Donne Techno-logiche
Sophie Rimheden: "Hi-Fi" (7,5)
Sophie Rimheden: s/t [8]
Sophie Rimheden: "Miss" (7+)
forte di un debutto grandioso come hi-fi, la ragazza in questione è un'artista con i fiocchi.
suoni minimali, screziati da una grande nuvola di glitch, minuzioso lavoro sulla voce, forte impronta al ritmo.
un AGF leggermente più pop a cui vengono sottratte le tentazioni avant, mai però scontata nè banale. precisione maniacale nel cesellare i ritmi, ombre di suoni smembrati, voci scomposte e ricucite in un microsecondo infinito.
sempre dall'esordio, Lovin' sbatte una percussione elettronica acidissima in primo piano, mettendo insieme un groove malato, In Your Mind è gommosa ed elastica, You è un capolavoro di pop strapazzato, snaturato, sviscerato. E ci sarebbe anche M, 60 secondi di parole spezzate appena uscite dalla bocca, accompagnata appena dopo da un groviglio malsano qual'è Panic, minimal-techno al sapore di click and cuts.
Sir Alice: "N°1" (7)
Sir Alice: "N° 2" (7,5)
Sir Alice: "?" (7)
la signorina in questione non è mica una di quelle tipe che scherza, eh.
artista a tutto tondo, collaboratrice in campo cinematografico, fashion designers, componente del laboratario dell'IRCAM, al cui interno si dedica agli studi per la fabbricazione di proprie macchine da utilizzare nelle sue performance.
vorrei soffermarmi su N°2, il mio preferito.
non ha genere questa musica.
si passa dall'electro spaziale e acidula di Superhero, scarice elettriche sotterranee di provenienza sconosciuta, rimbombi, ora sì, techno, veramente ingombranti e disorientanti in Technotronic, cantata in francese.
canzoni scomode, cattive, lasciate a sè stesse, senza un minimo di tatto.
E se Ballad si distingue per il suo procedere minimale ed estatico, Buda Is A Material Girl innesta bordate di rumore puramente pazzoidi, fra un'orgia di suoni provenienti da chissà dove, generati dalle sue opere.
L'Homme Qui Vient D'En Bas si invischia in atmosfere elettroniche darkeggianti, flebili, formando la colonna sonora per una palude scurissima, Onanisme conclude il disco con un rito digitale cantato dall'interno di navicella spaziale in movimento.
Leila: "Like Weather" (7,5)
Leila: "Courtesy Of Choice" (7)
altro tipino che che merita sul serio è questa leila, proveniente da un'esperienza con un'etichetta come la Rephlex. niente male come inizio, no?
Attiva con altri due moniker, essenzialmente utilizzate per lavori di remixing e supporto.
con Grammatix remixa la bellissima Desert della mia amata Emilie Simon, figurando nel singolo del primo album della francese.
con Little Miss Spectra, il suo apporto è profuso solo e soltanto nei confronti di Bjork, aiutandola nella produzione di un pezzo di Medulla, Where Is The Line.
venendo alla sua produzione principale, gli album all'attivo sono due.
elettronica fredda e silente, diretta verso il cuore del groove, mai sopre le righe nè eccessiva.
pescando a caso fra i due album, impressionano i patterns di archi nella splendida From Before...What?, flauti si scompongono con la tastiere di contorno nella simpatica Be Clowns, Luca Santucci canta in quel trip-hop spaziale che è So Low.. Amen.
magari il secondo è più ritmico e sostenuto, il primo si distingue per i residui del trip-hop che ci ricordiamo.
entrambi però hanno quel tocco di una produttrice elettronica più interessanti degli ultimi anni, peccato che ultimamente, che io sappia, non s'è più fatta sentire.
per quel che ricordi, in queste ultime settimane, il resto è questo:
Trespassers William: "Having" (7,5)
The Sundays: "Blind" (7)
The Sundays: "Static & Silence" (7-)
The Sundays: "Reading, Writing and Arithmetic" [8]
Velocity Girl: s/t (6,5)
Velocity Girl: "Simpatico" (7+)
Velocity Girl: "Gilded Stars and Zealous Hearts" (5)
Velocity GIrl: "Copacetic" (7,5)
Nanang Tatang: "Muki" [8]
venerdì 29 settembre 2006
lunedì 25 settembre 2006
Trespassers William: "Having" (Nettwerk, 2006)
Che la musica, nelle sue diverse espressioni, riesca a trascendere lo spazio ed il tempo è premessa certamente scontata, ma per nulla superflua quando si tratta di accostarsi alla musica dei Trespassers William, band californiana giunta con “Having” al suo terzo album, che propone una formula musicale davvero fuori dallo spazio e dal tempo, non solo per suggestioni ma anche per palesi riferimenti artistici.
Non cessa di sorprendere, infatti, potersi immergere, nel pieno degli anni 2000, in atmosfere delicatamente dilatate, farsi accarezzare da un’eterea voce femminile, mentre moderati impeti chitarristici attraversano, rendendole concrete, raffinate sospensioni temporali create ad arte ed evocate dal fascino avvolgente di brani che raggiungono spesso un risultato quasi ipnotico. Insomma, non capita spesso di imbattersi oggi in una band americana, al cui ascolto il pensiero vada alla sognante wave britannica coagulatasi, almeno tre lustri addietro, in particolare intorno alle etichette 4AD e Creation. Ma i Trespassers William sono tutto fuorché nostalgici epigoni di quei suoni, poiché alla soavità femminea dei Cocteau Twins e al romanticismo incantato degli Slowdive – peraltro non meramente riprodotti, ma rielaborati secondo una sensibilità moderna e personale – uniscono una pienezza artistica derivante da esperienze e fascinazioni musicali molteplici, comprensive di richiami a strutture folk dilatate, al cantautorato fragile e intimista di Red House Painters e, soprattutto, al movimento rallentato delle composizioni dei Low, reso quasi impercettibile e ancor più dilatato dai Coastal, altra band statunitense che con i Trespassers William condivide coordinate artistiche e propensione per toni fiochi e ritmi sfumati.
Il sogno inizia a prender corpo con la fiaba intitolata “Safe, Sound”: la ciondolante voce della cantante trasporta le menti al di fuori della realtà, le flebili note di chitarra emanano melodia satura di rumore, l’atmosfera carica di tensione sembra implodere da un momento all’altro, mantenendo fino alla fine un’inquietudine repressa, donando attimi di delicatezza unici.
“What Of Me” ha un piglio più sommesso, sempre incentrato sulla voce estatica di Anna-Lynne Williams, il canto di un cigno bianchissimo e splendente. Pochissimi sono i suoi elementi: qualche accordo di chitarra, piccole linee di tastiera, una batteria dai tratti slow-core, finissimi rivoli di armonia stracciata e povera. Un brano per i pomeriggi uggiosi, da occupare con una canzone e lo sguardo rivolto verso l’orizzonte.
La netta formula espressiva della band viene poi arricchita con l’aggiunta di trattamenti elettronici appena udibili e di una drum-machine sottile e tenue in “Weakening”, ballata straniante e rarefatta, introdotta da loop circolari la cui essenzialità si trasforma ben presto in grazia melodica avvolgente e pensosa, sospesa tra i dubbi e le testarde certezze richiamate dal suo testo.
“Eyes Like Bottles” si scioglie in un deserto di melodia polverosa, mentre “I Don’t Mind” inizia soffice e dilatata, con una voce sempre più emozionale, sprofondando in un oblio di feedback chittaristico di piacevole ma discreta rumorosità.
E se avete bisogno di sognare, non resta che chiudere gli occhi ed ascoltare “Ledge”, abbandonando lo spirito a quel groviglio di note fioche, sospese a mezz’aria, colorate come non mai. Le parole decantate con tatto fanciullesco completeranno un paesaggio sonoro mai così rigoglioso, leggermente screziato da toni oscuri, solcato da un arcobaleno luminoso.
“And We Lean In” gira intorno a un accordo di chitarra estatico, l’atmosfera si fa pregna di pathos, le varie note si presentano con pacata dolcezza. L’incontro fra linee melodiche differenti, i piccoli rumori puntigliosi, quel modo di cantare splendidamente oscuro, ogni singolo particolare contribuisce a spedire i sensi verso il cielo.
Nelle ultime tracce è poi la sottile malinconia, latente per tutto l’album, a prendere il sopravvento: la voce di Anna-Lynne Williams si fa ancora più suadente, avvolta da un’impalpabile coltre armonica, appena solcata da un andamento ritmico soffuso e accurato: così, in “My Hands Up”, e soprattutto nel suo finale in crescendo romantico, emergono ancora più evidenti le stimmate dell’eredità dreampop/shoegaze, mentre in “Low Point” è una melodia cullante a segnare uno dei passaggi più rilassati del lavoro, nel quale tuttavia l’apparente serenità resta sempre venata da un’introspezione profonda e delicata al tempo stesso. E in tema di introspezione, è la successiva “No One” a toccare una delle vette d’intensità dell’intero album, in una ballata quasi immobile il cui fulcro è ancora la voce di Anna-Lynne che, contornata dagli archi e da pochi altri effetti in lontananza, declina con grazia infinita il topos della canzone d’amore secondo la sensibilità della band, a metà tra il sogno richiamato dalla prima parte del testo e la desolata consapevolezza di un verso come “no one can punish me like I do”.
A coronare un album così ricco emotivamente, nonché articolato per contenuto musicale, provvede infine perfettamente “Matching Weight”, i cui oltre dieci minuti di durata sembrano riassumere le caratteristiche fondamentali alla base dell’intero lavoro: la dolcezza mai stucchevole della forma canzone, le avvolgenti dilatazioni ambientali e le asperità chitarristiche affioranti qua e là. Sono in fondo questi tutti elementi ben noti e sviluppati, in un passato più o meno recente, in molteplici esperienze artistiche; ma non per questo “Having” è un album nostalgico o emulativo. Anzi, la sua maggior qualità risiede proprio nella sapiente e personalissima fusione dei suoi elementi, grazie alla quale i Trespassers William conseguono un risultato esteticamente incantevole, dando luogo a un’opera profondamente calata in un microcosmo fatato e impalpabile, racchiusa in un attimo che sembra infinito, capace di sfuggire dal nostro controllo come un mucchietto di sabbia svanisce su una mano, eppure tenero e reale come un caldo abbraccio.
(7,5)
recensione di Biancalana Alessandro e Raffaello Russo
giovedì 21 settembre 2006
Coloma: "Finery" (Ware, 2003)
Rob Taylor e Alex Paulick provengono da Colonia. una città che di elettronica se ne intende, oh sì, eccome se c'è dentro.
il duo in questione è originario degli uk ma risiede in germania praticamente da sempre.
amanti delle pop-songs (sono pur sempre inglesi, no?), uniscono un grande gusto per la melodia canzonettara ad un preciso lavoro di sound-design.
qua dentro ci sta del synth-pop ibridato con campionamenti classici, c'è una gran voglia di sperimentare, c'è un uso discreto del glitch.
la voce di rob è bellissima e molto melodiosa, quasi in contrasto con i beat sincopati e storti, così sinuosa, capace di inserirsi in un contesto che non sarebbe nemmeno suo.
autori di un debutto carino (Silverware) ma niente di più, si fanno veramente notare nel 2002, quando al Sonar Festival, tirano fuori una performance da incorniciare. proprio in questo periodo arriva Finery.
The Second Closer Still mette insieme rigoli elettronici con un beat microscopico, cesellato con un'attenzione incredibile, ogni singolo suono sta al posto giusto. come anticipato in precedenza, il cantato è profondo e delizioso, un misto fra un vocalist techno e un cantante brit-pop. I piccoli tocchi di cassa impregnano l'atmosfera di un ritmo nero ed oscuro.
You Are Here è un tripudio di basslines assassine, campionamenti di chitarra, tastiere molto ambient, un groove irresistibilmente minimal. le loro canzoni sembrano prototipi cesellati in laboratorio, con microscopio, computer e analisi attentissime. nonostante le composizioni siano molto ricche, non c'è rischio di confusione, ogni elemento è dosato con il misurino. come si dice, il perfezionismo.
elemento caratterizzante, ancora, la voce. I frangenti del ritornello, in cui viene ripetuto il titolo della canzone, sono deliziosi.
Summer Clothes sa sedurre con classe, invischiata com'è fra partiture di piano, battiti sotterranei, archi angelici. Piccoli xilofoni riverberati donano quel tocco di sogno che rende il pezzo (quasi) perfetto.
Welcome To Arcadia scoppietta in sottofondo, il sottile strato di batteria è appena udibile, i vari componenti (chitarra, glitches, arpa) si ibridano con naturalità, senza intoppi.
If You Can't Be Good innesta la quarta, puntando verso un suono più percussivo e meno meditativo, si distingue per un andamento discontinuo, sempre supportato da elementi classici, un pò come i Telefon Tel Aviv dell'ultimo disco, con meno trattamenti digitali, posti semplicemente così come vengono suonati.
The Tailor accentua questa componente, accoppiando senza tante preacuzioni la componente elettronica con dei violini, con un risultato che definire riuscito è poco. con il proseguire del pezzo, si aggiunge un sostrato ritmico il cui marchio è spudoratamente minimal. forse potevo mettere deliziosamente invece di spudoratamente, bisogna vedere se siete dei nostalgici o meno.
Illegible Love si avvale dell'uso di un sax romanticissimo, oltre all'aiuto di Christoph Clöser, componente degli ottimi Bohren & Der Club Of Gore. forse il pezzo meno vario del disco, adagiato su un andamento un pochetto statico, anche se sempre positivo e mai scontato.
Green Eyes Of The Yellow God è il gioiello inconstrato del disco. Partenza composta da una partitura glitch bellissima e puntigliosa, i secondi vengono scanditi da un progessivo arricchirsi della struttura, fra sciabordate di basso, xilofoni, sdruciture elettroniche, il tutto impacchettato con il fiocco rosso, studiato nel minimo dettaglio. Un capolavoro di assemblaggio sonoro.
Gli ultimi due pezzi puntano su un tiro più dilungato e meno immediato, raddoppiando la durata, rispetto ai precedenti episodi. Le inutili lungaggini sono pericolosamente dietro l'angolo, ed invece ne viene fuori un qualcosa di meraviglioso.
Coat Of Senses pennella pregievoli panorami ambient, cantati con il cuore in mano, la finale If They Ask You To Stay, si impatana in un groviglio di battiti techno-idi attorniati da note di piano. la coppia finale perfetta, c'è poco da farci.
l'anno scorso se ne sono usciti con Dovetail, virando su sonorità più downtempo, con rimandi alla IDM, purtroppo senza grandi risultati. un disco insipidino, con qualche colpo geniale, ma pur sempre deludente. comunque sia, Finery, rimane un'opera tra le più curate nel panorama elettronico di questi anni, ingiustamente dimenticato da tutti.
sabato 16 settembre 2006
Orenda Fink: "Invisible Ones" (Saddle Creek, 2005)
orenda fink nasce nella metà degli anni 80 nell'alabama.
componente insieme a Maria Taylor (di cui segnalo 11-11) delle deliziose Azure Ray, fa parte, sempre insieme alla Taylor, anche della band indie-pop Now It's Overhead.
da ricordare, inoltre, il capriccio adolescenziale a nome Little Red Pocket, sempre in coppia con Maria, da cui sono nati due discreti album a cavallo degli anni 2000, Who Did You Pay (1997) e It's in the Sound (2000).
le due ragazze sono delle ottime compositrici, hanno delle trovate eccezionali e sanno cantare con gusto e intelligenza. insieme son capaci di grandi cose, come dimostrano tutti gli album cesellati nei vari progetti.
l'album in questione, per Orenda, è forse la più grande espressione delle qualità precedentemente solo appena sbocciate, come scrittrice e cantante.
in bilico fra un pop orchestrale e tentazioni folk, orenda ha un gusto melodico fuori dal comune. liberata da ogni (apparente) figura ingombrante, si impegna per realizzare un qualcosa di completamente suo, dall'inizio alla fine.
L'iniziale Leave It All si barcamena ciondolante su una linea di fisarmonica elettrica, un groove di batteria si strascica lento e sommesso, la voce si dipana con forza, i cori di sottofondo sono stupendi.
una canzone bella quanto il tramonto estivo più solare e colorato che c'è.
Invisible Ones Guard the Gate si basa sul piano, suonato divinamente da lei stessa, piccoli tocchi di violino impreziosiscono con gentilezza, un'atmosfera vagamente malinconica dona al pezzo un valore misterioso. La intepretazione si differenzia dalla precedente per un tono più oscuro e meno possente.
Bloodline ha un tiro più rock, incentrato sull'accoppiata basso/chitarra, reso incalzante da una batteria dritta e costante. Una nota di piano di troppo si lascia andare quando serve, la tastiera si dipana nell'aria con grande tatto.
Bling Asylium è un pop screziato da un contorno di archi appena pizzicati, cantanto flebile e delicato, un fiume d'emozione scorre fra i vicoli di questa canzone. un piccolo gioiello pop, raro, incantato, emozionante.
Tentazioni dream-pop, nella sognante Les Invisibiles, la canzone della felicità perduta la si può scovare in Miracle Worker, deliziosamente adagiata su un tappeto di tastiere appena percettibili.
Ancora quel dream-pop, amato fino alla follia, ricercato ed emulato in Evolution. La batteria innesta un ritmo ripetitivo di bellezza ossessionante, la chitarra si tuffa in una distorsione gentile, la voce, strinta in un abbraccio infinito con i cori, costruisce con i secondi un'atmosfera tutta personale ed emozionante. oscure notti ed una canzone da lasciar scorrere per non rimanere soli.
Ritorna il rock sporco e sdrucito in Dirty South, senza ovviamente andare sopra le righe con un episodio accessibile. Suono saturo di distorsione, battito rimbombante, voce dall'altro capo del mondo, un phatos che cresce piano piano, come il sole cade nella notte alla fine del giorno. il finale colmo di emozione si fa ricordare per il suo spessore, sempre in bilico fra rumore e melodia.
La bucolica Easter Island regala attimi di silenzio preziosi. fra un piano che suona stanco e spossato, le voci di sottofondo fungono da strumento, il cantato principale si perde e si ritrova in un'interpretazione toccante.
Tribale, con un'accento particolare, ancora, alle voci secondarie, conclude il disco il drumming sconosciuto di Animal, un titolo mai così azzeccato. L'alternarsi fra una nota veloce di violino e le parole, è un qualcosa che non ha prezzo, inestimabile per qualsiasi orecchio.
un disco sfuggente, scorbutico, di cui bisogna capire i capricci, per poi abbracciarlo completamente ed amarlo in ogni suo particolare.
giovedì 14 settembre 2006
Mono & World’s End Girlfriend: "Palmless Prayer / Mass Murder Refrain" (Temporary Residence, 2006)
L’amore per la musica strumentale è sempre stata una qualità innata. Può piacere, o non piacere.
Le composizioni lunghe, sommesse, placide, vagamente screziate da rumori di sottofondo, mai completamente veritiere, celate in una coltre di un’oscura melodia arcana, lasciate scorrere per il loro lungo cammino triste, malinconico, pessimista. Con un’opera come quella di cui stiamo per parlare, c’è da scommettere che anche i più schivi nei confronti di questa musica, ne abbracceranno con gelosia gli scampoli e gli angoli più nascosti, non si lasceranno scappare neppure il più piccolo suono.
I Mono e World’s End Girlfriend sono, rispettivamente, una band di post-rock e un fantasioso sperimentatore elettronico, entrambi provenienti dal Giappone. La collaborazione in questione è stata composta e completata precedentemente alla registrazione dell’ultimo disco a nome Mono, il bellissimo “You Are There”. Originariamente, venne pubblicato per l’etichetta giapponese Human Highway all’alba del 2005, ma, vista la grande richiesta, la lungimirante Temporary Residence ripubblica questo disco per il piacere di tutti noi.
La coesione artistica che lega questo gruppo di ragazzi si può facilmente carpire dalle bellissime performance live che ci sanno regalare. L’anima elettronica si fonde con grande forza e passione, attraverso un processo lungo e disteso, con la componente strumentale, spigolosa, quasi disturbante.
Una musica che nasce unica, mai disomogenea, sempre unita, un indistinguibile flusso melodioso che incanta e fa sognare, come pochi sanno fare. Il consiglio che diamo è di correre a vedere un loro concerto, magari senza aver ascoltato niente, con la curiosità di scoprire qualcosa di fantastico e irrinunciabile. Purtroppo il loro tour italiano s’è svolto intorno alla metà di luglio, ma non temete, amano l’Italia, e di sicuro torneranno.
Le cinque lunghe composizioni che compongono questo lavoro (circa un’ora e un quarto di durata totale) costituiscono il commovente distillato delle spiccate potenzialità emotive già espresse dai Mono, qui enfatizzate nelle loro componenti melodiche, oltre che dalla curatissima produzione ad opera di World’s End Girlfriend, dal copioso contributo di una strumentazione classica ed orchestrale, comprensiva del pianoforte, di un sax e di un terzetto d’archi. Tale presupposto potrebbe essere di per sé sufficiente a connotare e definire l’affascinante risultato artistico raggiunto dall’opera in questione, come la riuscita esplorazione, da parte di una band post-rock dall’impatto sonoro granitico, di territori mai così prossimi alla classica contemporanea, inevitabilmente riconducibili da presso alle esperienze di Rachel’s e Godspeed You! Black Emeperor. L’accostamento concettuale alle opere dell’ensemble coagulatosi intorno alla pianista Rachel Grimes, così come quello, più strettamente musicale, ai momenti più quieti ed orchestrali del collettivo canadese è infatti immediatamente suggerito dal lento dipanarsi di “Trailer 1”, che dopo una breve intro colorata da xilofoni veloci come stelle, pone da subito in primo piano il dialogo tra gli archi, romantico e struggente, appena contornato da un ritmo impalpabile che cresce silenziosamente, con garbo, mantenendo intatta la sua tensione emotiva, che permane repressa tra sottili meandri armonici, anziché sfociare in una troppo scontata esplosione.
Anche le restanti composizioni sono costruite sulla lenta e graduale stratificazione degli strumenti, secondo un registro espressivo dalle prevalenti tinte classiche, al cui interno l’abituale suono dei Mono si dissolve con discrezione, senza mai perdersi del tutto, ma restando in definitiva un po’ sullo sfondo di composizioni dalle profonde tinte cameristiche. All’interno di queste, permane immutata la ben nota impronta post-rock della band giapponese, che però, a differenza di quanto avveniva nel recente passato, si esprime qui non attraverso flussi distorsivi e ritmiche cadenzate, ma in composizioni apparentemente compassate eppure tanto serene quanto visionarie (“Trailer 2”). Soltanto in alcuni passaggi affiora un’indole vagamente “rock” (le virgolette sono quanto mai d’obbligo), materializzata dal basso gentile di Tamaki che introduce “Trailer 3” ed i suoi diciassette minuti di emozione pura, che coniugano melodia, classicità e lavorio distorsivo (ora finalmente lasciato libero di esprimersi) come nessuno è riuscito a fare dopo i sommi Godspeed You! Black Emperor. Ma anche laddove il contributo delle chitarre risulta più accentuato, come pure nel caso di “Trailer 5”, le più accurate attenzioni artistiche della band sono poste, senza remora alcuna, sulla melodia, sulla fluidità armonica di composizioni che richiedono grande pazienza ed applicazione tanto nella loro esecuzione che fruizione.
Alla compassata perizia tecnica di strutture armoniche al tempo stesso complesse e immediate, idealmente molto prossime a quelle delle ultime tracce di “You Are There”, si aggiunge poi un inedito gusto per limpide dilatazioni dalle sembianze quasi ambientali, arricchite dai cori eterei di “Trailer 4” e dall’emozionante pianoforte di Kazumasa Hashimoto, che, nelle ultime due tracce, completa on maniera mirabile le componenti “classiche” di un lavoro che non si colloca semplicemente come una parentesi rilassata del suono dei Mono, costituendone invece un completamento naturale.
In tal senso, non sembra fuori luogo considerare questi cinque lunghi brani strumentali proprio come la sublimazione di quello stesso suono, necessaria per comprendere appieno l’essenza di una band che tanto ha già regalato in passato e tanto riesce a far sognare in questi momenti, davanti al suono di un violoncello che pare il vento in un giorno di tempesta, un piano che lacrima note di angoscia, un’atmosfera lontana dall’immaginazione umana.
Alla compassata perizia tecnica di strutture armoniche al tempo stesso complesse e immediate, idealmente molto prossime a quelle delle ultime tracce di “You Are There”, si aggiunge poi un inedito gusto per limpide dilatazioni dalle sembianze quasi ambientali, arricchite dai cori eterei di “Trailer 4” e dall’emozionante pianoforte di Kazumasa Hashimoto, che, nelle ultime due tracce, completa on maniera mirabile le componenti “classiche” di un lavoro che non si colloca semplicemente come una parentesi rilassata del suono dei Mono, costituendone invece un completamento naturale.
In tal senso, non sembra fuori luogo considerare questi cinque lunghi brani strumentali proprio come la sublimazione di quello stesso suono, necessaria per comprendere appieno l’essenza di una band che tanto ha già regalato in passato e tanto riesce a far sognare in questi momenti, davanti al suono di un violoncello che pare il vento in un giorno di tempesta, un piano che lacrima note di angoscia, un’atmosfera lontana dall’immaginazione umana.
(7)
recensione di Biancalana Alessandro e Raffaello Russo.
sabato 9 settembre 2006
PLAYLIST OF THE WEEK -- 02/09 – 08/09
Metallari che crescono
Ulver: "Perdition City" (Jester Records, 2000)
band originariamente metal, e pure di quello che rigetto, si innammora dell'elettronica e tira fuori un disco di mutant-jazz.
atmosfere quasi trip-hop, battiti a bassa lega, sassofoni spaziali, un suono molto vario e intelligente.
sanno mettere assieme varie influenze (down-tempo, ambient, industrial) per cesellare canzoni dai tratti completamente disfatti e inusuali.
pezzi come Lost Moments, Porn Piece Or The Scars Of Cold Kisses e Hallways Of Always, rapportati con la prima produzione della band, sono sorprendenti. jazz trasfigurato da un immaginario elettronico, scampoli di piano torturato, distese sonore di bellezza atmosferica.
l'anima oscura è rimasta, solo che i suoni cambiano, tantissimo, e devo dire che le ultime produzioni sono di livello altissimo. una mistura di generi così omogenea e poliedrica solo pochi possono permettersela, ovviamente con risultati di questa portata.
Antimatter: "Saviour" (The End Records, 2002)
il cervello degli Antimatter, Duncan Patterson, militava originariamente nella band doom-metal Anathema.
la testa però gli dice che quella non è la sua strada e vira su sonorità completamente diverse con il suo progetto solita, affianciato da Mick Moss.
rock sporco, ritmiche quasi trip-hop, grande varietà di sonorità.
anche in questo caso, come per gli Ulver, la fantasia che ne esce fuori da questo cambio di rotta è sorprendente.
si passa dal dark-rock atmosferico di Saviour (bellissima la voce di Michelle Richfield), si giunge alle convulsioni elettroniche profondissime accoppiate con una chitarra sognante di Over Your Shoulder, si muove la testa al ritmo ossessionante di God Is Coming. Quest'ultima traccia è un vero e proprio capolavoro.
l'essenza povera ed scheletrica di Flowers, verso la fine del disco, dona all'opera qualità di natura sconosciuta.
Donne che cantano il loro dolore e la loro felicità
Feist: "Let It Die" (Polydor, 2004)
un disco commovente, nel vero senso della parola.
piccoli cristalli gentili e fragili, composizioni folk malinconiche e allegre al tempo stesso.
le emozioni che scaturiscono da queste tracce sono molte, passando con grande disinvoltura fra il dolore velato alla felicità sbarazzina.
perciò, si canticchia senza freno la deliziosa marcetta Mushaboom, si rimane con le lacrime agli occhi davanti alla nera When I Was A Young Girl, lasciano sbattere il cuore con il crescendo emozionale di Lonely Lonely.
vorrei soffermarmi su When I Was A Young Girl. una canzone che mi ha lasciato impressionato.
il ritmo è composto da percussioni tribali, schiocchi di dita e un linea di basso. la voce di leslie (questo il suo nome) è sofferta e profonda, canta la storia della sua vita in 3 minuti, lascia nell'aria immagini di sofferenza mai dimenticata. fantastica, veramente commovente.
Kathleen Edwards: "Failer" (Zoë, 2003)
qua le influenze sono di tutt'altro tipo, siamo più vicini a radici decisamente country, meno folk.
le emozioni, però, sì, quelle, rimangono sempre.
Kathleen ha una voce molto bella, sa usarla nel modo giusto e funzionale. mi sembra di sentire una Kristin Hersh, solo un pochettino più giovane..
Six O'Clock News è una ballata country elettrica molto spigliata e felice, One More Song The Radio Won't Like, si attesta su binari più docili, infatti il ritmo è cadenzato, meno sostenuto. la struttura piano-banjo-chitarra elettrica è sempre utilizzato in maniera fantasiosa, non c'è mai l'ombra di un clichè che si ripete all'infinito. i suoi testi raccontano di storie impronunciabili, ricordano passeggiate fra le praterie dell'America che fu, narrano momenti di bellezza cristallina.
una cantautrice sincera, adorabile, meritevole d'attenzione.
Emilie Simon: "Vegetal" (Barclay, 2006)
ho già parlato anche troppo di lei, sia nella mia recensione, sia nel thread della musica pop francese.
però in questa piccola carrellata di donne infantili che voglio parlare di sè, voglio metterla.
i suoi racconti sono splendidi e pervasi da un'ottimismo nemmeno poi così tanto marcato, il rifiuro per l'amore di Never Fall In Love rivela dissapori con i rapporti affettivi, My Old Friend la perdita di una figura importante, svanita, senza speranza.
emilie in questo disco ha messo tutta sè stessa, si è denudata di ogni protezione, ha lasciato andare il suo animo. e questo si sente, dalla prima all'ultima nota, dalla sua prima parola proferita, all'ultimo gemito vocale. lasciare andare Alicia in loop per delle ore è stato il mio passatempo negli interminabili viaggi in treno di ritorno a casa.
Ulver: "Perdition City" (Jester Records, 2000)
band originariamente metal, e pure di quello che rigetto, si innammora dell'elettronica e tira fuori un disco di mutant-jazz.
atmosfere quasi trip-hop, battiti a bassa lega, sassofoni spaziali, un suono molto vario e intelligente.
sanno mettere assieme varie influenze (down-tempo, ambient, industrial) per cesellare canzoni dai tratti completamente disfatti e inusuali.
pezzi come Lost Moments, Porn Piece Or The Scars Of Cold Kisses e Hallways Of Always, rapportati con la prima produzione della band, sono sorprendenti. jazz trasfigurato da un immaginario elettronico, scampoli di piano torturato, distese sonore di bellezza atmosferica.
l'anima oscura è rimasta, solo che i suoni cambiano, tantissimo, e devo dire che le ultime produzioni sono di livello altissimo. una mistura di generi così omogenea e poliedrica solo pochi possono permettersela, ovviamente con risultati di questa portata.
Antimatter: "Saviour" (The End Records, 2002)
il cervello degli Antimatter, Duncan Patterson, militava originariamente nella band doom-metal Anathema.
la testa però gli dice che quella non è la sua strada e vira su sonorità completamente diverse con il suo progetto solita, affianciato da Mick Moss.
rock sporco, ritmiche quasi trip-hop, grande varietà di sonorità.
anche in questo caso, come per gli Ulver, la fantasia che ne esce fuori da questo cambio di rotta è sorprendente.
si passa dal dark-rock atmosferico di Saviour (bellissima la voce di Michelle Richfield), si giunge alle convulsioni elettroniche profondissime accoppiate con una chitarra sognante di Over Your Shoulder, si muove la testa al ritmo ossessionante di God Is Coming. Quest'ultima traccia è un vero e proprio capolavoro.
l'essenza povera ed scheletrica di Flowers, verso la fine del disco, dona all'opera qualità di natura sconosciuta.
Donne che cantano il loro dolore e la loro felicità
Feist: "Let It Die" (Polydor, 2004)
un disco commovente, nel vero senso della parola.
piccoli cristalli gentili e fragili, composizioni folk malinconiche e allegre al tempo stesso.
le emozioni che scaturiscono da queste tracce sono molte, passando con grande disinvoltura fra il dolore velato alla felicità sbarazzina.
perciò, si canticchia senza freno la deliziosa marcetta Mushaboom, si rimane con le lacrime agli occhi davanti alla nera When I Was A Young Girl, lasciano sbattere il cuore con il crescendo emozionale di Lonely Lonely.
vorrei soffermarmi su When I Was A Young Girl. una canzone che mi ha lasciato impressionato.
il ritmo è composto da percussioni tribali, schiocchi di dita e un linea di basso. la voce di leslie (questo il suo nome) è sofferta e profonda, canta la storia della sua vita in 3 minuti, lascia nell'aria immagini di sofferenza mai dimenticata. fantastica, veramente commovente.
Kathleen Edwards: "Failer" (Zoë, 2003)
qua le influenze sono di tutt'altro tipo, siamo più vicini a radici decisamente country, meno folk.
le emozioni, però, sì, quelle, rimangono sempre.
Kathleen ha una voce molto bella, sa usarla nel modo giusto e funzionale. mi sembra di sentire una Kristin Hersh, solo un pochettino più giovane..
Six O'Clock News è una ballata country elettrica molto spigliata e felice, One More Song The Radio Won't Like, si attesta su binari più docili, infatti il ritmo è cadenzato, meno sostenuto. la struttura piano-banjo-chitarra elettrica è sempre utilizzato in maniera fantasiosa, non c'è mai l'ombra di un clichè che si ripete all'infinito. i suoi testi raccontano di storie impronunciabili, ricordano passeggiate fra le praterie dell'America che fu, narrano momenti di bellezza cristallina.
una cantautrice sincera, adorabile, meritevole d'attenzione.
Emilie Simon: "Vegetal" (Barclay, 2006)
ho già parlato anche troppo di lei, sia nella mia recensione, sia nel thread della musica pop francese.
però in questa piccola carrellata di donne infantili che voglio parlare di sè, voglio metterla.
i suoi racconti sono splendidi e pervasi da un'ottimismo nemmeno poi così tanto marcato, il rifiuro per l'amore di Never Fall In Love rivela dissapori con i rapporti affettivi, My Old Friend la perdita di una figura importante, svanita, senza speranza.
emilie in questo disco ha messo tutta sè stessa, si è denudata di ogni protezione, ha lasciato andare il suo animo. e questo si sente, dalla prima all'ultima nota, dalla sua prima parola proferita, all'ultimo gemito vocale. lasciare andare Alicia in loop per delle ore è stato il mio passatempo negli interminabili viaggi in treno di ritorno a casa.
A Guy Called Gerald: "Proto Acid / The Berlin Sessions" (Laboratory Instinct, 2006)
uno fra i più grandi innovatori e trascinatori del movimento techno inglese, torna nel 2006 con un album che è un viaggio interspaziale.
24 frammenti techno sguscianti e rimbombanti, piccole schegge elettroniche dalla potenza sotterranea.
un flusso continuo che non termina mai, fra battiti minimal, richiami drum'n'bass, sciabordate acidissime.
uno dei lavori d'elettronica più personali e riusciti del 2006 e forse pure degli ultimi anni.
per chi ama la techno, per chi ama l'elettronica, per chi ha voglia di sognare in un'ora di estasi digitale.
mercoledì 6 settembre 2006
Emilie Simon: "Vegetal" (Barclay, 2006)
La musica pop francese, negli ultimi anni, ci ha regalato artisti dal tocco melodico delizioso e adorabile. Dal lounge-pop dei Telepopmusik, passando per il folk-pop inusuale di Pauline Croze, approdando ai malinconici fraseggi cantautoriali di Keren Ann. Musiche molto diverse, magari inconciliabili, diverse dal punto di vista dell’approccio compositivo, ma pur sempre pervase da uno spirito di fondo comune. Un suono dolce, ovattato, conciliante, rassicurante. Canzoni per i cuori infranti.
In mezzo a questa scena emerge anche Emilie Simon. Presentata spesso come la Bjork francese. Dotata di una voce delicata e flebile come un vaso di porcellana, la ragazza non è soltanto un’ottima esecutrice. Produce ogni canzone presente nei suoi album, dimostra un discreto gusto melodico, sa cesellare suoni per niente scontati, non si lascia attrarre dal possibile successo “facile”, visto le sue doti fisiche (tradotto in parole povere: è una bellissima ragazza).
Autrice nel 2002 di un ottimo album d’esordio, intitolato semplicemente “Emilie Simon”, la cantante viene chiamata a scrivere la colonna sonora del film “La Marche de l'Empereur”, scritto e diretto da Luc Jacquet. Pubblicato in Italia con il nome “La Marcia Dei Pinguini”, il documentario narra la storia di un gruppo di pinguini impegnati a sopravvivere in un mondo ostile e cattivo. L’opera si rende magica e avvolgente grazie anche ai paesaggi sonori creati da Emilie, le immagini fluiscono con naturalità e la musica le attraversa rendendosi parte di esse, accompagnando lo spettatore nei momenti di felicità, narrando all’orecchio l’arrivare di uno scampolo di dolore.
Dopo un grande numero di esibizioni dal vivo in terra natia, Emilie inizia la registrazione del suo nuovo album, “Vegetal”.
L’album è un cesto di fiori rigogliosi, ogni qual volta se ne coglie uno, si percepisce un profumo diverso. Questa grande varietà è messa in atto attraverso la grande fantasia compositiva, peraltro già dimostrata in passato con le sue precedenti prove. Un approccio alla musica pop incantato, inconsueto, decisamente attraente, a suo modo nuovo ed innovativo.
“Alicia”, il pezzo d’ingresso, inizia con il suo refrain gentile, si trascina come una fiabetta minimale, sa regalare grandi emozioni. Il ritmo percussionistico è l’elemento portante su cui si aggiungono docili bollicine elettroniche, accordi di chitarra e gradevoli arrangiamenti classici. Si sentono chiari richiami ai maestri del pop francese, gli Stereolab. Tuttavia, la sensazione è che l’ispirazione non sia un viatico per traslare così com’erano i suoni, ma cercare di prenderne spunto e creare un qualcosa di personale.
“Fleur De Saison” ha un piglio più rock, l’uso della chitarra è più deciso e diretto, la parte ritmica si evidenzia (ancora) per una ricerca attenta e profonda, la voce di Emilie si trasforma da quella di una fatina a quella di una ragazza timida. Alcune eteree note di chitarra, in sottofondo, si sciolgono nell’aria con la stessa grazia con cui una goccia di rugiada cade su una foglia.
Prosegue “Le Vieil Amant”, forse il più bel pezzo scritto da Emilie nella sua carriera. Campionamenti fra i più disparati, note di piano casuali, glitches, xilofoni assortiti, percussioni piccole-piccole. Un pezzo ricco, cesellato con molta attenzione nel calibrare la presenza dei vari elementi ad ogni attimo, una canzone perfetta per momenti di perdizione fiabesca, adatta per le giornate destinate a rimanere anonime se non grazie a un gioiello di tal portata.
Entra in campo il cantato inglese e un altro centro nell’ossessiva “Sweet Blossom”. Le convulsioni elettroniche accostate ai passaggi classici (pare sia un contrabbasso) creano un’atmosfera fatata ma al contempo cupa e vagamente sognante. I vocalizzi in sottofondo sono un urlo che catapulta la nostra mente in uno stato di incanto.
Le tentazioni dream-pop di “Opium” sono ben gradite e riuscite in pieno, l’electro-pop di “Dame De Lotus” si districa con coraggio fra i clichè del genere, risultando un pezzo vario e non banale.
I campionamenti di “Swimming” ci fanno immaginare l’acqua di una piscina in movimento, con quel fruscio bagnato in sottofondo. I loop vocali, ancora una volta, donano un qualcosa di “diverso” al pezzo, così bello che lascia stupiti. La sua formula si evolve e non è mai uguale. Anche qua xilofoni, ma anche percussioni più profonde e rimbombanti. Nel ritornello, Emilie canta :”..I believe in your smile everyday..”, noi, al tuo sorriso, ci raffidiamo.
“In The Lake” si distende placida e cortese, i sibili elettronici, i rumorini irriconoscibili, la frase
:” Would to be my lover, in the lake..” ripetuta così tante volte da far perdere la testa, i magici inserti di flauto. La favola da presentare davanti a un bimbo in lacrime.
La batteria elettronica che introduce “Rose Hybride De Thé” è irresistibilmente magnetica, il groove con cui prosegue la canzone è sempre misurato e mai sopra le righe, l’ingegno (e l’apparente semplicità) con cui Emilie riesce (sempre) a costruire la melodia giusta, è sorprendente.
Testo sul rifiuto dell’amore in “Never Fall In Love”, accompagnato da una discreta compagine elettronica, peraltro soppiantando la componente acustica, ridotta al solo uso di qualche percussione.
Malinconia a fiotti, prima con “Annie”, canzone decisamente triste e crepuscolare (apprezzabili, ancora, gli scontri fra acustica e suoni digitali), poi “My Old Friend”, ballata dal sapore amaro, echi di dolore tornano indietro ferendo, il suono progressivamente si sgretola in un finale strumentale di raro garbo sonoro.
Conclude la lunga (per la sua media) “En Cendres”, toccante lascito emozionale in cui la voce di Emilie si dilunga in un finale di incredibile bellezza. Il termine di una vera e propria fiaba, quando sommessa e amatoriale, quando movimentata ed ossessionante. Una fiaba proveniente dalle mani e dalla mente di un’artista che non appartiene a questo pianeta, deliziosamente estranea, beata nel suo mondo pieno di fiori, nuvole colorate e arcobaleni.
(7,5)
recensione di Alessandro Biancalana
sabato 2 settembre 2006
Bowery Electric: "Lushlife" (Beggars Banquet, 2000)
nasce nel 1994 a Manhattan il duo Bowery Electric.
Lawrence Chandler e Martha Schwendener non hanno avuto e forse non avranno mai quello che si meritavano.
purtroppo hanno fatto il loro capolavoro troppo tardi, quando il carrozzone trip-hop era già finito.
non voglio certo dire che i precedenti dischi siano opere disprezzabili ma, come sempre succede agli out-siders del caso, la fortuna non è dalla loro parte.
Dopo due album discreti come l'omonimo ('95) e Beat ('96), la band, visto lo scarso successo, ha quasi in mente di sciogliersi. se non si conta la discreta raccolta di remix Vertigo, per più di 4 anni non si vede traccia di un disco nuovo.
all'alba del 2000, invece, esce Lushlife. ed è difficile uscire vivi da questa opera.
ritmiche serrate e sommesse immerse e sciolte in un mare di scratches, chitarre shoegaze, archi campionati. una musica notturna, sommessa, sordida.
la voce di Martha è un sogno ad occhi aperti, profonda, troppo profonda. fa quasi male ascoltarla. riesce ad emozionare ad ogni frangente, con ogni parola. ascoltare Floating World per rendersene conto.
sì, proprio il pezzo d'apertura. un ritmo ossessivo e ripetitivo si strascica rumoroso e martellante, sibili elettronici feriscono in ogni attimo, patterns di violino vengono lasciati andare liberi. note di basso pulsante si accoppiano con il battito irrefrenabile. martha, con l'oscurità nel cuore, ci lascia a bocca aperta per sensibilità melodica.
prosegue la title-track, un pezzo adatto per un film noir ambientato in un quartiere oscurato dalla notte più buia. innesti di chitarra si incastrano perfettamente con il beat incalzante, rumori di sottofondo paiono corde triturate, la voce è il canto di un angelo solitario. quasi un cantato dream-pop da tanto è leggiardio e sognante.
questa, forse, la trovata più azzeccata di tutto il disco. accoppiare due cose apparentemente discordanti come una voce distesa inserita in un contesto ritmico di tutt'altro regime, molto sostenuto e deciso.
lo scontro si rivela perfetto anche in questo caso. ancora quel basso suonato da martha mette insieme una serie di note che fanno rimbombare le orecchie, lo sciabordare del groove è un battito duro e cattivo.
tutti i suoni che si succedono secondo dopo secondo sono messi al posto giusto, non c'è un qualcosa fuori posto.
Shook Ones accentua la componente ritmica, imbastardendo la risonanza della cassa, questa volta acida e metallica. stesso registro esecutivo per la voce, aggiunta di qualche intervento elettronico in più.
i samples che si fanno vivi nel centro del pezzo sono ancora campionamenti di strumenti classici, le particelle digitali si liberano come bollicine nell'aria.
Psalms of Survival è più calma e fosca. incentrata su una serie di note ad alto tasso tossico, la tastiera questa volta ripete le solite tre note per tutto il pezzo, riuscendo a creare un circolo vizioso dagli effetti devastanti. si sente in lontananza ancora qualche intervento elettronico utile ad arricchire un pezzo già di per sè stupendo e contagioso.
Soul City può essere considerato come un passagio strumentale per calmare le acque. l'impianto basso-beat-tastiere riesce a costruire una melodia come raramente si riesce a sentire. sorprende la facilitià di questo duo nel riuscire nel mettere insieme con pochi mezzi dei motivi sonori a loro modo complessi e sensualissimi.
ed ecco l'unico singolo che verrà estratto dal disco, Freedom Fighter. in questo episodio si sente fortissima l'influenza shoegaze, visto che il suono proveniente dalle chitarre è saturo di feedback.
formula molto più ricca rispetto alla prima parte del disco. campionamenti tra i più disprati (oltre ai già citati strumenti classici si sentono clangori industriali), muri di rumore chitarristico, drones elettronici. un capolavoro, un vero e proprio capolavoro. bellissimo anche il video, visibile nel sito della band. ed interessanti anche i remix usciti nel maxi singolo associato alla canzone.
si susseguono con grande naturalità il trip-hop mutante di Saved, una ballata dub dalle tetre fattezze (Deep Blue), la notte vista al rallentatore, con lo sguardo rivolto verso la luna (After Landing).
le atmosfere si differenziano sempre e non si sente mai la parvenza di un riciclaggio, mai un'ombra di ripetitività. quandi ti aspetti un suono, loro ne piazzano un altro.
in coda al disco forse il pezzo più coraggioso, Passages. suoni elettronici al limite dell'ambient, assenza di chitarre, forte fiducia nell'ugola di martha che si prende la responsabilità di rimanere da sola con il solo apporto del beat fino alla metà del pezzo. il risultato finale, come ovvio, è sorpredente. sei minuti di completa estasi sognante, fra un charleston che sbatte, suoni diluiti e perforanti lasciano la mente intorpidita, piccoli cristalli di suono luccicano con forza commovente. la deriva finale composta da patterns vocali, scratches e piccoli accordi di chitarra è ciò che si può permettere un capolavoro.
il disco che tutti gli amanti del trip-hop dovrebbero avere, l'opera che tutti gli amanti della musica almeno una volta nella vita dovrebbero ascoltare.
venerdì 1 settembre 2006
Playlist 18/08/2006 <-> 01/09/2006
Mono & World's End Girlfriend: "Palmless Prayer / Mass Murder Refrain" (Temporary Limited Residence, 2006)
un disco già uscito nel 2005 da un'etichetta giapponese ma riesumato dalla temporary per la grande richiesta.
collaborazione tra i post-rockers più famosi del Sol Levante ed uno sperimentatore elettronico chiamato Katsuhiko Maeda.
il disco è composto da 5 movimenti profondi e introspettivi, lenti, distesi e oscuri.
un post-rock diverso e inusuale, pieno zeppo di strumenti classici e molto piano, suonato da quel genietto che è Kazumasa Hashimoto. Consigliato a chi ha amato l'ultimo disco dei Mono.
Everything but the girl: "The Language Of Life" (7,5)
Everything but the girl: "Walking Wounded" [8]
Everything but the girl: "Temperamental" (7)
mi mancano un paio di album remix e un disco ma credo d'esser riuscito af inquadrare il suono di questa band.
il primo disco che cronologicamente ho ascoltato è the language of life. fortemente influenzato dall'ondata synth-pop/new-romantic che invadeva il mondo della musica in quel periodo.
ma non solo synth, anche atmosfere jazzate, leggermente sospese, incentrate sulla bella voce di Tracey Thorn, sempre sinuosa e sensualissima.
poi l'elettronica si fa sempre più presente, traslando le coordinate stilistiche in una sorta di drum'n'bass mutuata al pop. tutto ciò lo si trova nel bellissimo Walking Wounded, in cui è presente una canzone che lascia attoniti come Before Today. Certo, anche Wrong non scherza per niente. un mezzo capolavoro di arte elettronica al servizio del pop.
poi ci stanno collaborazioni con i Massive Attack di Protection, copiose operazioni di remix (bellissima quella con Todd Terry), ed una sempre più progressiva immersione nel mondo dei club.
infatti, l'album del 1999, Temperamental, è un frullato micidiale di house e drum'n'bass percussiva che, sorprendentemente, si accoppia senza stridore con la voce mai così poliedrica di Tracey. In conclusione anche una collaborazione di Deep Dish.
hanno avuto poco successo a quanto sembra. ed invece se lo meritano, eccome se lo meritano..
Nika Soup And Saya Source: "Ipiya" (Ontonson, 2005)
saya source aka saya ueno, componente dei cacoy, tenniscoats e del complesso di musica avanguardistica Maher Shalal Hash Baz.
nika soup aka kazumi nikaido, autrice di album sognanti, al limite del folk, con tocchi di elettornica sordida e oscura, musica composta in punta di piedi e gracile, appena udibile.
si mettono insieme e cesellano un disco a dir poco incredibile.
pochi, pochissimi elementi. le loro due voci, qualche accordo di chitarra, percussioni sparute, note di banjo.
un'atmosfera di sacralità si diffonde quando l'intreccio di parole proveniente dell'iniziale Ipiyan Sing-Along prende il via. un motivetto che verrà riproposto ben 4 volte all'interno del disco, sempre arricchito da vari componenti, quasi a mostrare un'evoluzione progressiva nel loro modo di composizione.
perline microscopiche vengono proposte con il cuore in mano e un approccio alla musica fuori dal tempo pervade con forza durante l'ascolto.
Neighbor Dahlia (Tonarinodariya) è l'ossessivo ripetersi di un accordo sghembo a cui si fa compagno un fraseggio di flauto, a cui si uniscono le vocine delle due fanciulle in questione.
la marcetta minimale di Celemonia è un folk scanzonato e pastorale, giochini di voci in Aie Song (Aienouta), il pezzo glitch-pop che tutti vogliamo ascoltare quando siamo tristi è Answer From The Shooting Star (Ryuuseinoanswer).
i pezzi sono 19, uno più bello dell'altro, uno più delicato dell'altro.
[7,5]
Figurine: "Trasportation + Communication = Love" (7,5)
Bows: "Cassidy" (7+)
Scott Walker: "The Drift" (7+)
Nitin Sawhney: "Human" (7)
Lotterboys: "Animalia" (7)
Kuwabara Yukiko: "Kuwabara Yukiko To Anata" (7+)
Camera Obscura: "Let's Get Out of This Country" [8]
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