giovedì 9 febbraio 2006

LAURENT GARNIER










La faccia bastarda dell’house. Il tocco sopraffino di un perfezionista. Catastrofi parigine per notti d’altri tempi. Musicista, produttore e compositore. Alieno e terreno. Delicato e cattivo. Se la lotta per la diffusione delle (nuove) sonorità elettroniche tra Francia ed Inghilterra vede vincitrice la prima lo dobbiamo proprio a Garnier.



Nato nel 1966 a Boulogne Sur Seine nella Francia più oscura che mai, il Nostro, inizia già dalla prima adolescenza a ricamare suoni nella sua testa. Colorare il cielo con i suoi pensieri immaginifici.



DJ prima a Londra eppoi a Manchester negli anni ’80. Nella decade successiva riesce ad evolvere sia come musicista puro, sia come animale da console. Con il passare del tempo riesce a farsi conoscere nel giro che conta, per poi diventare uno dei più grandi DJ sulla faccia della terra. Proprio la sua attività estroversa di Djing a Manchester (nel leggendario Haçienda club), durante la fine degli ’80, influenzerà in maniera palese gruppi come Stone Roses e Happy Mondays, nel modo di miscelare ritmi rock con cadenze dance. Agli inizi degli anni novanta si sposta verso Parigi e continua la sua attività al The Wake, sempre con una personalità impressionante.



Dopo questo apprendistato, utilissimo per la sua formazione, gli viene affidata la sezione dance della francese FNAC, dove vengono dati alle stampe i suoi primi lavori, insieme a quelli di gente come Ludovic Navarre, DJ Deep, Shazz. Da segnalare in questo periodo un piccolo EP dal nome "A Bout de Souffle”. Ricami interstellari troppo vicini alla terra per essere considerati significativi. Rimane utile il suo ascolto per comprendere l’evoluzione del suono garnieriano. L’esperienza, gestita insieme al suo socio Eric Morand, che dura dal ’92 al ’94 porta il duo a creare una nuova etichetta. F Communications. French-Touch is now active. Da subito la suddetta si distingue per un grandissimo lavoro di sdoganamento del suono francese in giro per i club del mondo. Ancora prima del baraccone neo-disco di gente come Daft Punk, Cassius e via discorrendo.



Carriera discografia nell’olimpo dell’elettornica. Strabordante perfezione. Connubio folgorante di deep-house, Detroit-techno, influenze ammorbanti acid/trance e una sorprendete vena jazzy. Paesaggi per animi vaganti. Battiti inumani e sangue gelido. Macchine al servizio del ballo. Danzare sotto la luna e lasciarsi andare fino allo sfinimento in un movimento continuo. Tribalismi in una notte d’estate caldissima e soffocante. Aria assente. Solo il battito smuove un immobilità stagnante. Prima vera prova sulla lunga distanza e siamo già nello spazio. Correva l’anno 1995. “Shot In The Dark” lascia allibiti per poliedricità, freschezza, varietà. Collisioni techno, schianti electro, ossessionanti bleeps, deragliante pienezza, rivoluzione, emozioni. “Shapes Under Water” è un sogno fatto di mostruosi tornadi sonori, battute basse e minimali, contrappunti infinitesimali. Lasciar correre i sette minuti abbondanti ed abbandonare i sensi. Tastiere cosmiche, sul finire, allibiscono.



“Geometric World” è uno schianto di rumore abrasivo e scorticante. Rimandi alla scena hardcore risultano evidenti.

“Rex Attitude” con il suo incedere hard-house omaggia lo storico club parigino “Rex”. “Astral Dreams” è un inno detroitiano trasfigurato con fermezza encomiabile. Cassa dritta come la traiettoria di un proiettile, screziature electro in sottofondo, synth lacerante come una coltellata in pieno stomaco. Un palpito ripetitivo ti sbatte al muro con una forza mastodintica e ti lascia senza fiato. Orrorifica suite deep-house per un cimitero su Marte in “Bouncing Metal”. Una sezione tastieristica mutata a mò di organo alieno compone un sottofondo delirante. Pare di sentire un Lil’ Louis immerso in un mare di buio. Roteanti timbri appaiono sovente negli angoli piu nascosti del procedere. Passando per l’apocallisse disco “Silver Strings” ci inoltriamo nelle profonde dinamiche cavernicole di “022”. Strepitoso anthem disco al rallentatore in “Rising Spirit”. Crisi nervosa ascoltando “Raw Cut”. Esordio da maestro che sfata il mito per cui Garnier sarebbe solamente un ottimo dj ma non un produttore di qualità. Chapeau.



Lo stesso anno arricchisce il suo repertorio con un album transitorio: “Mixmag Live!, Vol. 19”. Nel frattempo si diverte a remixare mezza storia della musica elettronica e manda alle stampe “Laboratoire Mix” (uscito nel 1996). Green Velvet, Neil Landstrumm, Juan Atkins, Aux88, K Hand. Solo alcuni dei nomi degli artisti sfigurati dalla sapiente mano di Laurent. Un pezzo essenziale della sua discografia. Uno dei migliori lavori della filosofia del mixing mai pubblicati. Lo stesso anno quelli dell’etichetta Never pensano bene di venirsi fuori con best. “Raw Works” comprende un po’ tutti i suoi primi classici. Da “Butterfly” a “Rex Attitude”. Passando per “Orgasm”, fino al cataclisma di “Aquarius”. Sbarcati nel ’97 il Nostro rilascia 30. Un album diverso ed influenzato dalla marea di nuove tendenze nel mondo dell’elettronica. Incursioni trip-hop, dub offuscato, emulazioni eccellenti, sketch azzardati. Un’opera coraggiosa, apprezzabile dal punto di vista della proposta nelle sue “intenzioni”. Disco contraddittorio e caratterizzato da frequenti alti e bassi. Il risultato, purtroppo, risulta, nel complesso, fuori bersaglio. Ambient annacquato e senza mordente nell’iniziale “Deep Sea Diving”. Piccoli rigurgiti elettronici fanno da sfondo ma non convince.



Va un po’ meglio nella successiva “Sweet Mellow D” in cui una ritmica dub viene screziata da una tastiera iper-cosmica e da una miriade di bleeps. Un battito preciso e puntuale da il là al ritmo e si viene condotti al termine con un sapore agrodolce. Non male, ci si aspetta di meglio da lui. Primo pezzo veramente alla sua altezza nella bomba da club di “Crispy Bacon”. Cataclisma di stomp e staffilate di una potenza impressionante. Un synth con una precisione chirurgica cesella un intromissione frizzante, nel sottofondo dei battiti. Acidità allo stato puro. Altra caduta di stile in “For Max”. Cadenze trip-hop che non fanno onore al suo nome. Un andamento strascicato e claudicante si ripete per tutto il pezzo con instabilità synth-etiche ma non c’è quel tocco in più che puo’ rendere il pezzo memorabile. Come detto poc’anzi: apprezzabile l’intento, incerto il risultato. Ritorniamo sul pianeta “garnieriano” con il numero da club che è “The Hoe”. Campionamenti vocali in completo amplesso sono affondati da un marasma di colpi, schiocchi, stomp, folate, rullanti spaziali. Completa estasi psico-fisica. “Mid Summer Night” lascia, ancora, perplessi. Una sorta di minimal-techno con tripudi variegati di tastiere d’ogni sorta. Nel complesso il pezzo non dispiace ma, davvero, Garnier puo’ e deve fare di più. “Kall It!” alza ancora un po’ il livello dell’opera con una pastiglia liofilizzata di micro-house. Voce vocoderata e sezione percussionistica molto minimal. Anime sonore vagano indisturbate mentre timbri d’ogni sorta lasciano un impronta ben marcata. La “Minute Du Repondeur Le Plus” è un minuto abbondante di campionamenti vocali al telefono. Divertente.







“Theme for Larry’s Dub” rappresenta una forzatura dub abbastanza evitabile. Si percepisce l’estranietà dell’episodio nel contesto del disco e sa molto di riempitivo. Flauti e percussioni afro lasciano l’amaro in bocca non perché il genere non possa essere commutato electro (ci mancherebbe, Mad Professor insegna) ma perché il pezzo in se ha poco da dire. Coraggioso ma azzardato e senza mordente. “Feel the Fire” è una sorta di soul meccanizzato per piccoli essere nostalgici. Andamento pacato e non eccessivamente movimentato. Battiti regolari e metronomici. Vocalizzi spezzati di una voce svogliata. Siamo nella normalità e niente si distacca dalla routine. Quando c’è il sentore di un finale d’opera deludente (come in parte tutto il disco) il Nostro piazza una bomba al fulmicotone come “Flashback” (in memoria del defunto Armando). Distruttiva. Mina vagante. Una cassa interstellare sfonda il muro del suono, percussioni vere arricchiscono una struttura già di per se satura all’inverosimile. Otto minuti di movimento. Otto minuti di perfezione dance. Funk meccanizzato nella frizzante “I Funk Up”. Richiami kraftwerkiani (ne dubitavate?) e un ritmo oscuro compongono un pezzo veramente atipico per la produzione di Garnier. Questa volta, però, l’esperimento riesce e ci troviamo davanti ad un andamento contagioso ed ammorbante. Un basso marziano ricama saltellanti contrappunti sincopati. Folate di un synth sornione lasciano un segno straniante al tutto. Parentesi(na) per voci(na) femminile infantile trattata elettronicamente nella penultima “*?*”. Finale affidato ad un pezzo dark-ambient (“Le Voyage De Simone”). Par di sentire dei Dead Can Dance virati electro. L’andamento è sinuoso, ammaliante, onirico e non dispiace. In conclusione ci troviamo davanti, come detto in principio, ad un disco transitorio ma fondamentale per l’iter artistico dell’artista. Si permette di sperimentare varie soluzioni e ne trae le proprie conclusioni. Consapevole della propria forza e dei propri limiti, prosegue con una linea più coerente e si immerge nel suo mondo di immagini aliene. Anno ricco di uscite il ‘98. Ben due lavori. Le performance live come DJ di “X-Mix-2: Destination Planet Dream” (su !K7) e l’antologia dei suoi (primi) successi di “Early Works” (su Arcade). Estenuante session di 70 minuti presente nel primo disco citato. Ecco gli artisti coinvolti all’interno dell’ora abbondante:A.S.I.O., Robert Armani, Dea, H.M.C., Karl Kowalski, Kenny Larkin, Guillaume La Tortue, Brian Transeau. Completa padronanza nella tecnica del mixing. Sfigurare in maniera irriconoscibile una miriade di mostri sacri. Lasciarsi andare in un turbine di ritmo, movimento, fantasia, cataclismi, catastrofi. Turbine cosmica di techno, house, acid, trance. Avvolgente ripetersi di suoni mastodontici e completa assenza di spazio. Vengono sfruttate al massimo le potenzialità dell’elettronica. Da segnalare in particolare il remix di Carl Craig, spaccare in due la natura di un pezzo e renderlo ancora più soffocante. Strabordante perfezione.



Come può suggerire il titolo, la raccolta su Arcade raccoglie i primi preziosissimi lavori, composti in età post-adolescenziale. Si definisce in maniera perfetta la linea su cui l’autore s’è poi diretto negli anni della maturità. “Acid Eiffel” emana spore velonose d’ossessionante pericolosità e lascia un omaggio parigino alla mecca della techno: Detroit. “Wake Up” è un completo coacervo di stomp techno, classico dei primi anni ’90. Periodo magico per i rave europei. Trance sinuosa ed ipnotizzante, presente in pezzi come “Lost In Alaska” e “Virtual Breakdown”, lascia in (e)stasi. Ricami di colorata flessibilità house nell’ ombrosa “Moonbeam”. Strazianti battiti stellari in “Breathless”. L’anno dopo (’99) esce la stessa versione della raccolta con un solo cd, la selezione è praticamente la stessa, con l’aggiunta qua e la di qualche pezzo (splendida “Join Hands”). Qualunque sia la versione rimane una raccolta essenziale. Arriva il 2000. Nuovo millennio. E giugne anche il capolavoro assoluto di Garnier. Vetta assoluta dell’elettronica mondiale e dello stesso artista. L’album della maturità che doveva essere e non è stato “30”. Poliedricità stilistica fuori da ogni concenzione.



 



Unreasonable Behaviour non è album. E’ un miracolo. Lasciarsi condurre da un suono senza meta. Colonna sonora delle notti del ventunesimo millennio. Club affollati. Miriadi di teste vaganti. Ballo ed ascolto. Orgiastico movimento di corpi. Deteriorante battito per esseri provenienti da un pianeta sconosciuto.

Ambient cavernicolo nell’iniziale “The Warning”. Un minuto abbondante di sotterranea frustrazione sonora. Sorta di suite ambient-jazzy-house per la successiva “City Sphere”. Base ritmica composta da un contrabbasso ricamante polpose linee melodiche. Varia spazzatura analogica/acustica compone un sostrato perfettamente in sintonia con un synth squisatamente melodico e spumoso. Un jazz sfigurato nelle sue più intime viscere. Scabrosa caduta negli inferi più morbosi dell’animo umano rappresenta Forgotten Thoughts. Un sottofondo di puro delay ci accompagna per tutto il pezzo, senza accennare a diminuire. Folate di vento freddissimo sovente si presentano. Una sezione ritmica molto timida cerca di prendere in mano la situazione. Ma quell’anima sonora di disturbante presenza non cenna a lasciare spazio al resto. Scricchiolanti intromissioni digitali danno un tocco orrorifico. Encomiabile. Eccoci al pezzo simbolo del disco. Apocalittica distruzione sonora in “The Sound Of Big Babou”. Non c’è scampo davanti a questi 8 minuti. Un continuo rimbalzare di stomp techno, delirio house, synth freddissimi e laceranti, stop-and-go. Non c’è tregua. Minuti fatti di movimento, passione, sudore, amore, schizzofrenia. Una cassa precisa e puntuale detta un ritmo martellante, assillante, insistente, intenso, incalzante. Putiferio di macchine al servizio di una rivoluzione spaziale. Disturbante rumore di sottofondo compone attimi di lucida pazzia. Una pausa, intorno alla metà del pezzo, lascia presagire un finale pacato. Improvviso il groove ritorna con una potenza imminente. Finale da olimpo techno. Impressionante. Bozzettino kraftwerkiano per voce vocoderata nella title-track. Ricorda spudoratamente i consigli robotici di Fitter Happier, di radioheadiana memoria. Break-beat a pioggia nella seguente “Cycles d’Oppositions”. Ammirevole quadretto composto da un drone di sottofondo ed una miriade di instabilità simil-digitali che convincono appieno. Ancora un piglio oscuro e malinconico contrassegna la prima parte del disco. Da sottolineare la vena sperimentale che prende (in parte) il posto del mood da club a cui c’aveva abituato il Nostro. Risulta una via di mezzo tra un suono giusto per un locale cool ed una discoteca mediamente dance-oriented.Lussureggiante inteventi di sax e tastiere vintage in “The Man With Red Face”. L’attitudine jazzy viene fuori con risultati apprezzabilissimi, lasciando allibiti e piacevolmente sorpresi. Ancora un battito d’altri tempi comanda un ciclico ripetersi del ritmo. Ineccepibile. Altra perla di sotterranea visionarietà nei cinque minuti di “Communications for the Lab”. Mid-tempo solcato da titubanti timbri pianistici ed infine martoriato da rintocchi precisi e mirati. “Greed” è da crisi epilettica, cesellando una suite con voce filtrata, rullante polveroso ed accenni tastieristici di fastidiosa bellezza. Divisa in due parti abbastanza speculari in termini di piglio ritmico e attitudine sonora.

Estenuanti 14 minuti di techno virata hardcore di “Dangerous Drive”. Vero pezzo in cui Garnier torna alle sue origini. Ci propina attimi di completa saturazione sonora miscelando sapientemente battiti periodici, escrudescenze digitali e rumori cosmici. Nessuna via d’uscita dalle viscere di quest’episodio. Inarrivabile compiutezza sonora. Trip fisico/mentale. Viaggio per luoghi senza aria. Assenza di spazio. Mancanza di stabilità. Duetto finale composto dalla scarnificazione sonora di “Downfall” e l’ambient luciferino di “Last Tribute From The 20th Century”. Un disco fondamentale per cui non si puo’ parlare a ragione d’elettronica se non lo si è ascoltato. Un evoluzione dal punto di vista stilistico e qualitativo da parte del Nostro. Fare tesoro delle lezioni impartite dal sound detroitiano e dalla proprio natura occidentale per partorire una delle miscele sonore più innovative mai concepite. Passano 3 anni prima che la sua attività discografica riprenda a macinare suoni quando nel 2004 esce “Excess Luggage”. Mastodontica raccolta di remix e collaborazioni varie distribuita su quattro cd. Riassume in maniera calligrafica ogni più piccola particolarità del suo modo di trattare la musica. Un filo conduttore unisce un apparente miscuglio confusionario di tendenze dance-pop, techno, house, trance e chi più ne ha ne metta. C’è il rischio di perdersi un po’ all’interno di quest’opera. Con la dovuta cautela, comunque, si riuscirà ad apprezzare appieno tutte le sfumature. Arriviamo nel 2005 ed è escono due lavori. Altra raccolta di remix e, più importante, l’ultimo album di studio.







Sbrighiamoci velocemente con il primo citato essendo un’opera simile alle precedenti descritte, di questo tipo. “Life: Styles” raccoglie recentissimi successi da lui remixati con la solita sapienza che ormai lo contraddistingue. Dal quadretto dance-pop di “The End” di John Carpenter fino all’ammaliante “I Get Lifted” di George McRae. Giungiamo infine al suo ultimissimo lavoro alla lunga distanza, intitolato “The Cloud Making Machine”. “The Cloud Making Machine Part 1” è una proto-ambient scabrosa e misteriosa. Anime sonore viaggiano con delicatezza, emanando rumore e misticità. Voci sfigurate sembrano lamentarsi, tastiere irriconoscibili ricamano disegni sinuosi nell’aria. “9.01-9.06” sembra IDM plasmata house, ci pare di sentire vagiti di dub ma s’intromettono campionamenti di contrabbasso che sanno di jazz. Poliedrico. Se “Barbiturik Blues” ipotizza una musica aliena, da proporre in ambienti solitari, “Huis Cois” è un pezzo che non ha niente da proporre, con partiture di piano/chitarra veramente sciatte e banali con un cantato altrettanto trascurabile. “Act. 1 Minotaure Ex.” è una suite molto ben costruita e inspirata, tra organi synth-etici, campionamenti di strumenti ad arco e spezzettamenti che sanno di sperimentazione. “First Reaction (V2)” è una sorta di abscract-hip-hop, con andamento ambient e beat trascinante. Varie tastierine microscopiche lasciano piccole note puntigliose, un tappetto sonoro sa di spazio e stelle. La voce è molto potente e sciorina rime e parole dolorose. Il complesso è compiutezza allo stato puro.“Controlling the House Part 2” è molto sommessa e appartata. Il ritmo non prende il largo e il contorno non contribuisce a (ri)creare un’atmosfera contagiosa. Sottotono. “(I Wanna Be) Waiting for My Plane” è un electro-clash scabrosa e tirata, risultando alla fine molto riuscita. Un pezzo da concerto rock per amanti della techno. Tirando le somme il disco, fino a questo punto, non contiene veri e propri “capolavori”. Detto fatto. Ecco “Jeux D’Enfants”. Voci di bambini sono sovrastate, pestate, sfigurate da un mare di battiti sconclusionati, marasma percussionistico aletorio e casuale. Ancora un organo dilungato sembra costruire la strada con cui percorrere i vicoli oscuri del pezzo, il suono si riduce e si espande, prolifera ed esplode. Il finale è pace, dopo uno scontro di milioni palline da flipper contro le parete della nostra mente. Un bimbo ci canta una filastrocca. Conclude “The Cloud Making Machine Part 2” continuando il discorso iniziato dalla prima traccia, con l’aggiunta di un violino pungente e triturante. Il solito Garnier, se vogliamo. Un disco di alti e bassi, tra pezzi di classe inarrivabile e delusioni sorpredenti. Il percorso termina, la faccia bastarda dell’house si ripone e si nasconde. Il perfezionista dell’elettronica arriva alla fine del 2005 con una consapevolezza. La certezza di essere uno dei personaggi più importanti di sempre riguardo una certa musica. Una musica danzante e ondeggiante. Una musica fatta per attimi di pazzia. Frangenti di instabilità. Scampoli di bellezza interplanetaria.

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