentemente apparsi in Ep o singoli di difficile reperibilità. Qui si può ascoltare in maniera sparsa tutta la creatività e il genio che risiede nell’arte del sodalizio artistico della formazione inglese, se non la più alta sublimazione della musica prodotta fino a quel momento. Sarà difficile resistere a una miriade di stimoli sonori, a partire dall’ammaliante incedere di “Betty’s Lament”, senza contare struggenti malinconie pastorali (“Calf”, “Cubillo”), distorsioni elettriche (“Comb”, “Autolung”) e l’ipnotico e angosciante andirivieni di voci della magnifica “Remegio” (utilizzata ancora da Sorrentino nel film “Le conseguenze dell’amore”).
Facendo scorrere le tracce, ci si rende conto di quanto sia ampio lo spettro di influenze a cui i due musicisti hanno attinto nella loro carriera: un vero appassionato, infatti, scorgerà le incursioni nella techno - seppur sempre mitigate dalla solita compostezza di fondo - di episodi come “Damil 85”, splendidamente impreziosita da un campionamento vocale. Il lato più “ambient” e diluito mostra un aspetto più riflessivo (“Eeriel”, “Ulim”, “Schema”) ma al contempo legato alle angosce della kosmische musik (“Titled, Not Tithed”).
Nei restanti brani trovano posto suoni electro, siano essi declinati su coordinate più acide (“Phoeb”, “Schema”), giocose (la divertente “Rron”) o distese (il bel tiro di “Eusa’s Head”). Siamo di fronte a una sorta di summa di stili, tendenze e ondate elettroniche, che copre più di quindici anni di musica, il tutto chiaramente filtrato dall’inconfondibile sensibilità di Robin e Antony. L’uscita è impreziosita da un artwork di prim’ordine, curato come sempre da Jan Kruse, l’autore di quasi tutte le grafiche delle uscite su Morr Music degli Isan.
Dimenticati nel marasma delle pubblicazioni discografiche, si collocano sempre nel 2002 due mini-split con Lali Puna (pubblicato dalla bolognese Unhip Records) e Phonophani. Nel primo disco il brano degli Isan non aggiunge nulla di significativo, mentre nel caso di “My Soaring Heart” il tiepido lamento di una voce in sottofondo mette insieme atmosfere piacevoli.
A due anni di distanza arriva nel 2004 il quarto album di studio Meet Next Life, che introduce nuovi elementi rispetto al già cospicuo campionario sonoro fin qui proposto. In quegli anni erano di grande richiamo suoni folktronici, e band come The Books e Tunng campeggiavano sulle copertine delle riviste musicali e nei principali festival. Gli Isan con questa loro prova si accodano a quell’ondata con l’introduzione di alcuni strumenti a corredo dell’elettronica. Come non scorgere elementi di folktronica nell’incedere bucolico di “Birds Over Barges”? E come rimanere indifferenti al tintinnio degli xilofoni di “The Race To Be First Home”?
L'elemento positivo è che tale deviazione dallo stile originario (il basso di “Sat 73” è un’altra divagazione interessante) è perfettamente funzionale e comunque solo parziale. Infatti con tracce come “First Date - Jumble Sale”, “One Man Abandon” o “Gurnard” sarà il puro stile-Isan a inondare le vostre orecchie con carezzevoli fiocchi di bit e ritmi al rallentatore.
Ad alzare il tiro e dare una sferzata di tensione viene in soccorso la stratificata “Gunnera”, che grazie a un nutrito intreccio di layer sonori soddisfa pienamente, mentre l’autentico electro-pop di “Iron Eyes” sorprende per come i musicisti riescano a padroneggiare ambiti a cui non sono abituati. Da metà in poi, il disco prende quota con le dolci pulsazioni di “Snowdrops And Phlox” e “Willory”, due vere e proprie sonorizzazioni per foreste chiaroscurali. La parte conclusiva si attesta su atmosfere piacevoli ma non sorprendenti (molto buona la title track, un po’ sottotono “Slow Bulb Slippage”).
Nonostante siamo pur sempre al cospetto di un’uscita pienamente sufficiente, lo scarto fra Meet Next Life e un vero classico come Lucky Cat si avverte, c’è meno empatia o come si suol dire “urgenza espressiva”, anche se non mancano buone canzoni o momenti da ricordare. Possiamo parlare a tutti gli effetti di un classico album interlocutorio.
A margine dell’esperienza di Meet Next Life – in cui per la prima volta viene sperimentato l’uso degli strumenti acustici - meritano una citazione i due album solisti di Robin Saville Peasgood Nonsuch del 2008 pubblicato dalla Static Caravan e Public Flowers rilasciato da Second Language cinque anni dopo nel 2013. Lo spostamento verso territori folktronici, addirittura con alcuni accenni alla toy-tronica degli Psapp, è ancora più marcato e la presenza di alcune suite richiamanti atmosfere modern-classical mostra la vastità dell’ispirazione dell’artista inglese. Soprattutto il secondo album ha una grande capacità di commistionare sensibilità acustica e trame elettroniche. Sono due album da recuperare, vista anche la scarsa visibilità che hanno ricevuto.
Giunto nel 2006, in un periodo in cui l’ondata indietronica stava subendo un calo di vendite e ispirazione, Plans Drawn In Pencil cerca di trovare nuove vie dopo le incertezze della precedente uscita. L’unico modo per uscire da tale stallo era il ritorno alle origini di una composizione totalmente elettronica che ha sempre contraddistinto il duo inglese. Il disco prende il largo sin da subito con un trittico davvero notevole, composto in principio dalle pulsioni bucoliche di “Look And Yes”, proseguendo poi con il seducente synth di “Cinnabar”, per poi finire con gli sbuffi pastorali di “Yttrium”.
Tuttavia, con il passare dei minuti incorrono svariate criticità in brani svuotati dal pathos (“Ship”, “Corundum”, “Ruined Feathers”), poi dimenticate dai pregi evidenziati sia nella languida e fluida “Roadrunner”, che dipinge acquarelli dal fascino inconfondibile, sia quando ci si imbatte nell’ambient ipnotica di “Immoral Architecture”.
Il focus della musica degli Isan sembra essersi spostato verso una visione più lucida e meno emotiva della musica, animata da una passione più ragionata e meno istintiva. Ciò non costituisce sempre un difetto, rimanendo intatto l’indomito talento per le belle melodie (carezzevoli in “Amber Button”, taglienti in “Five to Four, Ten to Eleven”). A non convincere è la mancanza di un collante di fondo che tenga le basi di un disco coeso e ben rifinito, la sensazione che si ha è quella di una serie di episodi senza un’idea alla base, tutto ciò nonostante la dolcezza evocativa di “Seven Mile Marker” e i pulviscoli glitch di “Working In Dust”.
Alla luce di questa parziale incertezza, appena dopo il rilascio del discreto Ep "Trois Gymnopedies", il progetto Isan viene messo in pausa per un periodo più lungo del solito.
Dopo quattro anni è la volta di Glow In The Dark Safari Set, sesto album in studio (settimo, se contiamo il mini “Digitalis”), dove in cinquanta minuti si tratteggia nuovamente una dimensione onirica e aliena, sospesa tra tastiere giocattolo, omaggi più o meno espliciti ai Kraftwerk e sapienti artifici Idm, il tutto dominato da un’estetica da modernariato niente affatto stucchevole, anzi assai credibile rappresentazione di quella che per gli Isan è tutto fuorché una propensione dettata dal trend del momento. È un po’ il destino degli antesignani, quello di non riuscire più a suscitare la dovuta attenzione al momento dell’esplosione del “fenomeno”, così come quello di cominciare a disperdere parte della spinta propulsiva iniziale proprio quando se ne potrebbero raccogliere i meritati frutti.
In questo senso, Glow In The Dark Safari Set non può certo definirsi un album “che arriva troppo tardi”, poiché, ad esempio, quando pigia il piede sull’acceleratore delle avvolgenti derive cosmiche, mostra di avere ben poco da invidiare alla celebrata emotività sintetica degli Oneohtrix Point Never; tuttavia, superate le carezze della miriade di suoni sguscianti tra sibili, crepitii e pulsazioni, il disco scorre via ordinato negli accurati ceselli melodici, ma i suoi brani faticano a lasciare un'impronta ulteriore rispetto a quelle delle cangianti modulazioni analogiche o delle saltuarie incursioni ritmiche.
Se infatti l’abbraccio liquido dell’iniziale “Channel Ten” viene tradotto in versione vagamente acida da “The Axle” e i battiti Idm di “Grisette” e “Catgot” scompaginano appena un po’ le divertite linee-guida retrò del lavoro, la sua seconda metà risente di una certa stanchezza, percepibile in particolare lungo gli oltre nove minuti di “64 Fire Damage” e nella iterativa immersione cosmica di “Slurs And Slowly”. Unico spunto significativo, in questa parte, restano i vocalizzi della conclusiva “East Side V34”, che paiono chiudere il cerchio retrofuturista gettando un ponte verso gli Stereolab più eterei.
Realizzato e compilato con il solito buon mestiere, l’album rappresenta una nuova testimonianza della perdurante vitalità del duo inglese, un disco che appaga parzialmente, ma non intacca di una virgola la classe del duo. A seguito di questo album, e ad eccezione della pubblicazione dell’Ep “Discette” nel 2012, la coppia inglese torna in un silenzio discografico lungo sei anni.
Nell’agosto del 2016 appare sulla pagina Facebook ufficiale la foto di un nuovo artwork senza alcun messaggio di accompagnamento. In realtà si tratta dell’annuncio di un nuovo lavoro poi pubblicato ufficialmente il 14 ottobre dello stesso anno. L’attesa è tanta perché, nonostante tutti sapessero che non c’era aria di scioglimento, nuove canzoni tardavano ad arrivare. Glass Bird Movement rievoca tutte le migliori caratteristiche della musica del duo: atmosfere ovattate, ritmi appena abbozzati, litanie ambient fra il malinconico e il crepuscolare, tante melodie, semplici ma bellissime.
Il risultato è di sicuro interesse, la riproposizione di quell’ambient non troppo estatica ma fresca e movimentata, dona nuova linfa dopo alcune incertezze sulla direzione da prendere. In queste undici canzoni ritroviamo soffici intrecci electro-pop (i loop della title track, l’empatia Idm di “Parley Glove” e “Slow Rings”), bozze ritmiche tendenti all’ambient (“Lace Murex”, la quasi impalpabile “Linnaues”), episodi più legati alla natura electro di questa musica (“Napier Deltic”, “Rattling Downhill”), il tutto condensato e cementato da una sensibilità timbrica e melodica fuori dal comune, un senso del suono che lascia incantati e sbalorditi.
Manifesto dell’opera e miglior episodio è “Risefallsleep”, una sorta di emo-electro-ambient in cui i synth in sottofondo pennellano un giro strappalacrime, mostrando forti affinità con un altro capolavoro come “Cutlery Favours“.
Alla luce dei risultati di questa ultima uscita, i sei anni di pausa non sono certo passati invano. Ed è con questi suoni che finisce, almeno per ora, il racconto della carriera di un duo che ha segnato senza farsi notare un’intera stagione di musica elettronica, proponendo nuove soluzioni con garbo e un indistinguibile stile compositivo.
Contributi di Raffaello Russo ("Glow In The Dark Safari Set")
In questa storia che stiamo per raccontare i protagonisti sono due e rientrano a pieno titolo in questa rivoluzione musicale esplosa sul finire degli anni 90. Gli inglesi Antony Ryan e Robin Saville fin da subito hanno dimostrato di possedere una magia in grado di distinguerli da molta musica presente sul mercato in quel periodo. Nelle loro composizioni si percepisce una genuinità parente stretta della malinconia, un piacevole senso di smarrimento unito a un riconoscibilissimo gusto per la melodia e al senso del ritmo. Trame semplici, frastagliate e stratificate, mai eccedenti o casuali, intorpidite e riflessive. Ed è forse per questi e per altri mille motivi che il pluripremiato regista italiano Paolo Sorrentino - con il suo sodale Pasquale Catalano - ha spesso scelto loro pezzi nelle colonne sonore dei suoi film, ultimo “Fueled” - contenuto in Lucky Cat - proveniente dalla serie tv “The Young Pope”.
Il progetto inizia il suo percorso con uscite a tiratura ridotta come 7”, split, singoli ed Ep, raccolte fortunatamente in buona parte nella compilation Clockwork Menagerie. Dopo due split pubblicati a stretto giro (con Tin Foil Star aka Styrofoam e Metrotone), arrivano due singoli intitolati "Dampen" e "Parochi/A Gentle Man", entrambi del 1999. A tratti perfino più maturi e strutturati dei brani presenti nell’album d’esordio, le due composizioni – algide e poco melodiche - dimostrano una maturità in tema di cesellatura timbrico ritmica davvero notevole, sublimata poi nella flessuosa “Wistful Song For A Soaring Gull” – contenuta in Dampen – forse uno dei primi esempi veramente compiuti della loro formula sonora.
Il primo album sulla lunga distanza arriva nel 1998 con Beautronics, pubblicato sulla sussidiaria della Rough Trade Tugboat Records – fondata dal frontman dei Piano Magic Glen Johnson - etichetta nel cui roster si annoverano nomi di grande rilievo come Low, mùm e Disco Inferno. L’opera si snoda su sedici tracce ed è strutturata con brani principali e piccoli sketch della durata di circa un minuto con il suffisso “Tint”.
Nonostante vi siano germi di genialità (“Sublimation” è davvero magnifica) il disco è troppo prolisso e decisamente frammentario. Le prime sperimentazioni Idm danno risultati positivi senza strafare (l’iniziale “Vosil”, il bel quadretto bucolico di “Paintchart”), mentre gli intermezzi sono vere e proprie bozze (risaltano in particolare “Tint3” e “Tint4”), altri episodi sono poco efficaci o embrionali (“Skeek”, “Iam Twisq”).
Beautronics dà l’idea di essere di un vero e proprio “primo tentativo”, un buffo, quasi maldestro e ingenuo, esordio, comunque fondamentale per capire da dove sono partiti Antony e Robin. Nel 2013 Morr Music ristamperà l’album con l’aggiunta di quattro nuove tracce (fra queste risalta “Spoonery”) e l’eliminazione di “Sublimation”.
L’anno successivo la band cambia ancora etichetta e approda alla Liquefaction Empire. In Digitalis - a tutti gli effetti un mini-album - il suono continua a prendere forma già dall’iniziale “Zip Left, Zip Right”, in cui si scorgono strutture più compiute. Assalti un pochino più abrasivi (“‘Bean Sea” ricorda gli Autechre più incisivi) lasciano spesso il posto a tiepide mini-suite (“M.Mouse”, “Falling”), mentre composizioni un pelo più strutturate lasciano adito a qualche curiosità ulteriore (“Dilly”, “Reno”). Conclude la bellissima “Quink Like Ink”, con sample concreti a dare vivacità compositiva.
In un contesto di forte creatività, lo stile “Isan” viene a farsi più definito con Salamander, pubblicato pochi mesi dopo Digitalis e primo approdo alla famosa etichetta berlinese Morr Music poi diventata per il duo una vera “casa”. In contemporanea, quell’anno prese corpo una tendenza nel mondo della musica elettronica il cui culmine si raggiunse sia con la pubblicazione di “Music Has The Right To Children” (in realtà rilasciato qualche mese prima, nel 1998) dei Boards Of Canada (carriera poi esplosa con “Geodaddi” del 2002) e la contemporanea rilevanza dei capolavori degli Autechre di qualche anno addietro (nel 1999 in realtà fu pubblicato “LP 5”). L’elettronica d’ascolto - sia esso più colto o “pop” - stava subendo fortissimi rivoluzioni e il materiale prodotto, complice un’eccitante frenesia e urgenza produttiva, era tantissimo. E fu lì che il sodalizio dei Nostri riuscì a inserirsi, con un album in cui si scorgevano chiari riferimenti alla tanto chiacchierata Idm (acronimo controverso ma tutto sommato comprensibile), tastiere prossime all’ambient, oltre all’incedere di certa electro che di lì a poco avrebbe spopolato in chiavi decisamente mutevoli.
Iniziando l’ascolto ci imbattiamo in “Peg”: fra placidi tappeti di tastiere e innumerevoli strati di ritmi sintetici, si inseriscono folate di disconnessioni e vari glitch, componendo la sonorizzazione educata per un software in malfunzionamento. L’ascolto prosegue con gentili concessioni al lato più ambient (“Proager”, “Lid Former”, “Twentyfive Thirtyone”) mentre altre volte il ritmo si fa più presente con risultati davvero notevoli (la title track, la scomposta “Happy Pet In A Car”, quasi in territorio glitch). Fra le tracce più significative troviamo “Still. Blue”, che fra delicatissimi tocchi di drum machine, campionamenti vocali e sapienti pennellate di tastiera addormenta l’atmosfera, rendendola flebile e ovattata.
Sulle stesse coordinate si attestano altre gemme (“Clipper”, le leggermente screziate “Snot” e “Effekl”), mentre “Braille Foundry”, in collaborazione con la band Charles Atlas - nella cui formazione si trova anche un ex-componente dei Piano Magic - incanta con un bel sottofondo di chitarra acustica.
Solo a tratti capace di tenere testa ai dischi successivi, Salamander offre un consistente antipasto poco prima del definitivo compimento artistico del progetto Isan.
Il momento arriva nel 2001 con Lucky Cat e coincide con il picco d’ispirazione e di pubblico, probabilmente allineato anche con il periodo di maggior splendore dell’etichetta di Thomas Morr. Questo album si stampa nella cronologia dell’elettronica moderna per il suo tocco cristallino, per un modo gentile ed educato di entrare nelle orecchie dell’ascoltatore.
La partenza è subito un colpo difficile da metabolizzare, infatti “Cutlery Favours” è a pieno diritto uno dei brani più belli mai pubblicati dal duo. La grana grossa del synth dell’incipit viene dopo pochi secondi invasa da un effluvio di bordate soniche e da uno sfarfallio che sa tanto di magia quanto di mestizia, in una sinfonia che per cinque minuti lascia letteralmente steso l’ascoltatore.
I toni si ammorbidiscono con la filastrocca “Table Of Deciduous Species”, tiepidamente screziata da un ritmo scomposto e un da filo di sintetizzatore, sottile come le trame di una ragnatela. Ed è quel ritmo che solca la bellissima e già citata “Fueled” - conclusa con un intreccio di suoni che paiono i lamenti di una stella - poi seguita da piccoli capolavori come “Recently In The Sahara” e “What This Button Did” (un ipnotizzante susseguirsi di sbuffi e squilli sintetici).
L’album non perde un’oncia di efficacia e incanto nemmeno nella parte centrale, alternando sognanti nenie cibernetiche (“Anteaters Eat Ants”, “Kittenplan A”) ad altri episodi più propriamente Idm (gli strati ritmici di “Read Again” e “Scraph”). Spicca in questo frangente “Cathart” (già presente ne “L’amico di famiglia”) con il suo meraviglioso susseguirsi di melodie e singulti, brano architettato in modo pressoché perfetto e ad alto tasso emotivo.
L’album sfuma fra rarefazioni sabbiose e crepuscolari (“Caddis”, “You Can Use Bambolo As A Ruler”) lasciando una non bene definita sensazione agrodolce. Quest’opera rimarrà uno dei più significativi esempi dell’espressività della musica elettronica, capace con i soli suoni di smuovere sensazioni inimmaginabili.
A stretto giro con l’uscita di Lucky Cat troviamo un singolo e un Ep di inediti mai più ripescati. Exquisite Honeyed Tart – su Static Caravan – e Salle d’Isan su Morr fanno insieme, almeno dal punto di vista numerico, praticamente un altro album. Se nel primo troviamo prima una cupezza fuori dallo standard Isan (la title track), per poi seguire con una giocosità che non avrebbe sfigurato in alcun album (“Hugs Now, No Kisses (Hugo’s Sleep)”), nel secondo siamo di fronte a un vero e proprio mini-album. Salle d’Isan contiene infatti diverse gemme meritevoli di essere riscoperte. Se “Days & Later” spinge la cassa ai limiti di un battito techno gentile, “Bubbles8” e “Disruptive Elephant” sono candite da una dolcezza di fondo ormai marchio distintivo. “Fullen Brimm” fa sfoggio di un synth dalla grana grossa e di un’atmosfera futuristica, mentre “Serene Driver” è una ninnananna stellare, una delle migliori tracce mai pubblicate dal duo.
Meno di un anno dopo, viene pubblicato un altro tassello fondamentale nel percorso artistico del duo. Nel 2002 la fidata Morr rilascia la raccolta Clockwork Menagerie, composta da brani precedentemente apparsi in Ep o singoli di difficile reperibilità. Qui si può ascoltare in maniera sparsa tutta la creatività e il genio che risiede nell’arte del sodalizio artistico della formazione inglese, se non la più alta sublimazione della musica prodotta fino a quel momento. Sarà difficile resistere a una miriade di stimoli sonori, a partire dall’ammaliante incedere di “Betty’s Lament”, senza contare struggenti malinconie pastorali (“Calf”, “Cubillo”), distorsioni elettriche (“Comb”, “Autolung”) e l’ipnotico e angosciante andirivieni di voci della magnifica “Remegio” (utilizzata ancora da Sorrentino nel film “Le conseguenze dell’amore”).
Facendo scorrere le tracce, ci si rende conto di quanto sia ampio lo spettro di influenze a cui i due musicisti hanno attinto nella loro carriera: un vero appassionato, infatti, scorgerà le incursioni nella techno - seppur sempre mitigate dalla solita compostezza di fondo - di episodi come “Damil 85”, splendidamente impreziosita da un campionamento vocale. Il lato più “ambient” e diluito mostra un aspetto più riflessivo (“Eeriel”, “Ulim”, “Schema”) ma al contempo legato alle angosce della kosmische musik (“Titled, Not Tithed”).
Nei restanti brani trovano posto suoni electro, siano essi declinati su coordinate più acide (“Phoeb”, “Schema”), giocose (la divertente “Rron”) o distese (il bel tiro di “Eusa’s Head”). Siamo di fronte a una sorta di summa di stili, tendenze e ondate elettroniche, che copre più di quindici anni di musica, il tutto chiaramente filtrato dall’inconfondibile sensibilità di Robin e Antony. L’uscita è impreziosita da un artwork di prim’ordine, curato come sempre da Jan Kruse, l’autore di quasi tutte le grafiche delle uscite su Morr Music degli Isan.
Dimenticati nel marasma delle pubblicazioni discografiche, si collocano sempre nel 2002 due mini-split con Lali Puna (pubblicato dalla bolognese Unhip Records) e Phonophani. Nel primo disco il brano degli Isan non aggiunge nulla di significativo, mentre nel caso di “My Soaring Heart” il tiepido lamento di una voce in sottofondo mette insieme atmosfere piacevoli.
A due anni di distanza arriva nel 2004 il quarto album di studio Meet Next Life, che introduce nuovi elementi rispetto al già cospicuo campionario sonoro fin qui proposto. In quegli anni erano di grande richiamo suoni folktronici, e band come The Books e Tunng campeggiavano sulle copertine delle riviste musicali e nei principali festival. Gli Isan con questa loro prova si accodano a quell’ondata con l’introduzione di alcuni strumenti a corredo dell’elettronica. Come non scorgere elementi di folktronica nell’incedere bucolico di “Birds Over Barges”? E come rimanere indifferenti al tintinnio degli xilofoni di “The Race To Be First Home”?
L'elemento positivo è che tale deviazione dallo stile originario (il basso di “Sat 73” è un’altra divagazione interessante) è perfettamente funzionale e comunque solo parziale. Infatti con tracce come “First Date - Jumble Sale”, “One Man Abandon” o “Gurnard” sarà il puro stile-Isan a inondare le vostre orecchie con carezzevoli fiocchi di bit e ritmi al rallentatore.
Ad alzare il tiro e dare una sferzata di tensione viene in soccorso la stratificata “Gunnera”, che grazie a un nutrito intreccio di layer sonori soddisfa pienamente, mentre l’autentico electro-pop di “Iron Eyes” sorprende per come i musicisti riescano a padroneggiare ambiti a cui non sono abituati. Da metà in poi, il disco prende quota con le dolci pulsazioni di “Snowdrops And Phlox” e “Willory”, due vere e proprie sonorizzazioni per foreste chiaroscurali. La parte conclusiva si attesta su atmosfere piacevoli ma non sorprendenti (molto buona la title track, un po’ sottotono “Slow Bulb Slippage”).
Nonostante siamo pur sempre al cospetto di un’uscita pienamente sufficiente, lo scarto fra Meet Next Life e un vero classico come Lucky Cat si avverte, c’è meno empatia o come si suol dire “urgenza espressiva”, anche se non mancano buone canzoni o momenti da ricordare. Possiamo parlare a tutti gli effetti di un classico album interlocutorio.
A margine dell’esperienza di Meet Next Life – in cui per la prima volta viene sperimentato l’uso degli strumenti acustici - meritano una citazione i due album solisti di Robin Saville Peasgood Nonsuch del 2008 pubblicato dalla Static Caravan e Public Flowers rilasciato da Second Language cinque anni dopo nel 2013. Lo spostamento verso territori folktronici, addirittura con alcuni accenni alla toy-tronica degli Psapp, è ancora più marcato e la presenza di alcune suite richiamanti atmosfere modern-classical mostra la vastità dell’ispirazione dell’artista inglese. Soprattutto il secondo album ha una grande capacità di commistionare sensibilità acustica e trame elettroniche. Sono due album da recuperare, vista anche la scarsa visibilità che hanno ricevuto.
Giunto nel 2006, in un periodo in cui l’ondata indietronica stava subendo un calo di vendite e ispirazione, Plans Drawn In Pencil cerca di trovare nuove vie dopo le incertezze della precedente uscita. L’unico modo per uscire da tale stallo era il ritorno alle origini di una composizione totalmente elettronica che ha sempre contraddistinto il duo inglese. Il disco prende il largo sin da subito con un trittico davvero notevole, composto in principio dalle pulsioni bucoliche di “Look And Yes”, proseguendo poi con il seducente synth di “Cinnabar”, per poi finire con gli sbuffi pastorali di “Yttrium”.
Tuttavia, con il passare dei minuti incorrono svariate criticità in brani svuotati dal pathos (“Ship”, “Corundum”, “Ruined Feathers”), poi dimenticate dai pregi evidenziati sia nella languida e fluida “Roadrunner”, che dipinge acquarelli dal fascino inconfondibile, sia quando ci si imbatte nell’ambient ipnotica di “Immoral Architecture”.
Il focus della musica degli Isan sembra essersi spostato verso una visione più lucida e meno emotiva della musica, animata da una passione più ragionata e meno istintiva. Ciò non costituisce sempre un difetto, rimanendo intatto l’indomito talento per le belle melodie (carezzevoli in “Amber Button”, taglienti in “Five to Four, Ten to Eleven”). A non convincere è la mancanza di un collante di fondo che tenga le basi di un disco coeso e ben rifinito, la sensazione che si ha è quella di una serie di episodi senza un’idea alla base, tutto ciò nonostante la dolcezza evocativa di “Seven Mile Marker” e i pulviscoli glitch di “Working In Dust”.
Alla luce di questa parziale incertezza, appena dopo il rilascio del discreto Ep "Trois Gymnopedies", il progetto Isan viene messo in pausa per un periodo più lungo del solito.
Dopo quattro anni è la volta di Glow In The Dark Safari Set, sesto album in studio (settimo, se contiamo il mini “Digitalis”), dove in cinquanta minuti si tratteggia nuovamente una dimensione onirica e aliena, sospesa tra tastiere giocattolo, omaggi più o meno espliciti ai Kraftwerk e sapienti artifici Idm, il tutto dominato da un’estetica da modernariato niente affatto stucchevole, anzi assai credibile rappresentazione di quella che per gli Isan è tutto fuorché una propensione dettata dal trend del momento. È un po’ il destino degli antesignani, quello di non riuscire più a suscitare la dovuta attenzione al momento dell’esplosione del “fenomeno”, così come quello di cominciare a disperdere parte della spinta propulsiva iniziale proprio quando se ne potrebbero raccogliere i meritati frutti.
In questo senso, Glow In The Dark Safari Set non può certo definirsi un album “che arriva troppo tardi”, poiché, ad esempio, quando pigia il piede sull’acceleratore delle avvolgenti derive cosmiche, mostra di avere ben poco da invidiare alla celebrata emotività sintetica degli Oneohtrix Point Never; tuttavia, superate le carezze della miriade di suoni sguscianti tra sibili, crepitii e pulsazioni, il disco scorre via ordinato negli accurati ceselli melodici, ma i suoi brani faticano a lasciare un'impronta ulteriore rispetto a quelle delle cangianti modulazioni analogiche o delle saltuarie incursioni ritmiche.
Se infatti l’abbraccio liquido dell’iniziale “Channel Ten” viene tradotto in versione vagamente acida da “The Axle” e i battiti Idm di “Grisette” e “Catgot” scompaginano appena un po’ le divertite linee-guida retrò del lavoro, la sua seconda metà risente di una certa stanchezza, percepibile in particolare lungo gli oltre nove minuti di “64 Fire Damage” e nella iterativa immersione cosmica di “Slurs And Slowly”. Unico spunto significativo, in questa parte, restano i vocalizzi della conclusiva “East Side V34”, che paiono chiudere il cerchio retrofuturista gettando un ponte verso gli Stereolab più eterei.
Realizzato e compilato con il solito buon mestiere, l’album rappresenta una nuova testimonianza della perdurante vitalità del duo inglese, un disco che appaga parzialmente, ma non intacca di una virgola la classe del duo. A seguito di questo album, e ad eccezione della pubblicazione dell’Ep “Discette” nel 2012, la coppia inglese torna in un silenzio discografico lungo sei anni.
Nell’agosto del 2016 appare sulla pagina Facebook ufficiale la foto di un nuovo artwork senza alcun messaggio di accompagnamento. In realtà si tratta dell’annuncio di un nuovo lavoro poi pubblicato ufficialmente il 14 ottobre dello stesso anno. L’attesa è tanta perché, nonostante tutti sapessero che non c’era aria di scioglimento, nuove canzoni tardavano ad arrivare. Glass Bird Movement rievoca tutte le migliori caratteristiche della musica del duo: atmosfere ovattate, ritmi appena abbozzati, litanie ambient fra il malinconico e il crepuscolare, tante melodie, semplici ma bellissime.
Il risultato è di sicuro interesse, la riproposizione di quell’ambient non troppo estatica ma fresca e movimentata, dona nuova linfa dopo alcune incertezze sulla direzione da prendere. In queste undici canzoni ritroviamo soffici intrecci electro-pop (i loop della title track, l’empatia Idm di “Parley Glove” e “Slow Rings”), bozze ritmiche tendenti all’ambient (“Lace Murex”, la quasi impalpabile “Linnaues”), episodi più legati alla natura electro di questa musica (“Napier Deltic”, “Rattling Downhill”), il tutto condensato e cementato da una sensibilità timbrica e melodica fuori dal comune, un senso del suono che lascia incantati e sbalorditi.
Manifesto dell’opera e miglior episodio è “Risefallsleep”, una sorta di emo-electro-ambient in cui i synth in sottofondo pennellano un giro strappalacrime, mostrando forti affinità con un altro capolavoro come “Cutlery Favours“.
Alla luce dei risultati di questa ultima uscita, i sei anni di pausa non sono certo passati invano. Ed è con questi suoni che finisce, almeno per ora, il racconto della carriera di un duo che ha segnato senza farsi notare un’intera stagione di musica elettronica, proponendo nuove soluzioni con garbo e un indistinguibile stile compositivo.
Contributi di Raffaello Russo ("Glow In The Dark Safari Set")
Love Calò + Isan 19/10/2018 @ Outer Festival, Castelfranco Emilia
In una nebbiosa serata di
fine ottobre, torna per la terza volta l'appuntamento dell'Outer
Festival in quel di Castelfranco Emilia. L'edizione 2018 di questo
piccolo ma significativo appuntamento per gli appassionati di certi
suoni alieni, propone in cartellone oltre al duo inglese Isan, David Calà aka
Love Calò, DJ e producer italiano già autore di ottime cose (da
recuperare “Fashion Victims” a nome And), Indian Wells e il duo
electro-pop francese Zombie Zombie. Il tutto ospitato nella splendida Chiesa di San Giacomo Apostolo e nell'adiacente Teatro Dadà.
La serata che andremo a raccontare ospita in primis l'italiano David Calò impegnato in un dj-set.
I suoni da lui proposti spaziano in maniera decisamente efficace fra
virtuosismi electro-techno e certi tribalismi di grande impatto, il
tutto supportato da visual evocativi. La sua esibizione di
circa quaranta minuti non disdegna elevate impennate di ritmo mixando
sapientemente i cambi di disco e le variazioni di suono attuate “live”
con un risultato che ha ricreato, all'interno del contesto chiesastico,
un'atmosfera davvero ammaliante. La natura ibrida della sua vena
musicale, divisa fra il djing e la produzione, viene tutta fuori mostrando un'ottima creatività nel creare e miscelare suoni.
Salgono successivamente sul palco Antony Ryan e Robin Saville nel loro ormai famoso setup scenico con luci, due laptop,
alcune tastiere ed altre strumentazioni sonore fra cui possiamo
annoverare dei MIDI controllers ed alcuni campionatori. Il loro suono
culla dolcemente pure dal vivo, capaci come sono a creare un'intimità
sognante ed onirica. Con picchi quali “Remegio”, tutta flussi vocali ipnotizzanti e beat,
gli Isan propongono uno show imperniato attorno a suoni ovattati,
ciclici, pungenti e al contempo gentili. La particolarità del loro modo
di lavorare sui live risiede nella preparazione. La filosofia della
collaborazione fra Antony e Robin ha come perno la separazione dei ruoli
e la distanza. A differenza di molti altri artisti, gli Isan non
provano prima dei live - ad eccezione di veloci setup in
albergo la sera stesso dell'evento - né si incontrano diversi giorni
prima per decidere come proporre la loro musica. L'improvvisazione,
unita ad una fiducia reciproca e ad un istinto che si matura dopo
vent'anni di collaborazione, gioca un ruolo fondamentale e dal suono
prodotto si nota tantissimo, sopratutto alla luce di come vengono
modificati e stravolti i pezzi rispetto al disco.
Come mostrato nel loro ritorno dopo sei anni di assenza “Glass Bird Movement”,
la loro vena creativa è tutt'altro che svanita e mostra quanto il loro
stile sia di fondamentale importanza per la scena elettronica, in quanto
il loro modo di fare musica è davvero unico anche dal vivo. In una
performance scarsamente generosa in termini di durata (intorno all'ora),
tutte le qualità ampiamente mostrate in vent'anni di carriera vengono
messe in pratica, frullando con tatto electro, Idm, ambient ed indietronica. Li aspettiamo presto nel nuovo album recentemente dichiarato in lavorazionein una recente intervista.
Nonostante
l'entità ristretta di un evento così riservato a pochi appassionati, è
da plaudire l'organizzazione per aver attirato suoni di un certo tipo
fronteggiando colossi come il Robot Festival. Queste realtà non meritano
altro se non tanta pubblicità.
martedì 2 gennaio 2018
Nathan Fake: "Providence" (Ninja Tune, 2017)
Con alle spalle un clamore adolescenziale di un certo rilievo e forte di
un talento assai consolidato, il britannico nativo di Norfolk Nathan Fake giunse al terzo album “Steam Days” nel 2012 - dopo due successi di pubblico e critica come “Drowning In A Sea Of Love” e “Hard Islands”
- con tutte le carte in regola per diventare uno degli artisti di
settore più quotati. Come già accaduto diverse volte nella storia della
musica, è proprio quando si è pronti a spiccare il volo che le cose si
rompono, svaniscono, sfumano.
Come dichiarato in alcune interviste rilasciate durante la presentazione del nuovo “Providence”, la ragione di questo silenzio durato ben cinque anni è stata un drastico calo di ispirazione. I suoni non volevano uscire fuori, le cose non giravano e dunque il ragazzo decise di trasferirsi da Londra a Norwich per trovare nuovi stimoli. Complice l'acquisto istintivo del synth Korg Prophecy, un oggetto vintage di metà anni 90, il ragazzo inizia nuovamente a comporre e si accasa alla Ninja Tune dopo anni di militanza nella Border Community del fido compagno James Holden.
Il risultato di questo sforzo in un periodo di buio totale è un'opera in perfetta linea con la carriera fin qui tratteggiata dall'autore di “Outhouse”. Un perfetto connubio fra musica ambient, techno, electro ed IDM con frequenti ondeggiamenti verso il noise, la dance e la musica sperimentale. Come dimostrato in un live di qualche mese fa in quel di Bologna, il ragazzo ha dentro di sé la voglia di proporre una musica mai troppo estrema né da un lato né dall'altro, equilibrando perfettamente ogni elemento della sua arte.
“Provicence” infatti vive fasi alterne, con un inizio sparato a mille con velocità urbane e molto poco meditative dove la magnifica title-track e gli otto minuti di follie sonore – composta in collaborazione con Prurient - di “DEGREELESSNESS” trovano la massima espressione, sfumando poi verso un ambient trasfigurata e malata con pezzi come “CONNECTIVITY” - colma di synth impazziti – e l'autentica gemma “RVK”, una sorta di tritacarne sonoro in cui sentiamo la voce di Raphaelle Standell-Preston, frontman di Braids e Blue Hawaii. Nella foga di voler sperimentare ed usare il nuovo strumento, Fake pecca di qualche ingenuità autoreferenziale, mostrando il fianco ad episodi interlocutori (“REMAIN” e “feelings 2”), non pregiudicando l'efficacia dell'album che naviga su livelli di assoluta eccellenza (le flessioni plastiche di “The Equator & I”, la rilucente “HoursDaysMonthsSeasons”).
Per chi aspettava qualche nuovo segnale dall'enfant prodige di Norfolk o anche solo chi ha bisogno di nuova linfa nell'ambito della musica elettronica, avrà (ri)trovato in Fake un bacino a cui attingere con grande soddisfazione. Lo smisurato talento di questo trentaquattrenne non può e non deve naufragare in un nulla di fatto, la musica ha bisogno di lui.
(7)
recensione di Alessandro Biancalana
Come dichiarato in alcune interviste rilasciate durante la presentazione del nuovo “Providence”, la ragione di questo silenzio durato ben cinque anni è stata un drastico calo di ispirazione. I suoni non volevano uscire fuori, le cose non giravano e dunque il ragazzo decise di trasferirsi da Londra a Norwich per trovare nuovi stimoli. Complice l'acquisto istintivo del synth Korg Prophecy, un oggetto vintage di metà anni 90, il ragazzo inizia nuovamente a comporre e si accasa alla Ninja Tune dopo anni di militanza nella Border Community del fido compagno James Holden.
Il risultato di questo sforzo in un periodo di buio totale è un'opera in perfetta linea con la carriera fin qui tratteggiata dall'autore di “Outhouse”. Un perfetto connubio fra musica ambient, techno, electro ed IDM con frequenti ondeggiamenti verso il noise, la dance e la musica sperimentale. Come dimostrato in un live di qualche mese fa in quel di Bologna, il ragazzo ha dentro di sé la voglia di proporre una musica mai troppo estrema né da un lato né dall'altro, equilibrando perfettamente ogni elemento della sua arte.
“Provicence” infatti vive fasi alterne, con un inizio sparato a mille con velocità urbane e molto poco meditative dove la magnifica title-track e gli otto minuti di follie sonore – composta in collaborazione con Prurient - di “DEGREELESSNESS” trovano la massima espressione, sfumando poi verso un ambient trasfigurata e malata con pezzi come “CONNECTIVITY” - colma di synth impazziti – e l'autentica gemma “RVK”, una sorta di tritacarne sonoro in cui sentiamo la voce di Raphaelle Standell-Preston, frontman di Braids e Blue Hawaii. Nella foga di voler sperimentare ed usare il nuovo strumento, Fake pecca di qualche ingenuità autoreferenziale, mostrando il fianco ad episodi interlocutori (“REMAIN” e “feelings 2”), non pregiudicando l'efficacia dell'album che naviga su livelli di assoluta eccellenza (le flessioni plastiche di “The Equator & I”, la rilucente “HoursDaysMonthsSeasons”).
Per chi aspettava qualche nuovo segnale dall'enfant prodige di Norfolk o anche solo chi ha bisogno di nuova linfa nell'ambito della musica elettronica, avrà (ri)trovato in Fake un bacino a cui attingere con grande soddisfazione. Lo smisurato talento di questo trentaquattrenne non può e non deve naufragare in un nulla di fatto, la musica ha bisogno di lui.
(7)
recensione di Alessandro Biancalana
giovedì 21 dicembre 2017
Lusine: "Sensorimotor" (Ghostly International, 2017)
A distanza di quattro anni dall'ottimo "The Waiting Room",
Jeff McIlwain continua la sua esplorazione in ambiti elettronici in
maniera coerente e proficua pubblicando "Sensorimotor". Frullando house-pop, IDM ed electro, l'artista, anche grazie alla non trascurabile prolificità, ha tragettato certa british techno verso l'house e il pop, in una percorso personale e fortemente identitario a distanza di quasi due decenni dagli esordi.
Il suo nuovo album si tinge di sfumature house e synth-pop, mostrando i muscoli quando serve ed usando la leggerezza e il candore di un vero artigiano. Continuando a collaborare con la moglie Sarah e la talentuosa vocalist Vilja Larjosto, McIlwain fa ancora centro con strumentali dal grande fascino electro-techno (affascinanti i clangori di "Slow Motions"), episodi evocativi e dal richiamo ambient (i flebili suoni di "Canopy"), mantenendo una certa appetibilità con i singoli pop, come al solito molto catchy ed orecchiabili (splendida "Ticking Hands", calda ed avvolgente "Just A Cloud"). La scorrevolezza degli album di Lusine, compreso questo "Sensorimotor", nascondono un'eterogeneità calcolata ed istintiva al tempo stesso, dove una forte predisposizione all'equilibrio e alla misura viene incontro alla capacità di emozionare. Questa sensazione è percepita ascoltando il piacevole alternarsi di vari umori e suoni, temperature, melodie e durate. Se dopo la già citata "Just A Cloud", synth-pop arioso e ficcantissimo, troviamo le flessioni electro di "The Level" – tutta progressioni di synth e layer sonori mutanti – ed ogni cosa ci sembra perfettamente al suo posto, è segno che l'artista ha fatto un lavoro di livello assoluto.
Poco dopo, nel caso in cui vi possa sembra questo un album di passagio o solo vagamente transitorio, potrete trovare le disturbanti membrane vocali di "Witness"- pezzo arrangiato e cantato da Benoit Pioulard -, le quali, fluttuando da un canale audio all'altro, disturbano incantando con malizia. Brano di qualità altissima e pregiata, un perfetto incrocio fra techno-pop e sperimentazione vocale. Sulla falsariga di questa scia melliflua – solo leggermente più speziata – troviamo gli stop&go che sanno molto di 2step britannica nella sinuosa "Won't Forget", poco dopo seguita dalla coda finale dell'album composta da tre strumentali degni dei migliori Gus Gus.
Jeff McIlwain, artista emotivo e calcolatore in parti eguali, mette in mostra tutte le sue qualità in un album corposo, ben rifinito e conciso al punto giusto. Il suo gusto finissimo e totalizzante rende appetibile la musica che produce ad un'ampia schiera di ascoltatori, dando agio a chi ama il pop o l'elettronica più fisica di goderee appieno senza mezze misure.
(7,5)
recensione di Alessandro Biancalana
Il suo nuovo album si tinge di sfumature house e synth-pop, mostrando i muscoli quando serve ed usando la leggerezza e il candore di un vero artigiano. Continuando a collaborare con la moglie Sarah e la talentuosa vocalist Vilja Larjosto, McIlwain fa ancora centro con strumentali dal grande fascino electro-techno (affascinanti i clangori di "Slow Motions"), episodi evocativi e dal richiamo ambient (i flebili suoni di "Canopy"), mantenendo una certa appetibilità con i singoli pop, come al solito molto catchy ed orecchiabili (splendida "Ticking Hands", calda ed avvolgente "Just A Cloud"). La scorrevolezza degli album di Lusine, compreso questo "Sensorimotor", nascondono un'eterogeneità calcolata ed istintiva al tempo stesso, dove una forte predisposizione all'equilibrio e alla misura viene incontro alla capacità di emozionare. Questa sensazione è percepita ascoltando il piacevole alternarsi di vari umori e suoni, temperature, melodie e durate. Se dopo la già citata "Just A Cloud", synth-pop arioso e ficcantissimo, troviamo le flessioni electro di "The Level" – tutta progressioni di synth e layer sonori mutanti – ed ogni cosa ci sembra perfettamente al suo posto, è segno che l'artista ha fatto un lavoro di livello assoluto.
Poco dopo, nel caso in cui vi possa sembra questo un album di passagio o solo vagamente transitorio, potrete trovare le disturbanti membrane vocali di "Witness"- pezzo arrangiato e cantato da Benoit Pioulard -, le quali, fluttuando da un canale audio all'altro, disturbano incantando con malizia. Brano di qualità altissima e pregiata, un perfetto incrocio fra techno-pop e sperimentazione vocale. Sulla falsariga di questa scia melliflua – solo leggermente più speziata – troviamo gli stop&go che sanno molto di 2step britannica nella sinuosa "Won't Forget", poco dopo seguita dalla coda finale dell'album composta da tre strumentali degni dei migliori Gus Gus.
Jeff McIlwain, artista emotivo e calcolatore in parti eguali, mette in mostra tutte le sue qualità in un album corposo, ben rifinito e conciso al punto giusto. Il suo gusto finissimo e totalizzante rende appetibile la musica che produce ad un'ampia schiera di ascoltatori, dando agio a chi ama il pop o l'elettronica più fisica di goderee appieno senza mezze misure.
(7,5)
recensione di Alessandro Biancalana
domenica 26 novembre 2017
Ofeliadorme + Telefon Tel Aviv, 22/11/2017 @ Bologna, Locomitv
Sono grandi le emozioni che colgono gli appassionati quando giunge il momento di riabbracciare personaggi e sensazioni ritenuti quasi perduti. Il progetto Telefon Tel Aviv oltre ad essere uno di questi casi racchiude tutte le caratteristiche di una vera e propria storia da raccontare.
La coppia Joshua Eustis e Charles Cooper, dopo tre album uno più bello dell'altro e un carico di aspettative e talento sulle spalle, si accinge nel 2009 a lanciare il bellissimo “Immolate Yourself” con un tour in tutto il mondo. A pochi giorni di distanza, sul finire dell'anno, arriva la doccia fredda: Charlie Cooper muore in circostanze misteriose, il gruppo immediatamente congelato, tour completato con un sostituto e carriera troncata. Questa brusca interruzione di un percorso che poteva seriamente diventare trionfale, mette in forte crisi la motivazione artistica del compare Joshua Eustis il quale decide di dedicarsi ad altro per non pensare.
Negli anni che lo dividono dall'attimo in cui decide di riprendere in mano il suo passato, l'americano calca i palchi spalla a spalla con band come Puscifer, Nine Ninch Nails, The Black Queen, oltre ad avviare i progetti elettronici Second Woman e Sons Of Magdalene. Nel 2016 si accende la classica scintilla che fa tornare le motivazioni per riprendere in mano un discorso irrisolto e per cui fiumi di parole si erano spesi. Nuovo pezzo, tour in tutta Europa – fra cui alcune date di supporto ai Moderat - e tanta voglia di sorprendere ancora.
Ed è con questa aura di mitologia che la serata viene percepita con grande interesse da parte di tutto il pubblico del Locomotiv, il quale fluisce con il passare delle ore sempre più numeroso. Ad accogliere e scaldare le orecchie degli astanti ci pensano i bolognesi Ofeliadorme. Nonostante un bilanciamento dei suoni poco favorevole alla bella voce di Francesca Bono – purtroppo troppo impastata e confusa la resa finale -, la band si muove agilmente e con efficacia mirabile fra dark-rock, sintesi wave e accenni minimal-synth. Davvero di grande impatto pezzi come “Birch”, “Body Prayer” e “My Soldiers”, sinuose e guidate da rasoiate di sibilante elettronica, pattern ritmici incessanti e una voce che ricorda l'impeto di Siouxsie. Da seguire ed ascoltare, partendo dal nuovissimo “Secret Fires”.
Il tempo di un veloce cambio palco ed è l'ora di Joshua Eustis, il quale inizia il suo show pestando di brutto con nuovo materiale fatto di grovigli IDM fittissimi e molto movimentati, gettando dei grossi dubbi sull'entità del disco che avrà luce molto probabilmente nel 2018, il quale, su stessa ammissione del suo autore, sarà più scuro, arrabbiato e cattivo rispetto al suono ovattato e quasi confortevole dei lavori precedenti. A testimoniare ciò arriva l'esecuzione del nuovo pezzo “Something Akin To Lust”, una tetra staffilata electro-dark decisamente distante dai suoni abitualmente ascoltati nei dischi dei Telefon Tel Aviv.
L'oretta scarsa messa in scena da Eustis da l'impressione di essere una sorta di spettacolo preparatorio ed esplorativo più che un vero e proprio concerto, d'altronde – come si può ascoltare in una recente intervista per un'emittente felsinea – lui stesso prima di riprendere seriamente in mano il marchio ha voluto testare l'impatto sul pubblico del materiale che aveva intenzione di produrre.
Sul finire dell'esibizione, ci pensano le prime note di “The Birds” a scaldare i cuori dei nostalgici, a cui non si possono non dedicare alcune lacrime, oltre ad un altro classico come “You Are Worst Thing In The World”, una tambureggiante e magnifica ballata electro/dance dal sapore agrodolce.
Ed è la bellezza di questa musica che trascende la realtà del live e fa pensare a quanto il duo poteva essere e non è mai stato per colpa di una tragica disgrazia, generando frustrazione ma dando la speranza che nonostante tutto non è ancora il momento di mettere fine ad uno dei progetti elettronici più interessanti del nuovo millennio
domenica 19 novembre 2017
Manitoba + Lali Puna, 17/11/2017 @ Bologna, Locomotiv
Per suggellare un autunno di concerti imperdibili, il Locomotiv di via Sebastiano Serlio propone, dopo eventi imperdibili come Lamb e Zola Jesus, il ritorno sui palchi dei Lali Puna, con alle spalle un recente ritorno discografico intitolato “Two Windows”
e a distanza di sette anni dall'ultimo live bolognese proprio al
Locomotiv. Le fisiologiche incertezze dell'uscita discografica rendono
questi live un banco di prova importante per una band che dopo
un'ennesima pausa tenta di riaffacciarsi sul mercato discografico con
qualche punto interrogativo.
Ad aprire la serata ci pensano gli italiani Manitoba, band nostrana nata nel 2015 grazie al sodalizio artistico fra Giorgia Rossi Monti e Filippo Santini, poi aiutati dal produttore Samuele Cangi, responsabile della svolta alt-electro-rock della band. Sulla falsariga di certe alterazioni fra indie-rock ed electro, il trio sul palco non eccelle ma nemmeno demerita, mostrando una frontman femminile molto capace a tenere il palco ed un chitarrista di grande talento. Purtroppo i pattern elettronici a tratti paiono un po' ingessati e poco funzionali al suono complessivo. Chiaramente l'idea di smarcarsi dallo stilema del duo acustico è lodevole, tuttavia senza uno studio attento dell'integrazione fra due componenti molto differenti, si rischia di ottenere un qualcosa che è solo una via di mezzo fra vero cantautorato rock ed electro. Alla base di ciò però ci sono canzoni molto valide, fra tutte la bella “Glaciale”.
Quando salgono sul palco i Lali Puna la domanda più grande è: il chitarrista dov'è? Si sapeva che già da tempo fra Valerie Trebeljahr e Markus Acher non correvano più buone acque nonostante il matrimonio e un'unione artistica durata quasi vent'anni, tuttavia ci si aspettava che la band fosse corsa ai ripari rimpiazzando il leader dei Notwist con un altro componente, quantomeno nelle esibizioni live. Così non è stato fatto ed inevitabilmente la performance ne ha risentito. Nonostante la formazione tedesca faccia dell'elettronica la sua componente fondamentale, è sotto gli occhi di tutti come molta della musica proposta da Valerie e soci abbia nella chitarra uno strumento fondamentale. Ascoltare i pattern di chitarra preregistrati o addirittura simulati con il synth (come nella conclusiva “Faking The Books”), fa storcere la bocca non poco oltre all'atavico problema dei live dei Lali Puna della voce di Valerie che difficilmente esce fuori al cospetto dell'intricato reticolo di suoni.
Nonostante questi problemi di assetto ed equalizzazione, i Lali Puna sono sempre loro ed in grande salute. Le emozioni salgono alle stelle quando l'attacco di “Scary World Theory” fa capolino, mentre la magnifica “Deep Dream” si conferma uno dei migliori pezzi della band, insieme a classici intramontabili come “Left Handed”, “Small Thing”, “Bi-Pet” e “Micronomic”. Ignorato con grande rammarico “Tridecoder”, viene dato ampio spazio all'ultimo album con il pezzo omonimo, “Wonderland”, “The Bucket” e “The Frame”, confermando la non totale riuscita dell'ultima uscita. Come già analizzato in sede di recensione, secondo il modesto parere di chi scrive, il trio berlinese ha nelle mani una carriera ancora non del tutto relegata all'esecuzione dei grandi classici del passato, bensì proiettata al futuro, come ben testimonia il picco di efficacia del live appena commentato proprio coincidente con “Deep Dream”. Sarà solo il tempo a dirci se Valerie e soci sono pronti per diventare grandi una seconda volta.
Ad aprire la serata ci pensano gli italiani Manitoba, band nostrana nata nel 2015 grazie al sodalizio artistico fra Giorgia Rossi Monti e Filippo Santini, poi aiutati dal produttore Samuele Cangi, responsabile della svolta alt-electro-rock della band. Sulla falsariga di certe alterazioni fra indie-rock ed electro, il trio sul palco non eccelle ma nemmeno demerita, mostrando una frontman femminile molto capace a tenere il palco ed un chitarrista di grande talento. Purtroppo i pattern elettronici a tratti paiono un po' ingessati e poco funzionali al suono complessivo. Chiaramente l'idea di smarcarsi dallo stilema del duo acustico è lodevole, tuttavia senza uno studio attento dell'integrazione fra due componenti molto differenti, si rischia di ottenere un qualcosa che è solo una via di mezzo fra vero cantautorato rock ed electro. Alla base di ciò però ci sono canzoni molto valide, fra tutte la bella “Glaciale”.
Quando salgono sul palco i Lali Puna la domanda più grande è: il chitarrista dov'è? Si sapeva che già da tempo fra Valerie Trebeljahr e Markus Acher non correvano più buone acque nonostante il matrimonio e un'unione artistica durata quasi vent'anni, tuttavia ci si aspettava che la band fosse corsa ai ripari rimpiazzando il leader dei Notwist con un altro componente, quantomeno nelle esibizioni live. Così non è stato fatto ed inevitabilmente la performance ne ha risentito. Nonostante la formazione tedesca faccia dell'elettronica la sua componente fondamentale, è sotto gli occhi di tutti come molta della musica proposta da Valerie e soci abbia nella chitarra uno strumento fondamentale. Ascoltare i pattern di chitarra preregistrati o addirittura simulati con il synth (come nella conclusiva “Faking The Books”), fa storcere la bocca non poco oltre all'atavico problema dei live dei Lali Puna della voce di Valerie che difficilmente esce fuori al cospetto dell'intricato reticolo di suoni.
Nonostante questi problemi di assetto ed equalizzazione, i Lali Puna sono sempre loro ed in grande salute. Le emozioni salgono alle stelle quando l'attacco di “Scary World Theory” fa capolino, mentre la magnifica “Deep Dream” si conferma uno dei migliori pezzi della band, insieme a classici intramontabili come “Left Handed”, “Small Thing”, “Bi-Pet” e “Micronomic”. Ignorato con grande rammarico “Tridecoder”, viene dato ampio spazio all'ultimo album con il pezzo omonimo, “Wonderland”, “The Bucket” e “The Frame”, confermando la non totale riuscita dell'ultima uscita. Come già analizzato in sede di recensione, secondo il modesto parere di chi scrive, il trio berlinese ha nelle mani una carriera ancora non del tutto relegata all'esecuzione dei grandi classici del passato, bensì proiettata al futuro, come ben testimonia il picco di efficacia del live appena commentato proprio coincidente con “Deep Dream”. Sarà solo il tempo a dirci se Valerie e soci sono pronti per diventare grandi una seconda volta.
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