martedì 25 aprile 2006

Kazumasa Hashimoto: "Gllia" (Noble Records, 2006)



Uno dei compositori fra i più interessanti e fantasiosi della scena giapponese, torna a deliziare i nostri sensi con un altro viaggio sonoro fatto di luce, colori ed immagini sgranate. Come non citare le sue due precedenti opere?
“Yupi” rappresenta un perfetto crocevia fra musica classica minimale e un’elettronica gentile e soffice. Episodi di pura inventiva sonora dimostrano come, già alla prima prova, il Nostro fosse in possesso di una sensibilità musicale fuori dal comune e perizia compositiva d’assoluto valore. La dolcezza del suo suono e l’approccio essenzialmente pacato scaturiscono con timida prepotenza, cesellando un sogno musicale dai tratti fini e vivaci.
Con “Epitaph” piccole variazioni s’introducono, arricchendo una formula che già di per sé era ricchissimia di spunti. Il piano come strumento singolo si fa più presente ed anche qualche scomposizione elettronica in più s’addiziona, senza disturbare. In alcuni frangenti si sente l’eco di una vera e propria musica glitch applicata a partiture classiche. Non certo un’innovazione straordinaria ma applicata con gusto ed estrosità bambinesca.
“Gllia” è un disco molto diverso dai suoi precedenti. E’ un bene dirlo subito per evitare equivoci. Un’opera molto più distesa, meno frammentaria e formata da “episodi”, più omogenea e orchestrale. Kazumasa si dev’essere accorto che aveva esaurito le cartuccie con le precedenti soluzioni stilistiche o semplicemente c’è stata un’evoluzione naturale e spontanea. La durata delle tracce all’incirca rimane la stessa, con l’alternanza fra pezzi dilungati e piccole suite di un minuto circa, per spezzare l’atmosfera o per impreziosirla, a seconda dei punti di vista. 


Il principio è affidato a quel bozzetto tenero e amatoriale che è “Theme”, una voce introversa ci racconta una storiellina semplice semplice, il piano spruzza colori nell’aria con le sue note cristalline, un delizioso sottofondo brulicante è un tappetto accogliente come non mai.
“Mr. Gleam” è un (perfetto) incontro fra i Rachel’s più intimisti e i due Matmos amanti della musica elettronica scomposta (incontro nemmeno tanto fantastico, visto che i due gruppi hanno collaborato davvero). La composizione si basa su una serie di bleeps morbidi, una batteria suonata con un fare gentile, ancora una voce appartata decanta una poesia appena sussurrata, quasi con la paura di esporsi. Il tutto si dispiega con sorprendente naturalità, fra un cello che zittisce il silenzio, un ritmo claudicante, e una serie di pause intrise di vivacità sorniona.
“Monochrome Prome” è una visione onirica che si fa reale attraverso uno xilofono che tintinna luminoso, piccole note di tastiera ripetitive sono una piacevole ossessione, una voce (questa volta maschile) riferisce la sua fiaba robotica, con una mano sul cuore e la mente immersa fra le nuvole più bianche del cielo. Un’attitudine sognante ricopre tutto il pezzo, disegnando trame melodiche d’una finezza incontenibile.
“001[far]” è un piccolo siparietto per una chitarra che strimpella scomposta, un oblio di complessità strumentale, stille di elettronica gelida, un arco tagliente e un qualcosa di misterioso che cattura, nonostante nasconda la sua identità.
Se credete che il pop possa ancora essere contaminato, rimarrete piacevolmente impressionati da un gioiellino raffinato come “Ne connissons”, se non disorientati ma al contempo accarezzati dal frattelo gemello di “Theme”, “Ruinruin”. 


La title-track trasuda passione, da ogni lato la si guardi, regalandoci una tenue atmosfera estatica, ancora note di chitarra dal fare educato, un piano saltella con un piede solo, lo xilofono disegna un cielo con l’arcobaleno ricco di sfumature mai uguali. Sul finale, un marasma orchestrale crea un qualcosa di unico e inestimabile, scampoli di un immaginario pianeta dove gli alberi sono sempre verdi e robusti, non ci sono mai nuvole nere e il sole splende riscaldando cuori dolenti.
Quadrettino finemente ricamato nella successiva “002[esbia]", abbellito da una percussione magica e un dondolare incontrollato di timbri evanescenti, una sorta di jazz mutante (?!) si presenta in “Milmils”, un rullante suonato per una marcetta primaverile, s’aggiunge un contrabbasso pulsante, decorando un dipinto rifinito nel più piccolo particolare.
Lasciar andare il cuore a “Drama” è semplice. Distendersi in un prato rigoglioso, quando il sole sta leggermente calando, farsi circondare dalle note, senza opporre resistenza, viaggiare con la mente per lidi immaginifici, socchiudere gli occhi, sognare che l’impossibile possa avvenire, veder scorrere i fotogrammi della propria vita. Ed il suo suono proliferà nel vostro essere, risanando ogni male, rigenerando un animo malandanto, soccorrendo un’anima sofferente.
La conclusione di questo peregrinare fra paradisi terreni e ambientazioni candide, spetta a una cascata di suoni che si inseguono a vicenda (“The happy days passed like a dream”), seguita poco dopo dalla sibilante “Curtainfall” che termina con un incedere fra l’amatoriale e il malinconico.
Consiglio vivamente questo disco a chi non sa dove riporre i propri dolori, facendosi cullare delicatamente, e agli altri, nonostante tutto, credo che il proprio cuore non potrà rimanere impassibile davanti a questa manciata di canzoni, fatte apposta per intenerire anche l’animo più terribile.

(7,5)

recensione di Alessandro Biancalana

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