martedì 27 dicembre 2005



Amalgamated Sons Of Rest - s/t (Galaxia, 2002)

Il trio Jason Molina, Will Oldham e Alasdair Roberts cesella 7 pezzi di puro miracolo cantautoriale. Ombrosità, lacrime, tristezza.
Sovente la sola chitarra riempie il poco lasciato vuoto dalla voce. Si passa da quella di Molina, emozionale e stupendamente imperfetta alla granitica di Oldham. Silenzi, dolore, ricordi.
Occasionalmente il procedere regolare viene screziato da percussioni, rumori assortiti e battiti umani. Sospiri, pensieri, cattiveria.
L'intro di Maa Bonny Lad strappa più di un sorriso per il procedere dinoccolato e il gusto di tradizione.
My donal ci fà soffrire e piangere, come non mai.
The Gipsy he-witch riprende il Molina-style con qualche variante gustosa.
The last house opera ai fianchi della folk-song classica e la onora con sapore amaro e stridente. Un leggero suono di moog lacera e satura lo spazio sonoro.
Major March non smette di impartire lezioni su quanto sia espressivo il nuovo folk. Mai un tono fuori posto, mai un accenno disgraziato. Cori in lontananza riempiono il nostro cuore.
Jennie Blackbird's Blues è sostenuta da un piano distante migliaia di chimoletri, piccoli rumori repentini tornano a farsi sentire. La voce decanta la sua storia, un menestrello frustrato davanti al suo re. Un rullante scandisce i battiti del malcapitato. Urla la sua libertà, senza freno.
I will be good ritorna dagli inferi e alza l'umore dell'opera con cori a fare da accompagnamento alla voce principale. Mood country, anima medievale.
Parole sicure, malcapitate, decise, strazianti.
Opera profonda, sentita, emozionale.
Raramente capita di ascoltare tutto ciò assieme.
Splendente.

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