mercoledì 25 gennaio 2006



The Lappetites: "Before The Libretto" (Quecksilber, 2005)

Quattro “donne” dai background differenti s’ingegnano per creare suoni adatti a un mondo oscuro e meccanico.
Elaine Radigue è stata allieva di un certo Pierre e nella sua vita ha sempre cercato di creare un connubio estetizzante tra suoni ed immagini. Le sue performance sanno di avanguardia quanto di innovazione elettronica e sono piacevolissime. Tra le sue opere da segnalare “Kyema” e “Jetsun Mila”. Due lavori caratterizzati da un approccio isolazionista, un continuo distruggersi d’una melodia creata per essere uccisa.
Kaffe Matthews è una delle artiste più attive nell’ambito dell’elettronica applicata alle immagini, dimostrando appieno le sue capacità nelle performance dal vivo. Negli anni è riuscita a trovare un perfetto equilibrio tra sperimentazione digitale e rappresentazione visiva. Realizza suoni per ambientazioni reali (club, gallerie d’arte, sale da concerto, caffè, barche, ecc)collabora con i maggiori rappresentanti dell’elettronica avant (Sachiko M, Ikue Mori, Marina Rosenfeld, Oren Ambarchi, Christian Fennesz) e non si lesina nessun tipo di commistione artistica. Particolarmente interessante “cd cècile”, tra bordate noise e destrutturazioni d’un ritmo mai così martoriato.
Ryoko Kuwajima, insieme alla glich-pop-girl AGF (alla anagrafe Antye Greie-Fuchs), rappresenta la nuova frontiera della scomposizione digitale della voce. Sperimentalismi per un corpo ucciso, battuto, picchiato. Il disco in questione è un lavoro calcolato nei minimi particolari, senza lasciare niente al caso. Varie influenze vengano centrifugate con un gusto che contraddistingue le quattre artiste in gioco. In “Tzungentwist” sembra di sentire una b-sides di “Westernization Completed” (album di AGF), “My Within” è un tritacarne sonoro in cui si susseguono staffilate noise, pulviscoli glitch e un cantato che più spappolato di così non si può. Le frequenze disturbate di “Avoiding Shopping” scivolano dentro un tunnel fatto di ghiaccio e di acciaio. E’ un elettronica algidamente emozionale, frastagliata di espressionismo e strutturata secondo l’emblema di un caotico convergere verso la pienezza del senso. Battono il tempo sinistre scansioni tribaloidi (si veda anche il pastiche di “Kuchen Keiki Cake”), diffuse e deformate dentro l’avvolgersi tenebroso delle voci (“Birken”). “Disaster” è pura laptop-music, tra sciabordio metallico, sfrigolio minimale e drones rumorosi. Come un microrganismo digitale sezionato al microscopio, dentro l’alveo di una profondità kosmische e avvolgente, come accade nel vortice di “Stop No. 394 Falkirk Street” o in quello, più magmatico, di “Prologue”. Se “Aikokuka” è un simpatico intrecciarsi tra animi orientali e pugnalate digitali, con fiotti di sangue che scorrono ovunque, e “Funeral” rappresenta uno dei pezzi di ambient isolazionista più completi e concisi mai ascoltati nel 2005, dal canto suo, “Heimat” sviluppa ulteriormente l’incrocio febbrilmente austero tra corpo digitale ed anima post-romantica. Il suono, il suo oblio manifesto e, al contempo nascosto, con bleeps che schizzano ovunque, si ritrova ridotto a dover fare i conti con la nitida ed assoluta consapevolezza di un’assenza, percepibile come un vuoto marginale eppure meticolosamente condottosi lungo i bordi della percezione. E non è un caso, dunque, che il disco scivoli via con una “Overture”, al passo confuso ma sommativo di un’elettronica che sembra voglia aprire, o quantomeno additare con estrema decisione il suo futuro più lontano.

(7)

Recensione di Alessandro Biancalana e Francesco Nunziata

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